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Il fantasista Vincenzo D’Amico

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Il fantasista Vincenzo D’Amico

C’è un ruolo nel gioco del calcio, invero poco codificato perché sfugge alle leggi di qualsiasi codificazione calcistica, un ruolo che inevitabilmente finisce per accendere i sogni dei tifosi: quello del fantasista, giocatore per definizione atipico. Chi lo interpreta finisce per fare innamorare, calcisticamente, di sé, pur contro qualsiasi logica, pur con apparizioni effimere, ma irraggiungibile per le sue giocate. La storia del calcio è piena di questi personaggi, spesso estrosi quasi fino all’autodistruzione: George Best, il più famoso di tutti, ma anche Paul Gascoigne, o Gigi Meroni, i classici “genio e sregolatezza”. A questa categoria si può certo ascrivere la parabola calcistica di Vincenzo D’Amico, che ci ha lasciato in queste ore.

Il biancoceleste della Lazio come seconda pelle, è proprio nella squadra romana che Vincenzino, come era chiamato, ha dato il meglio di sé, grazie ai buoni auspici di Tommaso Maestrelli. L’artefice della prima gloria laziale si era innamorato del talento calcistico, innegabile, di D’Amico, al punto di preferirlo al più esperto Pierpaolo Manservisi, titolare nel centrocampo della Lazio del 1973/1974. E fu ben ripagato, perché D’Amico si rivelò la spalla ideale di Giorgione Chinaglia, portando i biancocelesti allo storico scudetto conquistato in quella stagione.

Questo nonostante alcune recensioni negative, che mettevano in risalto proprio la discontinuità del giocatore. Quella discontinuità che ne avrebbe caratterizzato le stagioni successive, tanto da portare alla cessione, anche per ragioni economiche, al Torino. In maglia granata, però, egli non trovò il suo habitat, tanto da ritornare alla casa madre dopo un solo anno, contribuendo alla storica salvezza laziale in Serie B, nella squadra allenata da Eugenio Fascetti.

Nonostante il talento, nulla è stata la sua carriera in Nazionale, convocato da Enzo Bearzot, con cui poi entrò anche in polemica, una sola volta, ma senza scendere in campo. La chiusura, infine, nella Ternana, provando con scarso successo la carriera di allenatore, prima di riciclarsi come opinionista. Una carriera indubbiamente al di sotto delle sue capacità, penalizzato dalla sua scarsa adesione alle normali regole di un atleta, che ne hanno condizionato pesantemente la parabola, anche se ha saputo ritagliarsi i suoi momenti di gloria. E lo ha fatto in quella Lazio che di genio e sregolatezza ne aveva in abbondanza, e che purtroppo, con la sua morte, fa segnare un altro capitolo negativo di quella squadra, quasi fosse una maledizione.

Prima lo stesso Maestrelli, subito dopo la vittoria dello scudetto, poi la tragica fine di Luciano Re Cecconi, quella ancora di Chinaglia, l’ultima di Pino Wilson, il capitano, che aveva preso sotto la sua ala protettiva Vincenzino, l’ultimo Golden Boy della squadra dello scudetto.

GLIEROIDELCALCIO.COM (Raffaele Ciccarelli)

 

 

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