Nella ricorrenza della sua scomparsa avvenuta il 29 maggio 2015, il nostro Mattera ha voluto ricordare così il Petisso Pesaola …
IL PETISSO GIOCATORE
«Sei il calcio che mi hanno raccontato, quello di mio padre che io ascoltavo incantato. Parlava di uomini e maglie e di epiche battaglie. Ti ritroverò ogni mattino nei miei sogni da bambino. Addio Petisso» (Striscione esposto al San Paolo in Curva B nel minuto di raccoglimento in sua memoria)
Questa è una storia di estro calcistico, arguzia tattica e intelligenza umana dispensati fra dita ingiallite, indice e media della mano destra, dalle sigarette, nuvole di fumo, bicchieri di whisky, partite a poker e cappotti di cammello indossati per scaramanzia anche a primavera.
È la storia di Bruno Pesaola, il “Petisso”, il “piccoletto”, uno di quelli che il calcio elegge a mito perché ha reso questo sport per quello che è: un rito magico fatto di storie, non sempre piacevoli, non sempre vittoriose, ma umane.
Il Petisso, chiamato così per i suoi appena 167 centimetri, nasce in Argentina, padre emigrato italiano, la solita povertà dignitosa tenuta con fierezza similmente a tanti altri, i primi passi nel calcio durante la II guerra mondiale nel River Plate.
Gioca all’ala, è tutto sinistro, «Il piede destro lo uso solo per poggiarlo dopo il sinistro», la sua specialità, più dei goal, sono gli assist.
L’Italia del dopo guerra è un paese che va ricostruito, nel quale va ritrovato entusiasmo, è il calcio è un fantastico strumento per farlo.
Così la Roma, interessata a quel piccoletto tutto estro e velocità decide di portarlo in Italia e Pesaola, allettato da un ingaggio da 120mila lire al mese (una fortuna all’epoca), non ci pensa due volte, fa la sua valigia di cartone, indossa il suo abito migliore, e fa il viaggio al contrario del padre.
Il suo approccio non è dei migliori, anche perché frutto di libri di scuola mai costantemente aperti, un mondo che è molto più vasto e sconosciuto in un’epoca dove la TV e la radio erano roba da pochi.
«Attraversammo una zona di rovine archeologiche e le scambiammo per macerie di guerra. Ci guardavamo sbigottiti, chiedendoci dove fossimo capitati»
Nonostante ciò, 90 partite e 20 reti, confezionano un buon rendimento.
Roma è però città tentacolare, quella che poi verrà narrata nella “Dolce vita” di Fellini qualche anno dopo.
Donne, tango, sigarette e alcol sono tentazioni troppo grandi per un ragazzo povero arrivato dalla periferia di Avallaneda, ritrovatosi tutto a un tratto al centro delle attenzioni, suo malgrado ricco e idolatrato frequentatore di ambienti vip.
Così i muscoli rallentano, la velocità diminuisce, lo scatto non è più bruciante e i cori a favore diventano prima sussurri poi invettive di chi gli rinfaccia una vita non da atleta, anche per via di un grave infortunio.
Riparte da Novara, chiamato da Silvio Piola, al quale i suoi assist permettono di tornare, a 39 anni, in nazionale.
E a Novara, in una balera (perché al Petisso tutto puoi togliere tranne il divertimento) conosce la donna della sua vita, Ornella Olivieri, un’incantevole reginetta di bellezza, che gli rimarrà accanto fino al 1986, quando un brutto male la porterà via.
Quando arriva la proposta del Napoli, è la moglie a farlo accettare, ed è un segno del destino.
Anni dopo, di Napoli e del Napoli, il Petisso dirà «Sono un napoletano nato per caso all’estero».
Arriverà a Napoli per fornire gli assist a Jeppson, “ O’ banc’ e’ Napule” per via del trasferimento record costato 105 milioni, insieme a Amadei e, più tardi, a Luis Vinicio, detto “O’Lion”.
Sono anni indimenticabili, fatti da partite memorabili a scanso di bacheche di trofei vuote. In una partita Pesaola e i suoi sodali compagni, umiliano il Milan (che poi diventerà campione d’Italia) a San Siro.
Un certo Beltrandi, del Napoli, fa un tunnel a Pepe Schiaffino, genio del Milan, calciatore inarrivabile per classe e intelligenza.
Il Petisso non ci sta: «Mi sembrò un oltraggio. Rincorsi Beltrandi e gli diedi uno schiaffone. Così impari a rispettare i campioni, gli dissi».
240 partite e 27 gol per Pesaola, e un amore che lo legherà per sempre, a vita, a quella città.
IL PETISSO ALLENATORE
Tanto che, quanto smette di giocare e si cimenta da allenatore alla Scafatese, alla chiamata di un Napoli che rischia, ora in B, di retrocedere in C, il suo dubbio resiste il tempo di chiedere al suo presidente, Romano, come comportarsi. «Segua il suo cuore, Bruno». E il cuore porta il Petisso di nuovo a Napoli dove, tra 40 sigarette al giorno e una partita a poker con Achille Lauro, riporta il Napoli in A e vince il primo trofeo della squadra partenopea, la Coppa Italia, unica squadra di B ad esserci mai riuscita.
Terrà a battesimo un giovanissimo Antonio Juliano, retrocederà in B, verrà esonerato, salvo poi essere richiamato e riportare di nuovo il “suo” Napoli in A.
Vincerà anche un trofeo internazionale, la Coppa delle Alpi, nel 1966, tenendo a bada, lui casinista, un duo di prime donne, Altafini (dal Milan) e Sivori (dalla Juventus, con Lauro che convince Agnelli con l’offerta di acquistare i motori delle sue navi dalla Fiat), che sembrano essere semplicemente venuti a svernare a fine carriera al Napoli.
La ricetta è semplice, il risultato un secondo posto, dopo un terzo e un quarto tra calcio sciorinato da applausi.
«Farli convivere fu il mio capolavoro. Li invitavo spesso a cena, li coccolavo. La prima sera a casa mia siamo usciti sul terrazzo che dominava il golfo. Ho detto: ragazzi, questa è come una torta e ce n’è una fetta per tutti, basta che non ci rompano le scatole. O se preferite è una vacca con tre tette, io mi prendo la tetta più piccola, cerchiamo di non litigare».
CAMPIONE D’ITALIA
Napoli, però è una polveriera, il rapporto con un Achille Lauro sempre più difficile. Così accetta la corte della Fiorentina, che gli offre più soldi rispetto alla Juventus. E così passa alla storia della città gigliata.
Vince il titolo, con una squadra innervata dal fosforo di Picchio De Sisti, i guizzi di Luciano Chiarugi, la classe di Merlo e i gol di Amarildo, che torna dal Brasile solo dietro un adeguato rinnovo del contratto e il Petisso difende contro l’opinione pubblica e i dirigenti della squadra viola.
«Signori, ho capito una cosa: se con questa squadra noi non vinciamo lo scudetto, mi faccio frate. Frate trappista, sapete, i frati che fanno più penitenze degli altri»
Sembra una delle sue solite boutade, invece dimostra di aver capito, unico, le straordinarie potenzialità di quella squadra. Vince il titolo, anche grazie a una difesa granitica che parte dal portiere Superchi e arriva ai centrali Brizi e Ferrante, completandosi con i terzini Rogora e Mancin.
Già, affidarsi alla difesa: sembra un ossimoro per un ex giocatore d’attacco tutto estro e fantasia.
E invece è il pragmatismo di uomo che di calcio capisce.
Che fonda la sua sapienza tattica in una ben dosata miscela di intelligenza calcistica sudamericana e scaramanzia partenopea, con una spruzzata di psicologia dell’atleta.
Come non ricordare il Petisso e quel suo cappotto di cammello, precursore di quello di Marlon Brando in “Ultimo Tango a Parigi” e forse ispiratore, nel 1978, perché no, per Piero Chiara e il suo romanzo “Il cappotto di Astrakan”.
Quel cappotto di cammello indossato sempre, anche a marzo, dopo una vittoria col suo Napoli e i giornalisti che ci ricamano sopra la storia del rito superstizioso.
Lui fa la parte dell’offeso, fra una sigaretta, l’ennesima, e un bicchiere di whisky, gli occhi piccoli di un gatto sornione e il sorriso di chi nega sapendo di ammettere.
«Quando allenavo il Napoli, uscì fuori la storia del cappotto portafortuna ed io ci giostravo dentro con questa cosa. I giornali scrivevano, a me stava bene. Me l’hanno rubato, peccato, io ci tenevo perché era un capo di alta classe, l’avevo preso a Parigi».
E i gesti.
Come dimenticare il gesto della seconda mano, caro Petisso!
Al rinvio del portiere con una mano indicava di andare avanti e con un’altra indicava d’indietreggiare.
Tutti pensavano che la mano importante era la prima, invece i giocatori sapevano che quella che contava, quella che dovevano osservare, era la seconda! Era come l’inganno dell’illusionista: la magia tutti la cercavano nella mano agitata, magari con la sigaretta stretta tra indice e medio, mente il trucco era nella seconda, più defilata, meno appariscente.
E dicevamo della psicologia spiccia, quella particolare pratica che gli permetteva di coglionare giornalisti, giocatori e sé stesso.
Nel pre partita una volta affermò che la sua squadra avrebbe giocato tutta all’attacco, salvo poi fare una partita prettamente difensiva in effetti.
Ai giornalisti che gli chiesero conto delle sue dichiarazioni, il Petisso rispose, seraficamente, «E che vi devo dire, ragasi (con quella zeta moscia tipica), gli avversari mi hanno rubato l’idea».
E laddove non bastasse sapienza calcistica, superstizione e psicologia, affidarsi ai santi non era un problema.
L’anno che tornò a Napoli, chiamato per salvarlo, ad ogni rigore (4 e tutti decisivi) battuti da Moreno Ferrario, elegante stopper partenopeo, lui baciava la medaglietta con la croce, evitando però prima di chiudere gli occhi alla battuta della massima punizione.
Anche a Firenze, anche nei giorni di gloria dello scudetto gigliato, non dimentica la “sua” Napoli.
«Ho vinto qui ma avrei voluto vincere questo titolo a Napoli»
BOLOGNA E ANCORA NAPOLI
Anche il rapporto con la Fiorentina vede la sua logica conclusione. E così il Petisso si accasa a Bologna.
Dove trova un presidente, Luciano Conti, che con lui condivide le notti in bianco a bere e giocare a carte (le malelingue sosterranno come così Conti riuscisse a recuperare gran parte dello stipendio del Petisso) parlando di calcio.
Pesaola in quattro stagioni scende una sola volta al di là del settimo posto, togliendosi anche lo sfizio di vincere la sua seconda Coppa Italia nel 1974 in una burrascosa finale contro il Palermo.
Ciò gli vale il ritorno a Napoli, dove non c’è più Lauro ma un giovane e ambizioso ingegnere, Corrado Ferlaino, che gli affida il compito di rivitalizzare Savoldi e rilanciare la squadra attraverso gli ingaggi di Chiarugi, Speggiorin e Vinazzani.
Settimo posto finale e una semifinale, con rimpianti di Coppa delle Coppe non gli bastano a rimanere.
Torna a Bologna, in tempo a salvarlo e a farsi esonerare.
Forse perché lui, in fin dei conti, senza Napoli, il mare azzurro, il Vesuvio, via Caracciolo e i vicoletti della città vecchia, non riesce a stare.
Così accetta, nel’82-83, la patata bollente di un Napoli agli ultimi posti, il Napoli di un Krol oramai in declino che vuole spingersi in attacco e fa finta di non vedere quella seconda mano di Pesaola cosa indica, e di un Ramon Diaz passato da crack di mercato a puntero triste.
I rigori di Ferrario salvano il Napoli, per lui è quello scudetto mai vinto.
Lo dirà con franchezza, dopo un Napoli- Cesena con gol decisivo di Dal Fiume: «Finalmente ho vinto il mio scudetto con il Napoli»
A soli 58 anni uscirà dal giro degli allenatori, una carriera iniziata quando le panchine erano rudi assi di legno e non comode poltrone, e sì che ne avrebbe di cose da insegnare.
L’ULTIMO PETISSO
Si reinventa così opinionista arguto e ironico, e lo puoi veder seduto in TV che parla (non pontifica, caso mai illustra, spiega, definisce) di calcio mentre muove, forse inconsapevolmente come per un riflesso indotto, le mani come se avesse l’ennesima sigaretta della giornata fra quelle dita ingiallite dal tabacco.
Con i tifosi che non devono più scommettere quanti pacchetti vuoti di sigarette si troveranno ai suoi piedi a fine partita, ma che lo amano forse più di prima Investimenti sbagliati, due bar, una fabbrica di scarpe, un’azienda floricola, un’industria vetraria, non lo faranno vivere da ricco.
«Pochi sanno di calcio quanto me. Avessi avuto lo stesso fiuto negli affari, sarei miliardario». Il Petisso è, però, è ricco di altro: umanità, simpatia, intelligenza, ironia.
In fin dei conti è l’antesignano di tutti i Josè Mourinho di oggi: meno glamour, meno social, meno fotogenico, meno arrogante ma altrettanto efficace sul punto di vista della conoscenza calcistica e della comunicazione.
Memorabile la risposta ad un giornalista che gli chiede quanti gol abbia segnato.
«Più di Pelè» risponde serafico il Petisso
«Mister, non dica sciocchezze…» incalza il giornalista.
«Mille gol, altro che… nessuno di voi ricorda la sigla della vecchia Domenica sportiva, quel gol che si vedeva ad inizio trasmissione era il mio, lo segnai a San Siro contro l’Inter, angolino alto a destra del portiere che era Matteucci. Quante saranno state le puntate della Domenica sportiva della RAI? Mille puntate? Mille gol, forse più…»
Muore, dopo una lunga malattia della quale seppe parlare sempre in termini ironici, nella sua Napoli il 29 maggio 2015.
Lasciando un vuoto incolmabile per la sua competenza, arguzia tutta argentina-partenopea e la sua ironia.
Raggiunge così la sua Ornella, l’amore di una vita.
E vuoi tu non scommettere sul fatto che si sia fatto apparecchiare una nuvoletta con una bottiglia di whisky, un posacenere e carte da poker per una partitina in famiglia con Achille Lauro e Luciano Conti?