Gli argentini, nel 1916, si stavano apprestando a festeggiare l’imminente anniversario del centesimo anno di indipendenza dall’odiosa dominazione spagnola. Nello stesso anno, a qualcuno, parve l’occasione giusta per celebrare l’evento con una partita di calcio. Anzi, di più: un torneo da far disputare con cadenza annuale.
La mente che stava dietro all’idea di questa nuova manifestazione calcistica era quella di un uruguagio: si chiamava Héctor Rivadavia Gómez. Lui era il proprietario dei Montevideo Wanderers, nonché presidente della Federazione calcistica dell’Uruguay. La proposta di Gómez piacque sin da subito anche ai vicini argentini, i quali inoltrarono il progetto pure ai brasiliani.
A quel punto, il presidente dell’Asociación Uruguaya de Fútbol intuì che la nascita dell’imminente torneo sarebbe potuta essere l’occasione giusta per far convogliare tutte le federazioni calcistiche dell’America Latina, «todos los países hermanos», in un’unica grande confederazione: la Confederación Sudamericana de Fútbol, oggi conosciuta meglio come Conmebol.
In quello stesso anno, dunque, nacque il primo torneo al mondo per nazionali con cadenza annuale: il Campeonato Sudamericano de Football (il nome Copa América verrà utilizzato solo a partire dagli anni Settanta), in grande anticipo sui Mondiali, sui Campionati Europei e sulla Coppa dei Campioni.
La nascita della Conmebol
La nascita della Conmebol sancì di fatto l’estromissione degli inglesi dall’amministrazione continentale del calcio. Un controllo che vigeva sin dal 1905, quando ci fu l’ideazione della Copa Lipton messa in palio all’epoca dall’omonimo magnate scozzese del tè britannico.
Le squadre invitate a disputare la prima edizione, oltre all’Uruguay organizzatore e all’Argentina che avrebbe ospitato le partite, furono il Brasile e il Cile. Tutti contro tutti in un girone unico, con gare di sola andata. Chi avesse totalizzato più punti si sarebbe portato a casa il primo titolo della storia.
Le partite si giocarono a Buenos Aires sul campo dello stadio Juan Carmelo Zerillo, quello che ospitava gli incontri casalinghi del Gimnasia y Esgrima. All’epoca era in grado di contenere oltre diciottomila tifosi.
Il 2 luglio 1916 si giocò il primo incontro: Uruguay-Cile. Tra le fila dei cileni, che per i successivi quattro anni sarebbero stati considerati la squadra materasso del torneo – poiché capaci di cogliere solo due miseri punti nelle prime quattro edizioni – giocava il basco Ramón Unzaga. La mattina di mestiere faceva il contabile nella miniera di carbone Schwager. Lui era già nuotatore e corridore provetto dall’età di diciotto anni. Col pallone tra i piedi, però, aveva cominciato a fare le fortune del club Escuela Chorera.
Nel giorno del suo esordio in Copa América, era temutissimo dalla difesa uruguagia. Due anni prima, infatti, sul campo dello stadio El Morro di Talcahuano, aveva lasciato tutti a bocca aperta esibendosi in quella che oggi viene chiamata rovesciata. Allora i cileni presero invece a chiamarla «chorera», epiteto derivante dal nome della squadra di Unzaga. Ma fu durante la prima edizione della Copa América che quel gesto valicò per la prima volta le Ande cilene e si presentò davanti a un pubblico più vasto.
Gli argentini, che sono notoriamente riconosciuti come dei maestri nell’inventare continuamente il linguaggio calcistico, la ribattezzarono «chilena» e si accorsero ben presto quanto quel gesto balistico fosse enormemente rivoluzionario. A differenza di due anni prima, però, l’inventore dell’iconica acrobazia che negli anni successivi avrebbe meravigliato i tifosi di tutto il mondo e reso immortali le reti di molti giocatori, da Carlo Parola a Marco Van Basten, in quel torneo non riuscì a segnare.
A siglare una doppietta fu invece l’uruguagio José Piendibene, l’attaccante che da molti specialisti viene considerato il primo giocatore moderno, uno che già all’epoca andava a prendersi la palla a metà campo. I soprannomi per lui già al tempo si sprecavano: «El Rey del país», «Emperador del Engaño» o «El sultàn de la gambeta», giusto per citarne qualcuno.
Isabelino Gradín: tra calcio e atletica
Ma a siglare un’altra doppietta in quella partita, contribuendo a scolpire per sempre il risultato finale sul 4-0, fu però Isabelino Gradín. Il protagonista di questa storia. Era un giocatore dinamico, spettacolare, tecnico e soprattutto veloce. Talmente rapido che non avrebbe legato i suoi successi sportivi solo al calcio. Sarebbe stato, inoltre, anche primatista di atletica leggera nei 200 e nei 400 metri.
Il calciatore, il giorno dopo l’incontro, finì però al centro di una controversia giudiziaria principiata dai cileni per via delle sue chiarissime origini africane. La delegazione cilena, dopo il perentorio risultato che l’aveva vista sconfitta, accusò quella uruguagia di non aver rispettato le regole, in quanto aveva schierato in campo ben due «africanos»: Isabelino Gradín e Juan Delgado. I cileni si stavano appellando a una clausola vigente nel vecchio regolamento ereditato in gran parte dalla Coppa Lipton. In base a quest’ultimo, le rappresentative sudamericane dovevano essere composte soltanto da quei nativi figli dell’alta borghesia industriale europea.
La Svizzera dell’America
L’evidente razzismo dei cileni, malcelato da un improbabile rigore anglosassone. Il regolamento, della vecchia Coppa Lipton, era ormai vetusto e ampiamente sorpassato dalla trasformazione culturale di un intero continente. Quest’ultimo nasceva dalla mancata conoscenza delle leggi assai progressiste in materia che vigevano sulla sponda uruguagia del continente. Nella República Oriental del Uruguay, che soprattutto negli ultimi anni stava crescendo democraticamente ed economicamente, Gradín e Delgado risultavano come cittadini uruguagi a tutti gli effetti.
Da quando era salito al potere José Batlle y Ordónez, il celebre presidente illuminato dalle idee filosofiche-liberiste del tedesco Karl Krause, il Paese aveva garantito il suffragio universale. Inoltre avevano esteso il voto alle donne. Promosso numerose riforme sociali, concesso il diritto di sciopero ai lavoratori, ridotto le giornate lavorative a otto ore. Avevano laicizzato lo Stato, ammesso la legge sul divorzio e garantito la cittadinanza a tutti gli immigrati. A prescindere dalla propria nazionalità d’origine. Sicché nei primi anni del Novecento l’Uruguay risultava uno dei Paesi più avanzati al mondo, e per questo motivo qualcuno lo definì la «Svizzera dell’America».
Nella capitale Montevideo vivevano e lavoravano infatti immigrati da ogni parte d’Europa, anche parecchi italiani, molti dei quali di origine piemontese. Questi ultimi, tra l’altro, già due secoli prima, avevano contribuito enormemente allo sviluppo del Paese, anche dal punto di vista dei toponimi. Furono loro i primi ad opporsi con vigore alla volontà inglese di ribattezzare un latifondo abitato da molti italiani in New Manchester, imponendo invece il più italiano Pinerolo (come il comune di appartenenza) che poi in castigliano avrebbe assunto il nome di Peñarol. La squadra locale, che prese il nome di Central Uruguay Railway Cricket Club, avrebbe aperto le proprie porte sia ai tanti figli di italiani, sia a quelli provenienti dal continente nero, tra cui proprio Gradín che era figlio di ex schiavi affrancati provenienti dal Lesotho e crebbe nel quartiere Palermo di Montevideo.
Le cicale e le formiche
La vittoria per 4-0 sugli avversari cileni venne dunque confermata dall’appena nata Conmebol, la quale dichiarò che il torneo sarebbe stato aperto ai giocatori di tutte le federazioni sudamericane, senza tener conto né del passaporto, né del colore della pelle. Isabelino Gradín ebbe quindi modo di giocare e segnare ancora, anche contro il Brasile, contribuendo così a portare l’Uruguay al primo posto in classifica.
Il 16 luglio era prevista l’ultima partita tra Argentina e Uruguay, che di fatto corrispondeva a una vera e propria finale. Gli uruguagi, però, a differenza degli avversari, potevano permettersi anche un pareggio, avendo a disposizione due risultati utili su due per portarsi a casa la vittoria del primo torneo.
Dopo il mezzo passo falso con i brasiliani (1-1), l’Argentina davanti al proprio pubblico non poteva permettersi di deludere anche contro i “piccoli” uruguagi. Questi ultimi sono sempre stati, colpevolmente sottovalutati e considerati dagli argentini una sorta di provincia distaccata. Del resto era sulla sponda argentina del Río de la Plata che tra i potreros, i caratteristici cortili disconnessi di Buenos Aires, erano nati quei virtuosismi calcistici come la gambeta (il dribbling), la rabona e la marianela, afferenti a un diffuso e moderno modo di giocare divenuto una vera e propria arte, al punto che un settimanale argentino titolò: «IL FÚTBOL RIOPLATENSE È IL CALCIO MIGLIORE DEL MONDO». L’articolo portava la firma del giornalista Dante Panzeri che sulle colonne del prestigioso «El Gráfico» elogiava il gioco «basso, corto, preciso, artistico, dinamico» a cui avrebbe dato il nome di «estilo criollo», lo stile dei creoli.
Tuttavia, i vicini uruguagi, imputavano a questo modo di giocare alcuni limiti evidenti, tra cui quello di non avere il fine della vittoria. Dal canto loro, invece, poiché forti della propria connotazione etnica legata alla tribù indigena dei charrúa – e alla conseguente e famigerata garra – promuovevano uno stile di gioco che, per quanto simile a quello argentino, era però più strategico e speculativo. Uno stile di gioco che, vale la pena ricordarlo, ha portato in bacheca, rispetto ai cugini, più successi internazionali: due Mondiali di calcio e due Olimpiadi contro i “soli” due Mondiali argentini. Gianni Brera, nella sua Storia critica del calcio italiano, ha descritto così la differenza tra le due scuole calcistiche rioplatensi: «L’Argentina sono le cicale, l’Uruguay le formiche».
Ultimo tango del negro
La ressa attorno allo stadio, cominciata già dalle prime ore del mattino, anticipò il clima rovente attorno alla partita. I pochi poliziotti che facevano da cordone davanti all’ingresso delle tribune non furono in grado di contenere la folla senza biglietto. I facinorosi penetrarono dunque liberamente nello stadio e fecero registrare un numero di presenti ben superiore alla naturale capacità contenitiva di diciottomila persone.
Carlos Fanta, che in realtà non era era un vero e proprio arbitro, bensì l’allenatore del Cile, arbitrò la partita. Dopo pochi minuti dal fischio d’inizio, però, Fanta dovette interrompere l’incontro perché la foga dei tifosi era diventata incontenibile. Gli spettatori sfondarono le recinzioni e continuarono la sfida sul campo a suon di sputi, spintoni e cazzotti. Il tutto si concluse con mezzo stadio dato alle fiamme e una decina di arresti. Ci vollero ore per domare l’incendio.
La partita venne quindi rimandata al giorno dopo, in un altro stadio. Il campo del Racing Avellaneda si disse disponibile per ospitare la ripetizione del match. Entrambe le squadre, però, giocarono al di sotto delle proprie possibilità fisiche e psicologiche, temendo nuovi incidenti dentro e fuori lo stadio. Il risultato finale fu dunque uno scialbo zero a zero che consentì all’Uruguay di fregiarsi del titolo della prima edizione della Copa América. I calciatori uruguagi, però, non ricevettero nessun trofeo. La prima coppa, fabbricata in una gioielleria di Buenos Aires al costo di 3000 franchi svizzeri, venne messa a disposizione solo dall’anno successivo.
Il protagonista assoluto della prima edizione
Nonostante gli incidenti, la sconfitta e il caso del razzismo, la delegazione argentina fu abbastanza soddisfatta del risultato. L’evento si poteva e si doveva ripetere: la grande storia della Copa América avrebbe continuato ad echeggiare negli annali del calcio mondiale. E nessuno ha mai dimenticato il protagonista assoluto della prima edizione: Isabelino Gradín.
Malgrado l’assenza nella mitica formazione che vincerà l’oro a Parigi nel 1924 (per via di una disputa in seno alla federazione uruguagia), Isabelino rimarrà per sempre nei cuori e nelle menti di tutto il pubblico uruguagio, e non solo. Persino il poeta peruviano Juan Parra del Diego gli dedicherà versi che poi saranno recitati il giorno del suo funerale nel 1944, insieme alle ultime parole rilasciate da lui stesso durante un’intervista a «El Gráfico»: borocotò, chas, chas, come si cantava nella sua canzone preferita: Tango negro. Oggi a Montevideo una piazza porta il suo nome. Il nome di quel negro che non doveva giocare.