Inter-Borussia Monchengladbach: la partita della lattina
Nel 1972 l’Inter tornava in Coppa dei Campioni a cinque anni di distanza dall’amara finale perduta a Lisbona contro il Celtic di Jock Stein. I nerazzurri bagnarono il ritorno nella competizione con una larga vittoria sui greci dell’Aek Atene (6-4), raggiunta grazie ai due gol di Roberto Boninsegna, ribattezzato “Bonimba” da Gianni Brera, ma da lui considerato anche come uno dei *due migliori centravanti del mondo”, insieme a Gigi Riva.
A credere in lui e nelle sue «rovesciate» non c’erano soltanto l’autore della rubrica L’Arcimatto o Stefano Accorsi nel film Radiofreccia (insieme “ai riff di Keith Richard”, naturalmente), ma anche l’allenatore Giovanni Invernizzi, ex responsabile delle giovanili nerazzurre, sopraggiunto sulla panchina interista in sostituzione di Heriberto Herrera, liquidato anzitempo dal nuovo presidente, il galantuomo Ivanoe Fraizzoli.
Agli ottavi di finale, l’Inter venne sorteggiata con i temibili tedeschi del Borussia Mönchengladbach, una squadra forgiata negli anni da due maestri della panchina, Hennes Weisweiler e Udo Lattek, e sospinta ai vertici del calcio tedesco ed europeo da numerosi fuoriclasse, tra cui Berti Vogts, Allan Simonsen (Pallone d’oro 1977) e Günther Netzer, probabilmente il calciatore dotato di maggiore tecnica nella storia del calcio tedesco. In quell’irripetibile decennio, la squadra del basso Reno sarebbe riuscita a vincere cinque campionati, due Coppe Uefa, una Coppa di Germania, una Supercoppa Tedesca e disputò altre tre finali europee (una di Coppa dei Campioni, due di Coppa Uefa.)
Non si poteva dunque sottovalutare l’avversario, sebbene fosse giunto sul palcoscenico europeo dopo anni di anonimato e con pochi titoli nazionali in bacheca. È difficile indovinare se i calciatori nerazzurri caddero in questo imperdonabile abbaglio, fatto sta che la partita di andata terminò con il clamoroso risultato di 7-1 per i tedeschi.
Tuttavia, quella gara non passò alla storia per il soverchiante numero di gol messi a segno dai reniani, quanto per l’esecrabile lancio di una lattina di Coca-Cola che dagli spalti del Bökelbergstadion era finita sulla testa di Roberto Boninsegna.
La partita cancellata
Terminata la sfida tra le proteste degli interisti, la disputa tra le due formazioni si trasferì nelle aule della Commissione disciplinare Uefa a Ginevra. Il vicepresidente nerazzurro Peppino Prisco, navigato principe del foro meneghino, durante il dibattimento pretese la squalifica del campo tedesco e la vittoria «a tavolino» per 2-0. Sosteneva che, dopo l’uscita di Boninsegna sull’1-1, per via dell’infortunio alla testa, «l’Inter ne è rimasta così frastornata che ha finito per perdere 7-1.
Ci sono quindi tutti gli estremi per cancellare quella gara. La sua indiscutibile abilità oratoria poggiava su un cavillo regolamentare, riconosciuto dalla giurisprudenza sportiva italiana – la responsabilità oggettiva sul regolare sviluppo della partita – ma del tutto assente nelle lacunose strutture disciplinari Uefa.
Il bollente caso giudiziario fu dibattuto per una settimana, fino a che si giunse a un verdetto unanime, malgrado la carente legislazione dell’epoca: il tribunale sportivo di Ginevra annullò la gara e ne ordinò la ripetizione a Berlino, infliggendo contestualmente una multa di un milione e mezzo di franchi svizzeri al Mönchengladbach.
Veniva confermata la gara di ritorno a Milano, che di fatto valeva a tutti gli effetti come match di andata. «Mi sento come se avessi parato sette palle gol», dichiarò Prisco dopo la sentenza.
In realtà, l’avvocato interista, aveva fatto molto di più, perché in effetti contribuì a lasciare un segno indelebile nella storia del diritto sportivo internazionale. Anche sulle colonne de l’Unità, il risultato da lui ottenuto a Ginevra fu considerato «un piccolo capolavoro di diplomazia, di quella per intenderci che vedeva la contessa Castiglione dare – chiamiamola così – una mano a Costantino Nigra per convincere Napoleone III ad appoggiare il Piemonte».
Italiani camerieri
In Germania, comprensibilmente, non erano dello stesso avviso. I dirigenti del Mönchengladbach, reputarono l’atteggiamento degli italiani «vittimistico» e accusarono i nerazzurri di “aver agito da navigati professionisti”, sfruttando abilmente le «loro note qualità di teatranti». La campagna stampa anti-italiana raggiunse il culmine quando il canale radiofonico di Stato, il Wdr, comunicò agli ascoltatori l’esito del processo sportivo come seconda notizia, a scapito delle consuete informazioni relative al governo di Willy Brandt. “Questa sentenza è inammissibile. Sappiamo tutti quanto bravi siano gli italiani come attori, l’abbiamo visto durante la nostra sconfitta per 3 a 4 in Messico.”
A quanto pare, la recente sconfitta ai Mondiali del 1970 aveva concorso a rinfocolare alcuni pregiudizi sprezzanti nei confronti di quelle centinaia di migliaia di «Gastarbeiter», lavoratori ospiti, che ancora negli anni Settanta andavano ad occupare i ruoli di manodopera nelle industrie minerarie tedesche. Su La Stampa si lanciò allora un vivo allarme, in quanto si temevano violente ritorsioni nei confronti dei nostri espatriati per mano dei “tifosi inviperiti.”
Del resto, in quel periodo, sarebbe stato soprattuto il calcio ad acuire la serpeggiante discriminazione verso i migranti italiani.
L’amichevole con l’Inghilterra, giocata un anno dopo a Londra, come ricorda Roberto Beccantini nella prefazione del libro Il cameriere di Wembley, “uscì dal territorio della sfida meramente sportiva per invadere il territorio della lotta di classe e del risentimento popolare, loro (soprattutto) e nostro.”
Per l’occasione, la Federazione inglese non a caso scelse come data del match il
trentanovesimo anniversario della «Battaglia di Highbury», e nei giorni precedenti alla gara i tabloid britannici avevano calcato la mano con commenti poco edificanti rivolti ai tanti “italians” presenti nelle cucine e nelle sale dei loro ristoranti. Addirittura, definirono la Nazionale azzurra “una squadra di camerieri.”
Il malcelato riferimento a Giorgio Chinaglia, che in gioventù aveva seguito la famiglia a Cardiff dove il padre gestiva un ristorante, contribuì a innervare lo spirito dei calciatori italiani, i quali, grazie al decisivo gol di Fabio Capello, sarebbero riusciti a simboleggiare sportivamente il titolo del film di Elio Petri: La classe operaia va in paradiso.
E a proposito di cinema, come dimenticare quel «goool» ripetuto con orgoglioso livore per tre volte da Nino Manfredi – nei panni di italiano emigrato nella Svizzera tedesca – nel film Pane e Cioccolata? Un urlo liberatorio a cui poi si aggiunse la celebre battuta: «Sono italiano, embè?».
Tornando alla tanto dibattuta Inter-Borussia Mönchengladbach, i nerazzurri nella seconda partita confezionavano un ottimo 4-2 a San Siro, e poi andarono a difendere il risultato sul neutro di Berlino, dove non si andò oltre lo 0-0.