Arte & Società
Il gioco più bello del mondo: la narrazione del calcio da Sfide ai programmi di Federico Buffa
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3 anni agoon
GLIEROIDELCALCIO.COM (Carmine Marino)
1. Benché la carta stampata e la radio avessero costantemente perseguito l’obiettivo di raccontare il calcio, conferendogli piena dignità letteraria attraverso le opere di veri e propri «scrittori di sport» come Gianni Brera e Giovanni Arpino, a cui bisogna aggiungere i documentari radiofonici di Sergio Zavoli e Nando Martellini, la televisione italiana ha iniziato a praticare la narrazione del football solo in tempi relativamente recenti. Alla grande popolarità del calcio come fenomeno sociale, talvolta così potente da annunciare perfino trasformazioni di sistema, non è corrisposta un’operazione editoriale che inducesse la televisione a spingersi oltre la cronaca del semplice fatto agonistico e, di conseguenza, a indagare e scoprire il valore simbolico e culturale del pallone. Se si escludono pochi, isolati tentativi di divulgazione calcistica – perlopiù concentrati nella seconda metà degli anni Ottanta – la televisione ha cominciato a sperimentare i nuovi codici della narrazione applicata al calcio solo nell’ultimo ventennio. Il successo di una trasmissione come Sfide – il primo tentativo di costruire un racconto televisivo intorno al calcio e allo sport in generale – ha preparato il terreno a una serie di progetti che, fin dal titolo, hanno rivelato apertamente l’intenzione di narrare storie che non fossero circoscritte al ristretto orizzonte calcistico, mettendole in stretta comunicazione con la storia e con la cultura di massa. Grazie a questa formula, lo storytelling calcistico è diventato un genere televisivo a sé stante, con i suoi programmi-archetipo (Lo sciagurato Egidio e L’uomo della domenica di Giorgio Porrà, i cicli di Federico Buffa racconta e le Storie di Matteo Marani) e molteplici rivisitazioni dei modelli di partenza, che hanno così allargato i confini della narrazione calcistica all’editoria libraria, alla radio, alle piattaforme di podcasting ed ai siti Internet, con i social network nell’inedito ruolo di custodi (talora parziali e dispersivi) della memoria calcistica.
Quando inizia a manifestarsi il desiderio di narrare e condividere le storie sul calcio ed i suoi protagonisti? Prima di rispondere a questa domanda, è necessario riflettere brevemente sull’evoluzione del giornalismo sportivo in Italia. A tal proposito, è utile richiamare la brillante classificazione proposta da Gian Paolo Ormezzano ne I cantaglorie. Secondo Ormezzano, la storia del giornalismo sportivo si articola in tre fasi, a cui corrispondono altrettante tipologie di racconto e di narratori: l’età dei «cantori» – a cui appartengono cronisti (Ruggero Radice, Bruno Roghi, Bruno Raschi) e scrittori (Dino Buzzati, Alfonso Gatto) che, cimentandosi soprattutto con il racconto del ciclismo nel secondo dopoguerra, intrecciavano l’evento sportivo con ampie divagazioni di colore; la stagione degli «erotisti», capitanati da Brera, che privilegiarono nelle loro cronache l’analisi del gesto tecnico, con una conseguente specializzazione dei contenuti e, naturalmente, del lessico; l’epoca dei «pornografi», nella quale il giornalismo scritto tradizionale è stato progressivamente soppiantato dall’ampliamento dell’offerta televisiva e ancor più dall’espansione dei nuovi media che, puntando su una comunicazione perlopiù rapida ed essenziale, hanno obbligato i quotidiani sportivi a rinunciare quasi del tutto ad approfondimenti e riflessioni più meditate. Ciononostante, proprio nell’ultimo quarto di secolo, la televisione – che pure ha trasformato in maniera radicale l’intero mondo dello sport a tal punto che «i vari eventi [sono] subordinati alla riproduzione televisiva» ed alla collocazione nei palinsesti – si è ritagliata un ruolo diverso, raccogliendo in parte l’eredità del giornalismo scritto: raccontare ciò che non si vede su campo di calcio, cercando una sponda nel cinema, nella musica, nella letteratura e nella storia. Un tentativo di nobilitare la materia calcistica che ha talvolta prodotto un effetto inaspettato: rendere la cornice (lo storytelling) più interessante e attraente del quadro (l’evento calcistico).
Ad onor del vero, nella seconda metà degli anni Ottanta la Rai aveva già tentato, seppure in maniera disorganica ed episodica, di trattare il calcio con un approccio diverso, muovendosi perlopiù tra cronaca e memoria. Il primo esempio di questo genere è senza dubbio Tv Stadio, in onda su Raiuno nell’estate del 1985. La trasmissione (condotta da Paolo Valenti con la collaborazione di Carlo Nesti) era pensata come un’enciclopedia ragionata del calcio italiano, suddivisa in otto “percorsi” tematici, tra cui si segnalano le retrospettive sulla Nazionale italiana, di cui si ripercorrono le partite storiche giocate contro Inghilterra, Germania e Brasile, e le puntate dedicate alla rivalità tra i grandi club del calcio italiano. Alla riproposizione delle immagini d’archivio Tv Stadio affiancava le testimonianze in studio di calciatori e allenatori del passato e del presente, quasi a voler cercare un punto di congiunzione tra culture e tradizioni calcistiche lontane nel tempo.
Un’evoluzione sul tema dell’amarcord calcistico fu senza dubbio Campioni – Le più belle partite della nostra vita, trasmesso su Raitre nell’estate del 1987. La riproposizione integrale di dieci sfide celebri giocate tra il 1964 e il 1984 divenne il pretesto per ragionare sui cambiamenti sociali e culturali che attraversarono il nostro Paese. Con un approccio più romantico che tecnico all’evento calcistico, i conduttori della trasmissione – Andrea Barbato, Enzo Biagi e Gianni Minà – sperimentarono per primi una formula che avrebbe ispirato molte trasmissioni consacrate alla memoria del pallone: il calcio inteso come specchio fedele delle nostre vite e cornice narrativa ideale in cui cristallizzare miti generazionali, icone e simboli di un passato giocoforza irripetibile.
Seppure non appartenga in senso stretto al filone della narrazione calcistica, Anni azzurri – Memorie di mezzo secolo tra sport e costume, in onda su Raitre nella stagione 1994-1995, ha senz’altro abbozzato una nuova concezione del racconto sportivo. Un indizio di questo mutamento si può rintracciare nella sigla della rubrica, nella quale le immagini in bianco e nero di celebrità dello sport e del costume sono punteggiate dai versi di una poesia di Maurizio Cucchi, ‘53:
L’uomo era ancora giovane e indossava
un soprabito grigio molto fine.
Teneva la mano di un bambino
silenzioso e felice.
Il campo era la quiete e l’avventura,
c’era il kamikaze,
il Nacka, l’apolide e il Veleno.
Era la primavera del ‘53
l’inizio della mia memoria.
Luigi Cucchi
era l’immenso orgoglio del mio cuore,
ma forse lui non lo sapeva.
Per la verità, l’afflato letterario della sigla si perde ben presto nel corso della trasmissione, in cui Claudio Ferretti alterna gli episodi più celebri della storia del calcio e dello sport tricolore a frequenti incursioni nel territorio del costume e dell’aneddotica, con la complicità di Umberto Broccoli e Louis Godard, entrambi sensibili all’eco dei ricordi e della nostalgia.
2. Alla fine degli anni Novanta, però, si impone un decisivo cambio di passo nel modo di intendere e raccontare lo sport: con la nascita di una casa editrice specializzata come Limina, fondata ad Arezzo da Gabriele Maietti, l’editoria si accorge delle potenzialità dello sport da raccontare e da tramandare, privilegiando soprattutto le biografie degli sportivi. Quasi simultaneamente, anche la televisione compie la medesima operazione, un po’ per necessità – dal momento che i grandi eventi cominciano pian piano a prendere la strada delle piattaforme satellitari a pagamento – un po’ per il desiderio di sviluppare formule e linguaggi inediti. Con queste premesse, nel 1998 debutta in sordina il programma-capostipite della narrazione sportiva di nuova generazione: Sfide, originariamente collocato nella tarda serata di Raitre. Fin dal sottotitolo, Lo sport come non lo avete mai visto, il programma di Simona Ercolani e Giovanni Filippetto si incarica di proporre storie di calcio e di sport con un taglio decisamente diverso dal passato: le analisi tecniche e gli approfondimenti lasciano spazio a un racconto pensato per un pubblico di non-appassionati, interessato a conoscere il lato umano dei grandi protagonisti dello sport. Sarà proprio questa scelta a decretare il successo di Sfide, che conquisterà persino la prima serata con una serie di ritratti dei campioni più amati (per esempio, Ayrton Senna, Gilles Villeneuve, Marco Pantani) e un ciclo di speciali sulla storia della Coppa del Mondo di calcio, Sfide mondiali. La rievocazione degli eventi diventa sistematicamente liturgia delle emozioni: un aspetto che risalta soprattutto nella puntata dedicata alla vittoria della Nazionale italiana ai Mondiali di Germania 2006, non a caso intitolata Riscatto azzurro. In questo episodio, risalente al 2009, gli autori di Sfide seguono il processo di redenzione del calcio italiano, dallo scandalo Calciopoli che precedette il debutto degli azzurri al trionfo nella finale di Berlino, inquadrandolo in una dimensione epica, rafforzata soprattutto dal tono della narrazione.
Il vero salto di qualità avviene però all’inizio degli anni Duemila, quando la pay-tv avvia una contaminazione tra linguaggi, generi e stili che proietta il calcio in una più ampia dimensione culturale e sociale. Sarà proprio questa la cifra distintiva di una trasmissione di culto come Lo sciagurato Egidio, in onda prima su Tele+ Nero, poi su Sky Sport dal 2002 al 2006. L’idea sviluppata dal conduttore Giorgio Porrà è ambiziosa: ribaltare il punto di vista dal quale scaturiscono le discussioni sul calcio. Nel corso della trasmissione, scrittori, intellettuali e registi prendono la parola sulle questioni strettamente tecniche, lasciando ai calciatori del passato e del presente il compito di esplorare le infinite relazioni tra il calcio e il mondo della cultura. Questo scambio di ruoli porta il giornalista musicale Carlo Massarini a esaltare il talento calcistico di Bob Marley, mentre i campioni del passato Zvonimir Boban e Gianluca Vialli prestano la loro voce alle pagine d’autore della letteratura calcistica. Seppure con qualche differenza, questa mescolanza di stili e contenuti ispirerà anche il successivo L’uomo della domenica, un ciclo di monografie sui personaggi del calcio italiano curato per Sky Sport a partire dal 2016. Ciascun episodio de L’uomo della domenica si sviluppa intorno a tre parole-chiave, ciascuna delle quali è introdotta da una citazione cinematografica e da una massima che diventano così motore della stessa narrazione, in cui il calcio diventa sempre più argomento di cultura e di discussione “alta”.
L’emblema di questo processo di teatralizzazione del racconto calcistico è indubbiamente Federico Buffa. Conosciuto per le sue telecronache del campionato di basket NBA in compagnia di Flavio Tranquillo, Buffa ha debuttato nelle vesti di narratore sportivo nella stagione 2012-2013, quando curò una serie di ritratti di grandi personaggi del basket americano (“Pistol” Pete Maravich, Wilt Chamberlain) nella rubrica L’NBA dei vostri padri, trasmessa negli intervalli delle partite. Il passo successivo fu la preparazione nell’autunno 2013 di due speciali su Michel Platini e Diego Armando Maradona, con i quali prese il via la serie Federico Buffa racconta, diventata nel corso degli anni la pietra di paragone della nuova narrazione calcistica sia dal punto di vista stilistico, sia sul piano strettamente televisivo.
Quali sono le prerogative del «modello Buffa»? Il primo elemento riconoscibile nelle sue trasmissioni è la forza evocativa della parola narrata: la nuda cronaca degli eventi – alla base del ciclo Storie mondiali, proposto nel 2014 alla vigilia della Coppa del Mondo in Brasile – diventa il pretesto per un’invenzione linguistica e narrativa che trasforma lo studio televisivo in uno spazio scenico, letteralmente dominato da Buffa, che segue la linea di un racconto ora misurato, ora dirompente. I dieci episodi di Storie mondiali non seguono lo spartito della memoria collettiva: al contrario, il ricordo delle partite si confonde e si perde nell’immaginazione, come se quelle partite si fossero rigiocate un’altra volta. Il registro scelto da Buffa è quello dell’affabulazione colta: il calcio non è mai soltanto un gioco, ma diventa il pretesto per attraversare i confini della storia – come nella puntata dedicata a Italia ’90, l’ultimo mondiale disputato dalle Nazionali che appartenevano alla dimensione geopolitica della guerra fredda (Germania Ovest, Jugolslavia, Unione Sovietica) – e per dialogare con la letteratura e la musica, ben presente nei monologhi che chiudono ciascuna puntata.
A differenza di tutte le altre trasmissioni presentate in precedenza, Federico Buffa racconta si colloca in un orizzonte marcatamente letterario. Dove si può rintracciare questa impronta letteraria? Buffa e la sua squadra di autori (Christian Giordano, Carlo Pizzigoni) rileggono l’evento sportivo in una dimensione marcatamente romanzesca. Un utile riscontro è fornito da un brano sui Mondiali del 1990 pubblicato in Nuove storie mondiali, il volume che raccoglie i testi recitati da Buffa per la trasmissione di Sky Arte e Sky Sport:
Il Mondiale ha […] un altro antefatto […]: in una notte di novembre ’89 è caduto il muro di Berlino. E il calcio, nel «secolo del calcio», non può non risentirne.
L’Unione Sovietica non è più né tanto unita, né tanto sovietica, e la Jugoslavia… La Jugoslavia avrebbe uno squadrone: a mio modo di vedere, sono da finale o almeno da semifinale. Perdono però la prima partita al Meazza 4-1 contro la Germania.
Sono seguiti ancora da tanti tifosi, molti dei quali erano in questo stesso stadio, più o meno un anno prima, in occasione del secondo turno di Coppa dei Campioni, quando la Stella Rossa ha incontrato il Milan di Sacchi […]. All’epoca il Milan concedeva ai propri abbonati di vedere le partite di Coppa dei Campioni nello stesso posto dove assistevano a quelle di campionato. Io, con mio papà (che però sarebbe arrivato un po’ in ritardo) e soprattutto con mia mamma, ci siamo presentati al primo anello verde, come sempre, ma questa volta lo abbiamo trovato leggermente occupato: c’è una falange biancorossa.
Mia madre, ingenua rossonera, si è rivolta a uno della quarta fila dicendo: «Signore, quello lì sarebbe il mio posto». Io non so disegnare, però saprei tratteggiare certamente il volto di quell’uomo. È un volto che non prende prigionieri e quel giorno è circondato da alcuni pretoriani tutti per sé. Il suo nome è Željko Ražnatovič e alla storia passerà con il nome di «Arkan», comandante Arkan. Quelli attorno a lui erano le sue tigri. A ogni modo, la Stella Rossa è fortissima, la Jugoslavia è fortissima, ma la filastrocca che li accompagna dal ’45 in poi: «Sei nazioni, cinque religioni» e che finiva con «un Tito!» non ha più ragione di esistere.
Il maresciallo non c’è più, la Jugoslavia realmente non c’è più, e qualche anno più tardi ce ne accorgeremo tutti.
Benché si possa legittimamente dubitare della genuinità di questo episodio, non c’è dubbio che la personalizzazione del racconto sia la chiave del successo così vasto del «modello Buffa», che ha a sua volta consacrato un «nuovo genere televisivo […] affollato di imitatori» ed è diventato persino oggetto di una spassosa parodia in rete.
Se le Storie mondiali possono essere considerate un viaggio tra epoche e generazioni accomunate dalla comune passione per il calcio (e dal fascino sottile della parola narrata), i racconti dedicati ai grandi campioni del passato somigliano a tanti romanzi di formazione, utili per ricostruire il lato umano dei protagonisti. Tutto questo non si spiega soltanto con un ampio ricorso all’aneddotica e alle spigolature: Buffa viaggia nei luoghi d’infanzia dei suoi idoli (George Best, Alfredo Di Stefano, Ferenc Puskás), visita stadi celebri e campetti di periferia, si concede persino il lusso di fare un passo indietro, lasciando la parola a testimoni diretti e compagni di squadra dei grandi campioni. Quest’ultimo aspetto sarà il tratto distintivo del racconto (in due parti) dedicato al difensore della Juventus e della Nazionale italiana Gaetano Scirea, trasmesso su Sky Sport nel 2019: il racconto di Buffa è intervallato dagli aneddoti dei suoi compagni di squadra (Dino Zoff, Cesare Prandelli, Marco Tardelli) e dai ricordi dei suoi familiari. Dal punto di vista narrativo, dunque, l’invenzione pura – che può essere considerata la vera chiave della popolarità di Buffa – cede il posto alla testimonianza viva, ancorché subordinata alla centralità del cantore che tiene in mano i fili dell’intero racconto.
I racconti di Federico Buffa possono dunque essere intesi come un omaggio all’unicità del campione che si è fatto mito: non è un caso che gli aneddoti dell’infanzia – presenti sia nell’omaggio a Scirea, sia nel racconto dedicato a Gigi Riva, L’uomo che nacque due volte (2019) – siano un topos ben riconoscibile nei suoi lavori. Allo stesso tempo, Buffa ribadisce la sua adesione ai canoni dello storytelling, scegliendo di introdurre ciascuna storia come se fosse una parabola dal respiro universale: «Ci è dato sapere da dove veniamo. Spesso, però, non siamo in grado di distinguere dove stiamo andando. Di sicuro, non ci è concesso di sapere dove andremo», ricorda Buffa all’inizio dello speciale su Scirea. Da questi dettagli non si evince soltanto la volontà di stabilire un’immediata empatia con il pubblico in ascolto, scegliendo un registro fortemente emozionale, ma soprattutto l’ambizione di raccontare storie che si spingano al di là del loro orizzonte cronologico di riferimento per diventare patrimonio di tutti.
Storie di Matteo Marani – L’inchiesta – in onda dal 2018 su Sky Sport – sceglie invece un taglio narrativo completamente diverso: se gli autori di Sfide – così come Federico Buffa – trascendono il semplice dato di cronaca per cavalcare l’onda delle emozioni (personali e collettive a un tempo), l’ex direttore del Guerin Sportivo ripercorre gli episodi più celebri della storia del calcio italiano e internazionale con un approccio più tradizionale – un’inchiesta giornalistica vera e propria, con tanto di testimonianze e documenti inediti – ma non per questo meno coinvolgente. Il calcio, inteso come fenomeno sociale, diventa la chiave per allargare il discorso al contesto storico e culturale delle epoche attraversate dalle inchieste di Marani: i fatti raccontati hanno la precedenza sui loro risvolti emotivi.
Quali sono i tratti distintivi delle sue inchieste? In primo luogo, Marani si presenta come una figura di raccordo tra i capitoli di ciascuna storia e sceglie perciò un registro essenziale e misurato, tant’è vero che la narrazione vera e propria è affidata a una voce fuori campo. L’aspetto di maggiore interesse – strettamente collegato alla formula dell’inchiesta giornalistica – è però il recupero di preziosi documenti d’archivio che offrono nuove chiavi di lettura degli eventi, il cui impatto non è mai circoscritto al solo contesto sportivo: la puntata che ricostruisce la trattativa per il passaggio di Maradona al Napoli, per esempio, sconfina nell’indagine di costume sulle trasformazioni sociali dell’Italia degli anni Ottanta (la consacrazione della televisione commerciale, la nascita del movimento dei paninari). Allo stesso modo, le due inchieste sulla rivalità tra Torino e Juventus nel biennio 1976-1977 (Torino di piombo) e sulla tragica morte del tifoso laziale Vincenzo Paparelli allo stadio Olimpico di Roma nell’ottobre 1979 (Roma violenta) ricostruiscono i passaggi cruciali degli «anni di piombo» con il contributo di storici e giornalisti. Storie di Matteo Marani si presenta quindi come un esempio di narrazione a più livelli, per certi versi affine al documentario classico, che si discosta dalle altre trasmissioni calcistiche qui analizzate perché lavora sulla memoria senza piegarla alle esigenze del racconto: mentre i programmi di Federico Buffa agiscono sull’immaginario di chi ascolta – come se le Storie mondiali o i grandi campioni rivivessero una seconda volta grazie al potere ammaliante della parola – le trasmissioni di Matteo Marani riportano il calcio nel solco della storia.
3. Com’è cambiato il modo di raccontare il football nell’era della comunicazione digitale? La fortissima espansione dei podcast ha certamente moltiplicato le potenzialità della parola narrata e, di riflesso, le trasmissioni sulla storia del calcio. L’influenza del «modello Buffa» – che si può rintracciare in una serie come Diario di campo (2020) – ha in parte smorzato la ricerca di nuove formule narrative che, ripercorrendo le strade della memoria, offrissero nel contempo uno sguardo inedito sul fenomeno calcistico. Tuttavia, si possono comunque ravvisare alcune eccezioni: la trasmissione di Radio1 Numeri primi – che coniuga il linguaggio dei radiodocumentari con i canoni dello storytelling – e il ciclo Cronache dei 90 (2018-2019), curato dal portale Storielibere.fm.
Condotto dal giornalista Francesco Graziani, Numeri primi – Storie senza uguali si sofferma su vicende poco note che hanno per protagonisti celebrità o personaggi dimenticati del mondo del calcio e dello sport italiano e internazionale. In questo format, l’aspetto agonistico non è centrale nella narrazione, che invece si sofferma sulle scelte e sulle azioni dei protagonisti a riflettori spenti. In questo modo, Graziani delinea i ritratti di uomini che antepongono la coscienza alla gloria (il capitano della Nazionale argentina, Jorge Carrascosa, che rinuncerà a giocare i Mondiali di calcio del 1978 per protesta contro le violenze della dittatura militare) e che riescono a non tirarsi indietro neppure di fronte al dolore più indicibile (il danese Kim Vilfort, tra i protagonisti della vittoria della Danimarca agli Europei del 1992, che rimase accanto alla figlia in fin di vita). Le icone di Numeri primi non sono vincenti in senso stretto, ma passano comunque alla storia perché autentiche nelle loro imperfezioni, combattono con la stessa determinazione dentro e fuori dal campo. D’altra parte, Graziani non elenca vittorie e trionfi delle sue creature: al contrario, ne mette in mostra i dilemmi interiori e le contraddizioni.
Cronache dei 90, invece, è incentrato sulle partite e sui campioni più celebri dell’ultimo scorcio del Novecento calcistico. Anche in questo caso, la storia di una città o di un intero paese è un passaggio obbligato per arrivare al cuore del racconto, che è dunque subordinato a una più generale contestualizzazione dell’evento agonistico. La stessa ricostruzione delle partite segue più il registro della cronaca che gli artifici della retorica: la voce narrante (il telecronista Stefano Borghi) introduce le caratteristiche tecniche dei 22 protagonisti in campo, senza disdegnare qualche aneddoto, prima di concentrarsi sugli episodi salienti di ciascuna gara. Ancorché debitore alla nostalgia, Cronache dei 90 rifiuta la celebrazione fine a sé stessa: piuttosto, si incarica di catturare un’epoca irripetibile per qualità e varietà degli interpreti, senza tuttavia cedere alla tentazione di formulare paragoni con il calcio contemporaneo.
Gli ultimi due casi presi in considerazione – a cui si possono senz’altro aggiungere le Storie di Matteo Marani – sono paradigmatici del nuovo corso dello storytelling calcistico: a differenza del «modello Buffa», spinto dal suo stesso creatore fino all’autoreferenzialità, questo genere di trasmissioni ha dimostrato l’importanza di analizzare e comprendere i contesti storici e sociali in cui il calcio ha via via assunto il carattere di fenomeno globale. Tuttavia, proprio la globalità del fenomeno dovrebbe portare a una maggiore sensibilità verso le nuove culture del football mondiale, a cominciare dal settore femminile: queste narrazioni, infatti, sono state fino ad oggi del tutto episodiche. Allo stesso modo, è necessario chiedersi quali possano essere i confini dello storytelling: l’urgenza di raccontarsi, più che di raccontare, rischia seriamente di trasformare la narrazione calcistica e sportiva in un mero spettacolo della parola.
1 Tra le sue opere più importanti, vale la pena di citare almeno la Storia critica del calcio italiano, Milano, Bompiani, 1975
2 Cfr. Giovanni Arpino, Azzurro tenebra, Milano, BUR, 2010 (prima edizione: Torino, Einaudi, 1977)
3 Entrambi furono autori di documentari a tema calcistico: Martellini firmò L’arbitro nel gioco del calcio (1953), mentre Zavoli si occupò del calcio di provincia ne La palla è rotonda. Piccola inchiesta sul calcio minore (1955). A tal proposito, cfr. Roberto Pelucchi, Le voci della domenica. Storia romantica di 90 anni di sport alla radio, Azzano San Paolo (Bergamo), Bolis, 2019, pp. 61-62
4 Cfr. Guido Crainz, Autobiografia di una Repubblica. Le radici dell’Italia attuale, Milano, Feltrinelli, 2012 (prima edizione: Roma, Donzelli, 2009), pp. 148-149
5 Gian Paolo Ormezzano, I cantaglorie, Roma, 66th and 2nd, 2015
6 Ivi, p. 13
7 Gianfranco Teotino, Il calcio al mercato della tv, in Aldo Grasso (a cura di), Storie e culture della televisione italiana, Milano, Mondadori, 2013, p. 402
8 Per una presentazione dettagliata della trasmissione, cfr. “Radiocorriere – TV”, 33/1987, pp. 42-48
9 Questi soprannomi furono attribuiti ai giocatori che componevano il tridente d’attacco dell’Inter nei primi anni Cinquanta: lo svedese Lennart Skoglund (1929-1975), il franco-ungherese István Nyers (1924-2005) e Benito Lorenzi (1925-2007)
10 Maurizio Cucchi, ’53, in Poesia della fonte, Milano, Mondadori, 1993
11 Il caso più eclatante è certamente la biografia di Roberto Baggio Una porta nel cielo, pubblicata per la prima volta da Limina nel 2001.
12 «L’idea di raccontare lo sport da non addetti ai lavori, sviluppando le potenzialità del racconto, ci affascinava. Anche i registi e gli autori che ho chiamato a lavorare con me non avevano esperienza di giornalismo sportivo […]. Sfide […] trasferisce allo spettatore il proprio sguardo affettuoso, la propria curiosità per le storie, ma soprattutto per le persone». Laura Tettamanzi, In deep: lo sguardo caldo di Sfide. Intervista a Simona Ercolani, in “Link – Idee per la televisione”, 2005, 4, p. 195
13 https://www.raiplay.it/video/2009/11/Riscatto-azzurro—Sfide-11e05f64-77d2-48b1-804e-34edc73cfcc8.html (URL verificato il 1° luglio 2021)
14 «[La sua è] una moderna forma di monologo teatrale tutta giocata sul fascino dell’affabulazione». Grasso, Sport e società. Il ’68 visto da Buffa diventa una storia epica, in “Corriere della sera”, 28 dicembre 2017, p. 55
15 Federico Buffa – Carlo Pizzigoni, Nuove storie mondiali, Milano, Sperling&Kupfer, 2018, pp. 168-169
16 Grasso, Gaetano Scirea rivive nel commovente racconto di Buffa, in “Corriere della sera”, 24 dicembre 2018, p. 55
17 Alla vigilia dei Mondiali in Brasile, un terzetto di comici – gli Autogol – ha rivisitato le Storie mondiali di Federico Buffa, realizzandone una parodia ispirata ai cartoni animati di Holly e Benji: Federico Buffa racconta: Il grande Giappone di Holly e Benji. Il filmato ha superato i quattro milioni di visualizzazioni su YouTube. Cfr. https://www.youtube.com/watch?v=fzKyOpJR3FE (URL verificato il 9 giugno 2021).
18 Cfr. Grasso, Buffa trasforma la parabola del riscatto di Gigi Riva in una favola, in “Corriere della sera”, 16 dicembre 2019, p. 55
19 Questa propensione si avverte allo stesso modo nell’incipit dello speciale su Riva, nel quale il montaggio amplifica la portata delle parole lette da Buffa in voice over: «L’acqua ci restituisce il riflesso di noi stessi, di ciò di cui siamo innamorati o che non vorremmo perdere mai. È cambiamento di stato, è suono, è simbolo, è transizione. E poi è duttile: può cancellare un ricordo, può custodirlo o nasconderlo. Ma soprattutto […] l’acqua sa aspettare».
20 «Le biografie di eroi calcistici costituiscono una rivitalizzazione di miti e archetipi, come la lotta contro il nemico invincibile, che connota le imprese leggendarie (per esempio Gigi Riva, capace di condurre allo scudetto il “piccolo Cagliari” contro i grandi club del Nord) […] Il racconto trasforma l’eccellenza e il talento in una biografia esemplare, cui concorrono sia la carriera sportiva, sia la vita privata […]. La biografia dell’eroe, attraverso la narrazione, acquisisce una dimensione epica e leggendaria, nella misura in cui incorpora successi, trionfi, cadute e fallimenti (fall and rise biography), coinvolgendo i fan in un’intensa altalena emozionale». Mario Tirino, Simona Castellano, Football Re(me)mediation: i meme e l’estetizzazione dell’emozione calcistica nelle comunità social, in “H-Ermes. Journal of Communication”, 16, 2020, p. 53-54.
21 Tra le puntate monografiche più interessanti, si ricordano: 1984, Ho visto Maradona; Argentina 1978, il Mondiale desaparecido; Torino di piombo, 1977; 1990, il caso Baggio e 1979, Roma violenta.
22 Cfr. la copia del contratto per il trasferimento di Diego Armando Maradona dal Barcellona al Napoli, dal quale emerge il ruolo decisivo del Banco di Napoli nella trattativa.
23 Cfr. Grasso, Maradona e Napoli, letture sociologiche di un genio del calcio, in “Corriere della sera”, 9 luglio 2019, p. 55
24 A tal proposito, è esemplare la puntata sui Mondiali del 1978, in cui le vicende agonistiche fanno da sfondo alla ricostruzione delle violenze e delle oppressioni del regime militare di Videla.
25 https://www.spreaker.com/show/diario-di-campo (URL verificato il 30 giugno 2021)
26 https://www.raiplayradio.it/programmi/numeriprimi/ (URL verificato il 30 giugno 2021)
27 https://www.spreaker.com/show/cronache-dei-90 (URL verificato il 30 giugno 2021)
28 Cfr. l’episodio dedicato al quarto di finale di Coppa Uefa tra Genoa e Liverpool, con un inevitabile richiamo alla primogenitura del calcio a Genova su iniziativa degli inglesi. Su questo argomento, cfr. John Foot, Calcio 1898-2010. Storia dello sport che ha fatto l’Italia, Milano, BUR, 2010, pp. 23-29
29 Cfr. lo speciale di Federico Buffa Donne mondiali, dedicato al trionfo del Giappone ai Mondiali del 2019, e la puntata de L’uomo della domenica di Giorgio Porrà dal titolo Giovinette – Le calciatrici contro il fascismo, trasmessa su Sky Sport nel gennaio 2021.
Nato in provincia di Salerno nel 1986, l'anno della «Mano de Dios». Insegnante di scuola superiore con una passione (a volte corrisposta, a volte meno) per il giornalismo, si riconcilia con il pallone quando ripensa alla liturgia radiofonica di «Tutto il calcio» e al teatrino di «90° minuto». A tempo perso, si occupa del rapporto tra calcio, media e storytelling. Matera e il rock gli fanno battere il cuore.
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