GLIEROIDELCALCIO.COM (Roberto Morassut) – Quante volte abbiamo rivisto quelle immagini?
Quante volte abbiamo guardato, analizzato i movimenti di quelle indimenticabili azioni della “partita del secolo”, per rivivere l’eco di quelle sensazioni?
Quelle immagini sono una pietra miliare della storia del dopoguerra. In un anno, il 1970, nel quale si incontrarono la voglia di cambiamento che attraversava il Paese e la reazione a quel cambiamento, fatta di bombe, di intrighi, di rapimenti. La “partita del secolo” parve quasi la rappresentazione scenica di quella tensione, di quella sospensione del destino, di uno stare sul filo dove ogni esito era possibile. In realtà tutto accadde in 20 minuti. Venti minuti di pura follia sportiva, di genio e destino. Dal 91 al 111 minuto venne giù l’Olimpo. Giove si risvegliò scatenando saette. Venti minuti di forza e di nervi a 2200 metri di altitudine con l’aria rarefatta e l’ossigeno in rosso. L’Italia arrivò a quella partita, come sempre, con uno strascico di polemiche malcelate. L’Inter e il Cagliari erano i pilastri di una Nazionale per il resto condita da un po’ di Milan, da un tocco di Fiorentina, Torino e Napoli e dalla anonima presenza juventina nella figura di Beppe Furino, mastino dai piedi di marmo. L’Inter comandava. E per Rivera non ci fu vita facile. Era il Rivera del Pallone d’Oro, al terzo mondiale. Ma dovette acconciarsi alla staffetta con Mazzola. Quando però, nella partita contro il Messico, padrone di casa, ai quarti di finale a Toluca portò l’Italia, fino ad allora grigia e deludente, al trionfo per 4-1, fu chiaro che da lui non si poteva prescindere. Valcareggi non lo schierò subito nel primo tempo coi tedeschi e gli preferì Mazzola. Valcareggi non aveva proprio una predilezione per il Golden Boy.
All’inizio del Mondiale si trovò davanti alla necessità di sostituire Anastasi che si era infortunato. E dovette rispedirlo a casa. Chiamò allora Boninsegna, altro campione assoluto che però egli “non vedeva”, e per non scontentare nessuno vi aggiunse Pierino Prati del Milan. Dovette quindi rimandare a casa uno dei convocati e scelse il povero Lodetti che era lì come attendente di campo di Rivera. Era il suo corridore, il faticatore che puliva il campo per offrire le condizioni alle giocate lucide e eleganti del Golden Boy. La sua eliminazione fu una brutta cosa sul piano personale ma fu anche un mezzo sfregio a Rivera, che protestò e minacciò di lasciare il Messico. Dovette intervenire Nereo Rocco per dirimere la questione. Ma veniamo a quel 17 giugno. Segnammo quasi subito. Manovra di Bonimba dalla tre quarti. Un balletto in slalom tra quattro tedeschi (oggi non farebbe un metro e sarebbe sdraiato al terzo tocco di palla) uno scambio rapido, un rimpallo con Riva e un sinistro secco alla destra di Maier: 1-0. Ci mettiamo in trincea e con il contropiede fiacchiamo per un ora la reazione dei tedeschi. Albertosi sfodera una delle partite più spettacolari della sua vita. Salta come un gatto e quando non arriva sbuca Rosato e salvare sulla linea con una mezza girata disperata. Nel secondo tempo esce Mazzola che non se lo aspetta. Dirà: “Con Mazzola nei primi 45 minuti l’Italia fu sopra per 1-0. Nel secondo tempo e nei supplementari fu 3-3. Chi vinse quella partita?”. Ma la legge della staffetta, tutta italiana, impone il compromesso. Rivera da maggior brio alla manovra e Riva sembra trovarsi meglio anche se scantona troppo spesso nell’off-side. Arriviamo al 90 quando Albertosi salva con un balzo da Batman un colpo di testa di testa di Uwe Seleer. Sembra fatta. Il nostro portiere ha tolto i guanti e preferisce giocare a mani nude. Al secondo minuto di recupero c’è un cross di Grabowski che trova Schnellinger solo al centro dell’area. Spaccata e piattone destro: 1-1. Una coltellata. Anche perché Schnellinger gioca al Milan. “Mi trovai lì per caso, pensavo fosse finita e mi avvicinavo al tunnel di uscita quando arrivò la palla da sinistra”. Da quel momento fu un’altalena di emozioni. Il perfido Gerd Müller approfittò quasi subito, all’inizio del primo tempo supplementare, di un malinteso tra Albertosi e il povero Poletti per infilare la punta del piede e far rotolare la palla nella nostra porta lemme lemme. Poteva essere la fine. L’Italia sbandò demoralizzata per qualche minuto. Ma poi trovammo le energie per reagire. Dio solo sa dove. La Germania ci smuove sempre il fegato, da secoli. E così, forse per un senso di divina vendetta, poco dopo Burgnich si trova sul sinistro e nello stesso punto da cui Schnellinger ha scioccato il tiro dell’1-1, una palla non facile ma che è quasi un rigore. La tocca male, con la tibia, quel tanto di maligno per fulminare il nero Maier che infatti resta spiazzato. “Non avevo mai segnato in nazionale e non c’era motivo di trovarmi lì, io terzino…”. Eppure c’era. A raccogliere una palla inattiva uscita chissà come da una punizione di Rivera. Poi il gol dei gol. Accompagnato dalla cadenza quasi epica di Nando Martellini: Riva, Riva, Riva, ed è gol! Ha segnato Riva! Domenghini lanciato da Rivera caracolla alla sua maniera a sinistra e ai trenta metri restituisce la palla al nostro numero 11, che mette in scena il suo pezzo migliore. Stop di piatto sinistro, sterzata per aggiustarsi bene la palla, caricare il colpo e poi un rasoterra come una stilettata ad incrociare sul palo opposto. Quasi come il gol nella finale degli europei del ‘68 che ci valse il titolo. Ma non è finita. Ancora Albertosi salva una pallaccia sotto il sette buttandola in angolo. Rivera si sistema sul primo palo. “Se arriva lì è tua“, gli fa Albertosi. Ed è lì, proprio lì, che la palla arriva dopo un tocco infame del solito Muller sullo sviluppo del corner. Gli dei del’Olimpo non hanno smesso di giocare con la passione degli uomini. Rivera non ci arriva e goffamente cerca di opporsi un po’ col ginocchio è un po’ col corpo e la palla va dentro. Disperato si abbraccia al palo sotto gli insulti di Albertosi. “Posso solo far gol” dice mormorando mentre torna verso il centro del campo. Il tempo di battere. De Sisti nel cerchio del centro campo fa un balletto di gambe per disorientare Held poi scarta su Facchetti che con le sue gambone lancia Bonimba sulla sinistra. Il Bagonghi (come lo chiamava Brera) se ne va di forza e mette al centro alla cieca. “Non sapevo che c’era Rivera. La buttai in mezzo disperatamente, sperando che arrivasse qualcuno”. E lì, proprio lì, quasi sul dischetto Rivera consuma la sua e la nostra vendetta. Un tocco astuto e furbo. In controtempo. Una cosa all’italiana. La furbizia e l’inganno che demolisce il panzer tedesco. Le quattro giornate di Napoli. Gli scugnizzi contro i carrarmati. Le motosiluranti improvvisate di Luigi Rizzo contro le corazzate austroungariche. La furbizia tattica dei legionari di Cesare contro la furia dei Galli. Caio Mario contro gli Alamanni. In un attimo secoli di storia, secoli di rivalità e anche di odio si concentrano in qual piatto destro che passa a un centimetro dal piede di Maier che si allunga come il Mr Reed dei Fantastici Quattro ma non ferma la pugnalata. Nel ‘70 la generazione della guerra c’era ancora tutta e quel gol fece rivivere profonde rivalse verso i tedeschi. Fu fantastico il commento di Martellini. “Non potremo mai ringraziare abbastanza i nostri giocatori per queste emozioni”.
E mentre Riva abbraccia Rivera sdraiato sotto di lui come la Pietà di Michelangelo (la posa è la stessa) Maier si infuria e batte disperato i pugni in terra, Beckenbauer, con la spalla fasciata, raccoglie il pallone in rete con aria mesta. È la fine, anche se mancano 9 minuti: 4-3. Siamo in finale. Distrutti. Aspettiamo il Brasile. Con i verde oro reggeremo solo un tempo. Ma ci sarà poi modo di rifarci nel 1982 con un’altra partita altrettanto vibrante e memorabile. Quella del Sarrià. Ma nulla potrà mai eguagliare quel 17 giugno del 1970. Un marchio per una generazione. Una svolta della memoria. In un anno indimenticabile, sospeso e incerto. La fine del dopoguerra e l’inizio di una nuova era, quella della tecnologia totale e della conquista dello spazio. Anche per questo non potremo mai dimenticare quei momenti e quelle immagini che ci inchiodano a noi stessi. Ci restano le note di una incantevole e ironica bossanova incisa per quei mondiali da Fausto Cigliano: Ossessione ‘70. “In panchina … con Zoff!…”