Il suo segreto, forse, stava proprio nel non essere una coppa, nel senso classico del contenitore; e non ci potevi bere lo spumante, alla fine, come facevano i piloti della Formula Uno o i vincitori di una Classica del ciclismo.
Era, piuttosto, un trofeo. Che al centro aveva un bellissimo pallone in oro zecchino (o almeno, così ce lo immaginavamo) dal valore inestimabile, come i gioielli dei forzieri che si trovavano nell’isola dei pirati. E quel pallone aveva lo stesso, identico disegno del nostro “Super-Santos” arancione: che però stava passando di moda, da quando la televisione aveva imposto un nuovo modello, a esagoni-pentagoni bianchi e neri, tipo il “Super-Tele”.
Non c’era partita con le altre coppe, insomma.
Per la forma del trofeo, e per il prestigio di quel nome così roboante: Coppa Intercontinentale… E che fierezza, vederla disegnata nella bandiera in stoffa che qualche zio ti regalava per Natale, e che mettevi alla finestra in occasione delle vittorie di Milan o Inter (le uniche squadre italiane a poter dire di averla in bacheca). E che costituiva l’unico appiglio morale contro gli Juventini, che negli anni’70 stavano vincendo tutto.
La Coppa Intercontinentale era una specie di salvacondotto, in quei giorni ingenui e lontani. Perché -si pensava- tutti erano buoni a vincere con il Mantova, o il Lanerossi Vicenza, ma nessuno avrebbe potuto canzonarti, a scuola, il giorno che la tua squadra avesse battuto il Penarol di Montevideo, che incuteva rispetto solo a nominarla.
Ecco. Per battere quelle squadre là, da Coppa Intercontinentale, ci voleva di essere bravi, e di avere un fegato grande così.
La bravura ti serviva contro il Santos, che era la fiabesca squadra di Pelè: e siccome Pelè era indiscutibilmente il più grande calciatore del mondo, per il sillogismo più elementare il Santos era la miglior squadra in circolazione. Il fegato era indispensabile se ti toccava gentaglia l’Estudiantes, che Combin del Milan lo conciarono che quasi non si riconosceva: “Come Giorgino, quando suo suocero scoprì che faceva le corna alla Ines.” dissero, in paese, quelli che videro la partita in televisione.
Fu anche per quel motivo che molte squadre, come l’Ajax o il Bayern, cominciarono a inventarsi le scuse per non giocarla più. E quella che, agli sportivi dell’epoca, parve una decisione più che sensata, sembrò ai nostri occhi di bambini un sacrilegio bello e buono… Perché la luce che irradiava quel trofeo un po’ magico valeva bene il rischio di qualche calcio negli stinchi, o di una pesca nell’occhio. Sarebbe stato come rifiutare l’invito al compleanno della Sabrina, solo per paura di suo fratello; una specie di psicopatico che si divertiva a sgonfiare le ruote delle biciclette e ad attaccare il chewing-gum nei capelli.
L’Inter fu, negli anni ’60, la squadra più forte del mondo.
Indiscutibilmente.
Più del Real Madrid, del Benfica di Eusebio e persino del Santos di Pelè… Lo fu perché interpretò, su un campo di calcio, il meglio di quell’Italia del cosiddetto boom economico.
Vinceva, l’Inter, perché vinceva l’Italia. In un mondo ancora sostenibile, che andava a velocità normale, e una piccola bottega poteva diventare un impero. E nascevano cose miracolose: come la 500 e la Giulietta Spider, che fu definita l’auto più bella di tutti i tempi. La Vespa e la Lambretta, la spuma bionda e il moplen; film come “La Grande Guerra” e canzoni come “Volare”.
Migliaia di piccoli geni che, nel buio di un garage, inventavano e brevettavano di tutto, partendo dal transistor di una radio, o dal motorino di un trapano. Artigianato puro. E noi, in quel senso, eravamo i più bravi di tutti. Nessuno ci batteva… Poi, è arrivata la tecnologia, il mondo ha cominciato ad andare di fretta e l’artigianato è sparito. E siamo rimasti in mutande.
Anche l’Inter, dicevo, era un’invenzione tipicamente italiana: giocava in difesa, come ha sempre fatto l’Italia, che non ha materie prime, ed ha sempre avuto eserciti stranieri a dominarla. Poi, ad un certo punto, arrivava l’idea giusta, proprio mentre l’altra squadra era sbilanciata in avanti, alla ricerca del gol. Suarez vedeva uno spiraglio, ed effettuava un lancio di quaranta metri, sul quale si fiondavano a turno il Brasiliano Jair o il giovane Sandro Mazzola, che erano due proiettili. Oppure, un numero mozzafiato, come la cosiddetta “foglia morta” di Mario Corso; che era un genio anarchico e assoluto, e proprio per quello rappresentava, in quella fantastica squadra, il prodotto più tipicamente “italiano”.
L’Inter diventò, amalgamando quegli ingredienti semplici, la “Grande Inter”, che ancora adesso occupa un posto importante nella storia dello sport, e nei cuori di tutti quelli che grazie ad essa impararono ad amare il calcio, e quella leggera, dolcissima poesia dall’incipit immortale.
“Sarti, Burgnich, Facchetti…”.
Che sta esattamente a metà strada tra il “Bacigalupo-Ballarin-Maroso” del dopoguerra e lo “Zoff-Gentile-Cabrini” dello stadio Sarrià… Tra il Grande Torino e l’Italia dell’82. Che sono le squadre dei nostri sogni.
Vinse tutto, la “Grande Inter”: quattro scudetti, due Coppe dei Campioni e Due Intercontinentali, giocando un calcio semplice, artigianale ed italiano.
Avrebbe potuto vincere addirittura di più; perché quello che lasciò per strada, è ancora motivo di rammarico a tanti anni di distanza; il Bologna dello spareggio, per esempio, giocava “come in paradiso”, ma non valeva l’Inter del ’64. Come non la valeva la Juve “socialdemocratica” di Heriberto, alla quale regalò lo scudetto ’67 (con la papera di Sarti a Mantova), e nemmeno il Celtic della finale di Lisbona, dove i nerazzurri arrivarono letteralmente bolliti.
E dove si chiuse, idealmente, quel ciclo leggendario.
In mezzo, trionfi epocali come la doppia sfida con l’Independiente, squadra argentina dal nome lontano e fascinoso: tre a zero a San Siro e poi il pareggio (zero a zero) al “Doble Visera”, lo stadio dei cosiddetti “Diavoli Rossi” che si trova a pochi metri dal “Cilindro”, che invece ospita i rivali del Racing, nello storico quartiere-città di Avellaneda.
Avellaneda. Che in lingua italiana si potrebbe tradurre con un semplice “Noccioleto”.
Ma che, nella nostra fantasia di bambini, sembrava un nome esotico, ed irraggiungibile. L’Independiente di Avellaneda… Poi l’Estudiantes de La Plata, il Nacional e il Penarol di Montevideo e tutti quegli affascinanti nomi da pirateria, come la Tortuga o il Mar dei Sargassi.
E come la Coppa Intercontinentale: che era una roba troppo bella per poterla snobbare, come poi presero a fare gli Olandesi e i Tedeschi.
Era il 15 settembre 1965, e l’Inter saliva per la seconda volta sul tetto del mondo.
Perché era una squadra fantastica. E Italiana, per giunta.