Storie di Calcio
Il trionfo di Bearzot
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2 anni agoon
Un mondiale contrassegnato da un uomo … Enzo Bearzot …
Conseguita la finale dell’11 luglio, Bearzot era chiamato all’ennesima impresa. Questo, dopo aver battuto l’Argentina giocando la carta Tardelli a supporto dell’attacco e lasciando Maradona a Gentile. Questo, dopo aver battuto il Brasile con le seguenti mosse: a) annullando la boa d’attacco Serginho; b) predisponendo una sorta di doppia barriera mobile per ambedue le fasce al fine di rendere meno pericolose le verticalizzazioni verdeoro, per cui veniva ideata una zona mista, in modo da poter chiudere a destra, con Conti e Oriali, trasformato in terzino, sia Junior che Eder, mentre a sinistra Cabrini e Graziani, di ritorno in centrocampo, avrebbero fermato rispettivamente Socrates, che era particolarmente pericoloso perché capace di imperversare da una parte all’altra del campo, partendo in genere da destra, e Leandro (così, si sarebbero lasciati pochi spazi, soffocando i centrocampisti brasiliani, che pativano i controlli stretti); c) alimentando le ripartenze veloci sia di Antognoni che di Tardelli, quando i brasiliani venivano sorpresi sbilanciati (e l’anticipo nei confronti di Serginho sarebbe stato in questo senso fondamentale, come la stretta sorveglianza centrocampo; d) non sfuggendo al nostro CT la circostanza (in realtà grave debolezza) che il Brasile non avesse un tornante di destra di ruolo, il che facilitava le incursioni a sinistra da parte di Cabrini. Questo, dopo aver battuto la Polonia in semifinale suggerendo ai suoi di segnare al più presto, per poi gestire e risparmiare energie, schierando gli acciaccati Collovati e Tardelli, facendo controllare Buncol da parte di Bergomi e Lato da Cabrini, con i due che avrebbero invertito le marcature quando d’uopo, mentre Collovati avrebbe vigilato su Smolarek e a centrocampo si sarebbe imposta una zona mista, impiegando Conti come autentico regista per favorire gli inserimenti di Rossi. Dopo tutto ciò, la finale.
Che sarebbe venuta dopo un’altra impresa sotto un caldo da forno. Bearzot, tra l’altro, aveva visto giusto quando aveva cambiato marcatore su Lato, assegnandogli prima Cabrini e poi Bergomi. Il secondo cancellava l’anziana ala polacca, che, senza Boniek, era il maggior elemento in quanto a fantasia della propria squadra, permettendo allo juventino maggior libertà di movimenti sulla fascia di sinistra. Una scelta di ragione; e con la ragione l’Italia aveva condotto magistralmente una partita che, a dispetto delle apparenze, non era facile. Ma che, in fondo, non aveva presentato eccessivi problemi, con Zoff raramente impegnato. Addirittura, l’Italia avrebbe fatto melina in area polacca. Peraltro, Bearzot analizzava come i polacchi avessero cambiato tattica rispetto alla partita di Vigo (dove si erano proposti in maniera speculare a quella italiana), schierandosi con 2 punte centrali e 4 centrocampisti. Ma l’eclettismo dei difensori azzurri aveva azzerato ogni velleità avversaria.
Per Bearzot la differenza tra le due squadre era da ravvisarsi nella maggiore velocità del nostro contropiede. La finale ci avrebbe contrapposto alla Germania Ovest e ci avrebbe visti vincitori per 3-1. Forse sarebbe stato più giusto se la finale fosse stata Italia-Francia. Le partite più belle del Mundial ’82 sono state Italia-Brasile e Germania Ovest-Francia. E in tutte e due a perdere è stata la squadra più tecnica, quella col centrocampo migliore (non a caso, la Francia era valutata come una sorta di Brasile europeo). Ma se nella prima la vittoria dell’Italia era riconosciuta come ineccepibile anche dagli avversari, nella seconda la sconfitta della Francia fu considerata generalmente come immeritata e ingiusta. Ma la finale con la Germania Ovest era considerata più “nobile”, più “classica”: la Francia sino a quella competizione non aveva ancora vinto nulla, Germania Ovest e Italia vantavano di due titoli mondiali a testa, i bianchi erano campioni d’Europa in carica. Dunque, per l’Italia vincere con una squadra di questo blasone sarebbe stato più prestigioso. Peraltro, anche con il senno di poi, personalmente ho l’impressione che una finale contro la Francia si sarebbe potuta presentare più ostica. In ogni caso, Italia-Germania Ovest.
Per l’occasione veniva designato arbitro Coelho, un brasiliano: non potendo vedere la propria nazionale verde-oro in finale, Havelange, onnipotente presidente della FIFA, almeno voleva avere un connazionale come fischietto chiamato a dirigere l’incontro decisivo per l’assegnazione del titolo. Era la prima volta che un sudamericano dirigeva la finale di un mondiale. Dunque, la finale. Rilevante che la Germania presentasse in attacco tre uomini: il centravanti era Klaus Fischer del Colonia, un giocatore di continuo rendimento, con un buon ruolino realizzativo. All’ala sinistra vi era Karl-Heinz Rummenigge del Bayern, pallone d’oro nel 1980 e nel 1981, un attaccante completo, potente di piede come di testa, capace di acrobazie come di dribbling (è da dire che Rummenigge non stava bene fisicamente, ma Derwall, avendo considerato come fosse stato decisivo contro la Francia, lo aveva confermato, malgrado i giocatori tedeschi, con in testa il capitano Stielike, avessero tentato di dissuaderlo) e a destra il giovane Pierre Littbarski del Colonia, un giocatore rapido, con un buon tiro e con una buona forma che lo rendeva ancora più pericoloso.
Così Derwall pensava di poter approfittare dell’assenza di Antognoni, a cui forzatamente Bearzot aveva dovuto rinunciare. Al suo posto il CT azzurro, che per la tensione e la concentrazione, aveva saltato qualche pasto (ma non dava a vedere il proprio nervosismo, per non recare vantaggi all’avversario), inseriva Oriali e in linea difensiva piazzava Bergomi, nel contesto di un’impostazione basata su di una solida difesa e su ripartenze veloci alle quali avrebbero dovuto partecipare anche gli stessi difensori. Derwall con la mossa dei tre attaccanti aveva pensato di poter dare scacco matto all’Italia creando uno iato tra difesa e attacco; si sarebbe sbagliato. La contromossa di Bearzot di inserire terzini eclettici e dalla corsa da indemoniati avrebbe da un lato annullato i tre cannoni tedeschi e dall’altro esposto i teutonici ad autentiche scorribande da predoni da parte degli stessi difensori. La partita tattica apertasi intorno all’assenza di Antognoni sarebbe stata così appannaggio del nostro CT, il quale giudicava che per avere ragione della Germania Ovest si dovesse puntare soprattutto sulla velocità, ritenuta più importante della potenza.
E gli italiani erano più agili. Le marcature vedevano non già Gentile su Rummenigge, come si sarebbe potuto immaginare e presagire, ma Bergomi su Rummenigge, con possibilità di operare raddoppi di marcatura su altri giocatori, mentre Gentile montava la guardia su Littbarski. Altra ottima intuizione di Bearzot, che sollecitava allo stesso Gentile una particolare attenzione a quella giovane ala che aveva svolto un ottimo mondiale, risultando uno dei giocatori più in forma e più pericolosi dei tedeschi, distinguendosi per la capacità di offrire ottimi spunti poi finalizzati a rete da altri calciatori come Hrubesch o Rummenigge. Collovati avrebbe vigilato su Fischer e Cabrini sulla sinistra avrebbe sorvegliato le iniziative di Kaltz, che spesso operava discese su quella zona di campo, e di Dremmler, su cui piantonava anche Oriali. Conti non raramente sarebbe retrocesso a limitare le scorribande del gigantesco Briegel e Tardelli avrebbe frenato Breitner. Da parte tedesca i fratelli Foerster avrebbero cercato di bloccare la coppia d’attacco italiana (Karl Heinz prendeva in consegna Rossi, Bernd se la sarebbe vista con Graziani), con Stielike dietro a protezione. La partita. Cominciava vigorosamente la Germania Ovest, disposta in campo abbastanza bene (i tedeschi non temevano solo Rossi, per questo si predisposero in modo da tentare di neutralizzare tutta la squadra italiana). Già al 1’ Fischer, dopo aver ricevuto da Littbarski, scattato nella fascia sinistra, ritornava la palla al predetto compagno; la conclusione dal limite dell’area veniva bloccata facilmente da Zoff. Dopo 4 minuti Stielike calciava per Breitner che poteva crossare da destra; in mezzo all’area Fischer serviva di testa Rummenigge il quale mandava al lato con una mezza rovesciata un po’ debole e dalla lenta esecuzione. Dopo un minuto a centrocampo Graziani si faceva male dopo uno scontro con Dremmler a metà campo e veniva sostituito con Altobelli. Al 20’ Rummenigge scodellava un pallone al centro; Fischer poteva riprendere ma calciava fuori.
La Germania Ovest dunque partiva a razzo, favorita dallo schieramento italiano un po’ guardingo; ma, bene o male, l’Italia la controllava. Al 22’ Tardelli con un cross metteva in mezzo all’area tedesca, Schumacher usciva a vuoto, ma salvava Dremmler. E al primo errore della difesa tedesca gli italiani avevano l’occasionissima per segnare: al ventiquattresimo Cabrini intercettava un rinvio di Stielike e dava ad Altobelli, che a sua volta crossava in diagonale per Conti in area di rigore tedesca sulla destra. Questi veniva affrontato da Briegel, che lo mandava a terra. Rigore netto. Tirava Cabrini, essendo assente il nostro rigorista designato che era Antognoni. Cabrini forse si distraeva per le parole rivoltegli da Rossi prima di calciare (“te la senti?”). Cabrini rispondeva un risoluto “sì” e Pablito si faceva da parte (in fondo a Rossi interessava tirare e, sperabilmente, segnare il rigore, essendo anche in competizione per vincere la classifica dei cannonieri del Mundial, peraltro, trovandosi in quel momento con 5 gol a pari punteggio con Rummenigge). In quei frangenti scoppiò nel terreno di gioco un mortaretto, che parve non disturbare Cabrini, che sistemava la palla ed eseguiva. Fuori. Un tiro d’interno sinistro, debole. Con un Cabrini che ritornava indietro con le mani in testa, visibilmente tirato, scosso e dispiaciuto. E per qualche istante la squadra italiana rimase come impietrita. Ma per poco, tanto era sicura dei propri mezzi e della propria unità e solidità.
Un rigore fallito non deve abbattere più di tanto. La partita poteva andare avanti come se niente fosse stato, un rigore si può sbagliare, e tutti a solidarizzare con Cabrini. Al 32’ Fischer non poteva sfruttare un interessante pallone avuto da Breitner su punizione, grazie all’intervento di Collovati in anticipo. Al 38’ un cross di Littbarski veniva ribattuto da Collovati; riprendeva Bernd Foerster che calciava alto. Al 43’ Dremmler non approfittava di una possibilità concessagli da un buon servizio di Rummenigge. Sullo scadere Stielike era costretto a fare fallo su Oriali al limite dell’area di rigore per evitare una pericolosa occasione italiana. A fine primo tempo il punteggio era inchiodato sullo 0-0, ma con i tedeschi leggermente in vantaggio ai punti e con il morale forse più alto per via del rigore sprecato da Cabrini (Breitner -racconterà Rummenigge – aveva detto ai suoi “è destino che vinciamo noi”, dopo l’errore del nostro giocatore). L’Italia appariva quasi impaurita, bloccata, i tedeschi spingevano molto sulle fasce, Kaltz a destra, Briegel a sinistra. Nell’intervallo lo spogliatoio italiano operava un piccolo miracolo. La squadra, tutta, andava a tranquillizzare Cabrini, che, evidentemente, ancora ripensava al rigore sbagliato, standosene in un angolo. Gli si diceva di stare tranquillo, che si sarebbe vinto lo stesso. La ressa dei giocatori intorno a Cabrini era tale che Bearzot perse qualche attimo prima di andare a rincuorare il proprio terzino sinistro. “Guarda avanti, Antonio. Continua a giocare. Può accadere di sbagliare un calcio di rigore! Questa partita la vinciamo, me lo sento, proprio per il tuo rigore sbagliato. Non ti preoccupare, Antonio, stai sereno. Forza ragazzi. Non mollate mai!”.
Cabrini sarebbe ritornato in sé stesso correndo dappertutto. Bearzot, dal canto suo, spronava la squadra a fare qualcosa in più, a osare, a cercare la porta. Si doveva segnare. Non ci hanno fermato Brasile, Argentina, Polonia. Non bisognava essere presuntuosi, ma neppure timorosi. Bearzot chiedeva a Rossi di dare un’accelerazione alla gara. Comunque, le sensazioni della squadra, così a livello epidermico, erano buone. La squadra si sentiva una roccia, compatta. E Gentile, personalmente, era sicuro di aver in pugno Littbarski – altro che Maradona o Zico. Egli, avendo saltato la semifinale con la Polonia, aveva energie da vendere, freschezza atletica anche per dare una mano in fase offensiva. Così, in procinto di rientrare in campo, Gentile diceva a Rossi che i tedeschi dietro erano tutti alti, quindi bisognava sorprenderli con palloni rasoterra. Che si buttasse nel mucchio, che egli gli avrebbe crossato basso dal fondo. La risposta non poteva che essere positiva. In queste parole c’è una sorta di “manifesto” di quello che sarebbe stato il primo gol italiano. Intanto, si rientrava in campo per il secondo tempo. I tedeschi iniziavano la loro solita pressione in avanti, ma ormai sterile, inaridita, in fondo. Passati alcuni secondi del minuto 11 del secondo tempo, Tardelli batteva una punizione sulla tre quarti, a seguito di un fallo subito da Oriali da parte di Rummenigge. La palla veniva data a Gentile. Siamo all’11’ e 24 secondi: e come pensato e previsto, Gentile operava, a pochi metri dal limite dell’area di rigore, un traversone basso da destra a sinistra nel mucchio. Sulla palla si lanciavano Cabrini e Rossi, anticipando Briegel e K. H. Foerster. Il secondo di testa faceva centro. Rossi ha raccontato di essersi lanciato in tuffo, senza badare a eventuali scarpate in faccia. Rossi ricorda anche che aveva un avversario fortissimo, Karlheinz Foerster, un difensore che giocava sull’anticipo, senza mai ricorrere al fallo. Rossi partiva un decimo di secondo prima di lui, perché su quei palloni ci si va perché lo dice l’istinto. Non c’è nulla di razionale.
Nove volte su dieci la palla non arriva nel punto dove si trova l’attaccante: se però arriva, per l’avversario è tutto più difficile. C’era anche Cabrini sulla traiettoria, forse spinto dal nostro bomber. Rossi aveva segnato da Rossi: muovendosi prima, anticipando il marcatore avversario, prima che questi potesse far valere la propria prestanza fisica. Zoff, successivamente, prenderà lo spunto da questo gol per lodare, ancora una volta, l’opera di Bearzot: “Si sono catapultati in due sul pallone, forse addirittura in tre. Noi che passavamo per quelli del catenaccio, del calcio difensivo, del “primo non prenderle”. Quando attaccavano, eravamo sempre in tanti. Questa è la cosa che mi ha fatto maggiormente piacere quel giorno. Anche se poi, naturalmente, a Bearzot non è stato dato alcun merito particolare. E invece secondo me chi ci ha fatto vincere è stato lui. Penso di poterlo dire con cognizione di causa visto che di Mondiali ne ho giocati altri con esiti disastrosi. Come nel 1974, quando alla guida c’erano tanti comandanti. In Spagna, invece, ne avevamo uno soltanto, ed era un comandante vero”. Segnato questo gol, gli italiani erano come rinfrancati. Le remore psicologiche dovute all’emozione della finale venivano scacciate. Indubbiamente feriti, ma ancora carichi di rabbia agonistica, i tedeschi cercavano di contrattaccare. D’altro canto, restava da giocare una buona mezz’ora: tutto il tempo sufficiente per ribaltare, se vogliamo. Qualche minuto dopo il gol italiano, Kaltz su punizione mandava la palla in area: Zoff non riusciva ad abbrancare, ma Briegel non approfittava e mandava a lato. Derwall rafforzava le artiglierie sul davanti facendo entrare il gigantesco e sempre pernicioso, specie di testa, Hrubesch, al posto di Dremmler. Un cambio che forse Stielike non approvava, (probabilmente temeva che la squadra tedesca si squilibrasse e forse desiderava che uscisse Rummenigge) ma Derwall non faceva questioni. Questo al 18’ della ripresa. Hrubesch veniva preso in consegna da un sempre attento Collovati, mentre Cabrini controllava Fischer.
La squadra tedesca era sempre più sbilanciata, ma di occasioni degne di nota e che potevano impensierire ne creava solo una, al 21’, con Briegel, il quale dalla sinistra operava un pericoloso cross. Zoff risolveva in due tempi; prima deviando e poi bloccando; così anticipava Rummenigge, con la collaborazione di Bergomi. Ma gli azzurri erano più caricati, più uniti e granitici. Conti spesso retrocedeva a dar man forte alla difesa, come pure, in qualche caso, Rossi. E quando la palla era in mano italiana i difensori di rimessa potevano scorrazzare in avanti al fine di sviluppare occasioni. Lo schieramento tedesco, squilibrato, con quattro attaccanti in servizio (Fischer, Hrubesch, Littbarski e Rummenigge), ma quasi mai serviti adeguatamente e comunque sempre ferreamente guardati a vista, mostrava tutte le sue incresciose crepe: al 24’ un’azione corale italiana partiva da Rossi, retrocesso in difesa, che recuperava ai danni di Breitner, che aveva ricevuto da Rummenigge, e dava a Scirea che proseguiva verso la metà campo e passava a Conti, che a sua volta serviva Rossi che subentrava. Rossi sulla destra dell’area tedesca porgeva la palla a Scirea, che dava e poi riceveva da Bergomi. Scirea, di nuovo in possesso della palla, filtrava verso Tardelli. Che riceveva il pallone al limite dell’area di rigore tedesca lievemente posizionato nella parte sinistra rispetto agli attaccanti italiani. Controllava. E al secondo 42 dello stesso minuto in scivolata tirava di sinistro la palla in diagonale, eludendo e anticipando il ritorno di due giocatori tedeschi. La sfera seguiva una traiettoria che la dirigeva a filo di palo in rete sulla destra. Schumacher, inerme, poteva solo vedere la corsa della palla che quasi schizzava in diagonale lungo tutta la porta prima di essere come calamitata all’interno dal palo più lontano. Tardelli si lanciava in una folle corsa, urlando, agitando le braccia ritmicamente in segno di trionfo, i capelli al vento e gli occhi fuori dalle orbite, sospeso fra la meraviglia e la gioia, tra l’incredulità e la soddisfazione di essere a un passo dalla maggior “gloria” calcistica, oltretutto lasciandosi alle spalle un mese di attacchi, di critiche e, lo si può dire, di cattiverie. Quindi, soddisfazione doppia. Era la soddisfazione di chi dimostrava chi fosse e cosa sapesse fare a chi qualche decennio prima dubitava potesse divenire calciatore; era la rabbia nei confronti di chi aveva mostrato scetticismo una volta che era diventato professionista. Gentile con un braccio cercò di fermarlo, vanamente.
Quell’immagine entusiasmò, emozionò, commosse e fece sognare gli italiani, mandandoli in delirio. Quell’immagine emoziona e commuove ancora; sarà per sempre l’icona di quel mondiale e un po’ anche il simbolo delle speranze e dei sogni di più generazioni. Era la scena, in fondo, da sempre sognata da milioni di italiani che per decenni avevano vissuto fatiche e durezze. Un urlo e una corsa simili, lontanamente simili, Tardelli l’aveva fatti vedere agli Europei dell’’80 a Torino, dopo aver siglato il gol contro l’Inghilterra. Ma il contesto era tutto diverso. In quel caso si trattava di semplice esultanza per un gol. Quella di Madrid era l’emozione di una vita e di una generazione. Era il 2-0 per l’Italia. Ma si sa: i tedeschi non sono caratterialmente portati alla resa. Tentavano ancora, ancorati a una disperata illusione: la carta che usciva dal mazzo di Derwall qualche secondo dopo il gol italiano era quella di Hansi Muller, al posto di un non esaltante Rummenigge, che era sceso in campo in condizioni non al meglio, ma carico di volontà e sicuro che, comunque, la propria stessa presenza potesse intimorire e fare effetto. Bergomi gli aveva dimostrato il contrario in tutte e due i sensi. Né Muller poteva fare miracoli. I quattro cannoni tedeschi davanti al più sparavano a salve, ma i contropiedi italiani squarciavano l’ormai debole barriera avversaria: fra, l’altro, al 78’ Schumacher doveva uscire con il cuore in gola per bloccare Oriali, innescato da Conti. Era qualcosa di inimmaginabile, con gli italiani che dominavano, indiscutibilmente, permettendosi perdite di tempo anche in area tedesca. Il colpo finale lo dava Altobelli al minuto 35’ e 49”. Fuori area italiana, vicino all’angolo, sulla destra Conti riceveva da Scirea. Con un dribbling secco lasciava sul posto un contrariato e amaramente sorpreso Briegel (la sua espressione sembrava lo specchio della resa del gigante Golia di fronte a un Davide dalle mille vite e dalle mille risorse) e letteralmente si involava verso l’area avversaria, con un galoppo estasiante e commovente. Inarrestabile, Conti aveva praterie davanti a sé, e, piede più veloce di Achille, le batteva con rapida lena. Dava finalmente ad Altobelli che evitava il ritorno di Kaltz e trafiggeva Schumacher per il 3-0. Tripudio italiano. Pertini dalla tribuna esultava e proferiva qualcosa come “non ci prendono più” due o tre volte. Un paio di minuti dopo Conti faceva fallo su Briegel su lato destro della difesa italiana. La punizione veniva battuta da Hansi Muller che mandava al centro dell’area; Gentile calciava la palla per allontanarla. Poteva riprendere Breitner che accorciava con un tiro rasoterra su cui Zoff non poteva arrivare. A quel punto qualche remora poteva farsi largo.
Ma gli italiani tennero duro, anche chi era stanco o acciaccato, come Bergomi. A due minuti dalla fine, tanto per accrescere i timori di Bearzot, Littbarski cadeva in area di rigore italiana: non era successo nulla e Coelho non teneva conto delle neanche tanto convinte proteste tedesche. Al 44’ Causio faceva il suo ingresso prendendo il posto di Altobelli. Idealmente, Bearzot con lui faceva entrare in campo quei giocatori della sempre tanto amata nazionale di Argentina ’78 che non erano più in squadra. Per Causio era anche il premio per essersi sempre messo a disposizione della squadra, proteggendola letteralmente nei momenti peggiori; del resto avrebbe sempre continuato a difendere le scelte di Bearzot, in un rapporto di fiducia reciproca. Qualche secondo ancora. Poi Coelho alzava il pallone in area e chiudeva il match. L’Italia era campione del mondo. Non vi era stata partita, per molti aspetti. Troppo superiore quell’Italia, e neanche i timori reconditi di Zoff (che si sentiva senza energia) si erano materializzati. La superiore forma fisica italiana era stata sorprendente, straripante, come quella tattica: la Germania Ovest pagava anche lo sforzo per i supplementari giocati contro la Francia. La difesa italiana aveva chiuso tutti i varchi. Contemporaneamente, aveva contribuito a dare il “la” alle azioni che avevano condotto la squadra a segnare almeno due volte. Il football di Bearzot, che amalgamava la difesa all’italiana con il calcio totale olandese e che si basava su calciatori eclettici, aveva vinto. Non era stato il trionfo del catenaccio e del “non gioco”, atti solo a distruggere quello degli altri, come continuava a sostenere Menotti, che, ancora schiumante rabbia, non aveva saputo far altro che commentare che l’Italia non meritava la finale e che la Germania era di un altro pianeta. E pensare che qualche giornale italiano precedentemente aveva scritto che il nostro calcio non poteva assolutamente reggere il confronto con quello brasiliano, o argentino, o tedesco. È pur vero che a livello di club gli italiani in quel periodo non vincevano a livello internazionale, è pur vero che il periodo tra i Mundial di Argentina e di Spagna era stato quello durante il quale nei campionati italiani si era segnato poco: ma, in fondo, Bearzot aveva preso il meglio di tutto.
Sì, è vero, si segnava con il contagocce: ma perché ci si difendeva e ci si sapeva difendere gagliardamente (cosa che, per esempio brasiliani o argentini non sapevano fare), dopo che negli anni ’60 da noi si era imposto indiscutibile il calcio all’italiana: e questa efficacia nel reparto arretrato Bearzot l’aveva mantenuta nella nazionale, non rifiutando, però, quanto di meglio passasse il convento a livello internazionale in fase di gestione del centrocampo o dell’attacco. Aveva vinto soprattutto la filosofia bearzottiana del gruppo unito: e Cesare Maldini poteva dire che mai aveva trovato una squadra così, senza screzi o gelosie o antipatie. Bearzot dirà sempre che il merito della vittoria era stato soprattutto dei giocatori. Poi ancora: “Per me è una soddisfazione indescrivibile, una gioia immensa. Ho capito con il passare delle giornate che il successo era alla nostra portata”. E ancora: “È stata la vittoria di una squadra dall’immensa forza morale. Un trionfo meritato perché abbiamo battuto tutte le squadre più forti del mondo. Abbiamo vinto nell’intervallo, la squadra ha saputo consolare Cabrini e ha dato prova di compattezza nel momento più difficile. Siccome siamo latini, un episodio del genere provoca grossi problemi di ordine psicologico. Però la squadra ha saputo fare un’azione collettiva nel momento giusto, facendo ritrovare ad Antonio il morale. Anche questa è stata una dimostrazione di spirito e di affiatamento tra i miei ragazzi”. Per Bearzot i giocatori meritavano la vittoria: avevano saputo soffrire, non avevano mai perso la calma, malgrado la tensione fosse tanta. Una vittoria irripetibile, come avrebbe detto nel 2019 Zoff, perché non ci sarà più un mondiale così. Con una squadra capace di segnare tanto, facendo tutti i gol su azione, contro le migliori squadre. Non succede quasi mai. E fu veramente il Mondiale di Bearzot, unico a insistere sulla scommessa Paolo Rossi, ovvero un giocatore fermo da due anni e sostanzialmente fuori forma per larga parte del torneo, lasciando a casa Pruzzo, per evitare polemiche e destabilizzazioni nello spogliatoio, specie dopo le prime partite non esaltanti della coppia Rossi-Graziani, unico a cementare il gruppo in maniera granitica, a ideare i capolavori tattici, da Ulisse del football, autentica polymetis omerica in chiave pallonara, che hanno permesso di sconfiggere autentici squadroni, unico ad aver vinto il mondiale con dodici o tredici uomini effettivi: come assediati di fronte a tutti gli assalti altrui, avevano resistito con lo spirito di squadra; squadra che non sarebbe mai cambiata; potevano cambiare le tattiche. Unico ad aver vinto facendo dei terzini attaccanti e mandando gli attaccanti in copertura: ha vinto lui, forse prima ancora che loro. E Zoff dirà che loro avevano vinto per lui, ormai considerato come un padre di una famiglia indissolubile. Un uomo all’antica, con valori d’altri tempi, che verrà ritenuto dai suoi giocatori come uno degli esempi più limpidi di moralità, della quale ogni italiano “medio” dovrebbe essere impregnato. Uscito di scena e quasi dimenticato, col passare degli anni quasi non si sapeva se fosse ancora vivo o se fosse morto, è vissuto come un cittadino normale che diventava via via sempre più anziano. E come tutti gli anziani ritirava la pensione, facendo la fila.
Un’annotazione finale: nella memoria collettiva la finale dell’82 non ha mai fatto breccia come l’altra grande partita giocata con la Germania, quella del 4 a 3 del 17 giugno ’70. Ma quella in Messico non fu seguita dalla vittoria finale: non avendo avuto il suo degno finale in gloria, ha fatto essa stessa storia, essendo stata caricata ex post di tutti i valori, le simbologie e i miti da una generazione che era rimasta delusa dal fatto che il ’68, pur dilatandosi in Italia, a differenza di Francia e Germania, per un decennio, non avesse prodotto quella rivoluzione delle coscienze che si era immaginato e auspicato originariamente, finendo con l’inaridirsi in vari lustri di crisi politiche, economiche, sociali e morali, mentre Francia e Germania seppero rilanciarsi rinnovandosi. Italia- Germania 4-3 è la metafora romanzata e idealizzata di un sogno incompiuto prima ancora di una partita di calcio. Tanto è che il “Time” nel 2010 ha definito quel Brasile-Italia del 5 luglio la più grande partita mai giocata. Direi assai più del 4 a 3 con Germania Ovest nel ’70 in Messico, perché, al di là di tutti i significati sociologici e antropologici che sono stati dati a quella partita successivamente, inserendola nel contesto storico che va dal ’68 agli anni ’80, in quel caso il risultato – aveva ragione Brera – nasceva da una combinazione di errori propri e altrui, fermo restando l’impressionante abnegazione degli azzurri a fronte dell’indomabile determinazione tedesca. Mentre il 3 a 2 del 5 luglio, che poteva essere 6 o 7 a 2, nasceva da un piano logico, razionale di un uomo (Bearzot) imbevuto di cultura greca ed esperto di pittura fiamminga e musica. Quanti altri in quei giorni che vanno dalla partita con l’Argentina al trionfo finale avrebbero fatto altrettanto?
Nato nel 1971 a San Gavino Monreale. Da sempre interessato a temi calcistici e storici. Fondamentalmente autodidatta. All'attivo 3 libri. Un quarto testo, relativo alla Storia della Repubblica sociale Italiana in corso di pubblicazione. Ora al lavoro per un libro relativo al mondo arabo e per uno riguardante il periodo d'oro della Roma di Liedholm 1979-1984.
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