Storie di Calcio
2 giugno 1978: l’Italia inizia i mondiali d’Argentina
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2 giugno 1978: L’Italia inizia i mondiali d’Argentina
È un venerdì, quello del 2 giugno 1978, quando l’Italia esordisce ai Mondiali del 1978 che si giocano in Argentina.
Gli azzurri, lo si dica già da subito, si sono qualificati vincendo un girone difficile, quello del gruppo 2 Europeo, data la presenza dell’Inghilterra e considerata la circostanza che si sarebbe qualificata solamente una squadra.
Sia Italia che Inghilterra vincevano 5 gare e ne perdevano una, ovvero lo scontro diretto rispettivamente in casa dell’avversaria e in entrambi i casi per 2 a 0.
Decisiva, quindi la differenza reti, favorevole agli azzurri con 18 gol fatti e 4 subiti, a fronte dei 15 inglesi (sempre 4 le reti al passivo). A questo punto si potrebbe dire che si era rivelata cruciale la vittoria a spese della Finlandia per 6 a 1 il 15 ottobre ’77 a Torino con 4 gol di Bettega (peraltro, non in perfette condizioni fisiche), 1 di Graziani e 1 di Zaccarelli.
Quando gli azzurri affrontano il mondiale argentino, in quell’ormai lontano giugno del ’78 l’Italia era piombata nella peggiore crisi politica e istituzionale della storia repubblicana, con il culmine raggiunto con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro e con le dimissioni da presidente della Repubblica da parte di Giovanni Leone, evento quest’ultimo che accade il 15 giugno, mentre si tiene la rassegna mondiale.
Il torneo si svolge, come segnalato sopra e come è ampiamente risaputo, in Argentina, ovvero in un Paese succube di una feroce, cieca, grigia e disgraziatamente cruenta dittatura militare al potere all’incirca da due anni.
Già si parlava di oppositori morti che venivano fatti scomparire (i desaparecidos) Quest’ultimo particolare provocava sdegno e malumore e non mancavano federazioni nazionali di calcio (vedere alle voci Francia, Olanda, Svezia) che, quanto meno, avevano preso in considerazione l’ipotesi di boicottare la rassegna iridata. Alla fine non se ne faceva nulla; del resto, a parte qualche timida riserva iniziale di qualche membro della Fifa, in realtà quest’ultima chiuse più occhi, nella sostanza addivenendo a compromessi e baratti più o meno inconfessabili.
La Fifa lasciò passare la circostanza che la nazione sudamericana patisse la dittatura in cambio di appoggi ai vertici del medesimo organismo calcistico, da pochi anni a quella parte nelle mani di Havelange. Al più ci si accontentò di qualche spruzzata di formalismi legali, di rassicurazioni con sorrisi di circostanza, di generiche (e, comunque dagli effetti temporanei, giusto il tempo dei mondiali) garanzie, dando l’impressione di una normalità apparente e forzata.
E gli stessi mondiali diventavano uno strumento di propaganda politica e di ordine politico e sociale; ovvio che la giunta militare al potere auspicasse e sollecitasse la vittoria della nazionale argentina. Già la formula del torneo era studiata per cercare di favorire la selezione biancoceleste.
Quanto alla nazionale Italiana, la stessa da un anno era diretta da Enzo Bearzot, tecnico federale di lunga data, che aveva vissuto in prima persona, sia pure gerarchicamente in subordine, la spedizione mondiale in Messico, bella e leggendaria quanto si vuole, ma non senza travagli interni e polemiche (vedere alla voce staffetta Rivera-Mazzola e questione della sostituzione di Anastasi infortunato), oltre alla traumatica e fallimentare spedizione tedesca del 1974.
Bearzot conosceva profondamente il calcio internazionale e aveva dei principi e delle idee in fatto di assemblaggio e gestione della nazionale. Istanza del gruppo unito e quella di giocatori da selezionare in base alla compatibilità con lo stesso complesso, prima ancora dal punto di vista umano e caratteriale che tecnico, erano coordinate fondamentali.
La difesa italiana doveva chiudere tutti i varchi. Contemporaneamente, doveva contribuire a dare il “la” alle azioni che avrebbero condotto la squadra a segnare. Il football di Bearzot, che amalgamava la difesa all’italiana con il calcio totale olandese, voleva imporsi.
Non doveva essere il trionfo del catenaccio e del “non gioco”, atti solo a distruggere quello degli altri, come avrebbe sostenuto nel tempo Menotti, C.T. argentino.
È pur vero che a livello di club gli italiani in quel periodo non vincevano a livello internazionale, è pur vero che il frangente era quello durante il quale nei campionati italiani si segnava poco: ma, in fondo, Bearzot prendeva il meglio di tutto.
In conclusione, egli praticava una sorta di 4-4-2, a occhio e croce (un libero capace di rilanciare l’azione e non molto distante dallo stopper, un marcatore, un terzino sinistro incursore e uno destro, pure capace di galoppare nella fascia e crossare; un centrocampista di interdizione, due mezze ali universali, a tutto campo, una più di quantità, una più di qualità, un’ala tornante capace di far ripartire il gioco, due attaccanti), ma molto duttile, facilmente modificabile in 3-5-2 (quando, con il pallone in possesso dell’Italia, il libero si portava a dettare l’azione a centrocampo o il terzino sinistro avanzava), o in 5-3-2 (in caso fosse necessario aggiungere un marcatore, quando in attacco vi era l’avversario).
Una zona mista (con marcature a uomo quando e dove occorresse e la zona a metà campo), interpretata da un team assemblato di giocatori universali, a cui non mancava la velocità, con possibilità di rapidi inserimenti di difensori e centrocampisti in attacco.
Il sistema per Bearzot non era statico ed era soggetto a varianti, potendo per esempio esigere anche le ali a protezione della difesa, come nella partita del 5 luglio 1982 contro il Brasile: aveva una sua dinamicità ed elasticità di proposizione anche (o soprattutto) in rapporto alla squadra affrontata.
Perché non si vincono le partite solo con il gruppo: è necessario affrontare nella maniera più adeguata l’avversario. Bearzot al riguardo predicava che la partita si prepara innanzitutto studiando la squadra che ci si troverà di fronte, in modo da circoscrivere i suoi punti forti e da colpirla in quelli deboli. E tutto questo non significava difensivismo, come in genere si rimproverava al C.T..
Era un sistema di gioco che non tralasciava i dettami della scuola calcistica di Rocco, con cui Bearzot aveva collaborato, ovvero del calcio all’italiana, con il libero, in modo da garantire una sufficiente solidità difensiva, ma che teneva conto, in un verso o nell’altro, dell’esperienza creativa in chiave offensiva del calcio totale olandese, con l’intenzione di trarre il meglio dalle due scuole teoriche, senza dimenticare l’esigenza di filtrare e convalidare quanto di buono ne veniva setacciato e selezionato, pragmaticamente, alla luce della realtà rappresentata di volta in volta dall’avversario di turno, in maniera da prenderne “sul campo” le opportune contromisure.
Era una modalità di gioco per Bearzot ideale per dare al giocatore di talento la possibilità di poterlo esprimere al meglio. Un sistema di football i cui cardini Bearzot pensava “di prendere dal calcio olandese, che in quegli anni era all’avanguardia nel mondo, il principio di privilegiare i polivalenti. Noi in Italia eravamo fermi agli specialisti, mentre all’estero si incontravano sempre più spesso giocatori capaci di rendersi utili alla squadra in ogni zona del campo e in ogni fase della partita. Ma poiché il modello tattico olandese era scarsamente adattabile alle nostre caratteristiche, pensai che il modulo di riferimento poteva intanto essere quello polacco”.
Quindi giocatori polivalenti, sì, ma senza rinunciare al libero (libero in grado, come Scirea, di essere anche lui polivalente). Sì, è vero, si segnava con il contagocce: ma perché ci si difendeva e ci si sapeva difendere gagliardamente (cosa che, per esempio brasiliani o argentini non sapevano fare), dopo che negli anni ’60 da noi si era imposto indiscutibile il calcio all’italiana: e questa efficacia nel reparto arretrato Bearzot l’aveva mantenuta nella nazionale, non rifiutando, però, quanto di meglio passasse il convento a livello internazionale in fase di gestione del centrocampo o dell’attacco.
E soprattutto la filosofia bearzottiana del gruppo unito: e Cesare Maldini anni dopo avrebbe detto che mai aveva trovato una squadra così, senza screzi o gelosie o antipatie. Adesso, senza dilungarsi su taluni aspetti che meriterebbero essi stessi pagine e pagine, si dica il C.T. azzurro per i mondiali del 1978 preferiva affidarsi a due blocchi di giocatori che militavano nella Juve e nel Torino, che all’epoca era le migliori squadre in Italia, protagonisti un anno prima di una volata scudetto epica.
Come noto il campionato 1976 – 77 terminava con la Juve a 51 punti e il Torino a 50. E la Juve vinceva per la prima volta una competizione europea, dopo qualche finale persa. Stagione importante: forse il favorito iniziale per lo scudetto era il Torino, ma l’allor giovane neoallenatore juventino Trapattoni, che le solite malelingue consideravano, data la sua poca esperienza in panchina, come una sorta di portaordini di Boniperti, operava un piccolo miracolo, trasformando, in particolare Tardelli da difensore a perno del centrocampo capace di tutto e rilanciando Benetti (non mancava chi lo vedesse in declino) come centrocampista pimpante.
Alla luce delle indicazioni anche del campionato 1977 – 78, che vedeva protagonista, oltre che Juve e Torino anche il Lanerossi Vicenza (si consacravano in quel campionato come campioni due giocatori giovani, Paolo Rossi e Antonio Cabrini), veniva selezionata una squadra di valore. Bearzot con sé conduceva in Argentina nove giocatori della Juve (trattasi di Zoff, Gentile, Cuccureddu, Cabrini, Scirea, Causio Tardelli, Benetti e Bettega – della formazione bianconera mancavano di fatto solo Furino, Morini e Boninsegna, quest’ultimo perché ormai a fine carriera), 6 del Torino (Claudio e Patrizio Sala, Zaccarelli, Pecci, Graziani e Pulici), oltre ai due portieri di riserva Bordon e Conti, rispettivamente di Inter e Roma, la riserva di Scirea Manfredonia della Lazio, Maldera del Milan, Bellugi del Bologna, Antognoni della Fiorentina, Rossi del Lanerossi Vicenza. Novità Cabrini e Rossi.
Il primo non aveva ancora esordito in maglia azzurra, il secondo aveva totalizzato solo 2 presenze. Squadra eclettica in più elementi essenziali: Gentile ha raccontato che nella sua carriera non ha indossato solo le maglie numero 1, 6, 9, Cuccureddu aveva esperienze di centrocampo, maturate al tempo in cui nella Juve aveva sostituito Haller, Cabrini come giocatore era “nato” come ala, Scirea aveva iniziato da centrocampista, Benetti aveva esperienza da vendere.
Graziani nel Torino era abituato a pressare i giocatori avversari. Per altra questione, la circostanza che il mondiale si giocasse in Argentina forse ha costituito un vantaggio per la nostra nazionale: il fresco australe (nella parte Sud del mondo a giugno non è estate) ha recato bene alla squadra di Bearzot, come il clima più fresco della Galizia 4 anni dopo in Spagna avrebbe favorito gli azzurri.
E, anche questo similmente a quello che sarebbe successo nel contesto del mondiale successivo (in questo ultimo caso in maniera più dirompente e parossistica), l’Italia partiva per affrontare la competizione iridata tra lo scetticismo generale e il fiume di critiche da parte della stampa per causa delle amichevoli premondiali non esaltanti, specie l’ultima il 18 maggio ’78 con la Jugoslavia, conclusasi con un deludente pareggio dopo una gara scialba.
Si dica che la stampa non è mai stata tenera con Bearzot (questo da sempre e sino alla vittoria contro l’Argentina il 29 giugno 1982 nel successivo mondiale). Ma gli azzurri avevano, come sarebbe capitato sempre 4 anni dopo, fiducia in se stessi e piena consapevolezza dei propri mezzi.
E parlando adesso a mente serena e dopo tanti anni, si può sostenere che quella squadra, con quei nomi era una signora compagine; di più, era la migliore del torneo, forse anche superiore a quella vincitrice in Spagna l’11 luglio 1982.
E Bearzot, come si sarebbe visto particolarmente nel mondiale posteriore, magari perdeva o non vinceva le amichevoli, ma nelle competizioni iridate raramente falliva (si tralasci il mondiale del 1986, altra epoca e altro contesto, con una nazionale che ormai procedeva lungo il tunnel di un ricambio generazionale).
Comunque, pervenuti in quell’Argentina plumbea di quel contesto storico, con una dittatura militare onnipresente, gravosa, ma in nome delle logiche della guerra fredda utile, o, comunque, “tollerabile” per una certa componente politica occidentale, la nazionale veniva di fatto confinata in uno splendido ritiro dove si trovava un campo da golf, lontana dalla realtà della vita quotidiana, affinché non potesse essere vista e non potesse vedere: in giro si poteva andare solo accompagnati dalla polizia.
La prima gara l’Italia la doveva sostenere con una formazione di ottimo livello, quella francese. Contro la medesima compagine transalpina gli azzurri già si erano incrociati in quell’anno solare l’8 febbraio precedente a Napoli in un’amichevole di sostanza, combattuta e tirata fino all’ultimo: due gol di Graziani nella prima ventina di minuti non era stati sufficienti per prevalere su degli avversari coriacei, razionali e trascinati da un giovane, ma già gran giocatore di eccelsa classe di nome Michel Platini.
E la Francia in Argentina poteva suscitare preoccupazioni non da poco; era allenata un allenatore che si sarebbe rivelato di fama, competente e attento, ovvero Hidalgo, una sorta di Bearzot d’oltralpe. Non si sottovalutino i nomi dei giocatori francesi, tra cui Janvion, Bossis, Tresor, Lacombe, Platini, Six, tutta gente che si sarebbe, peraltro, segnalata nel mondiale successivo con una gran prova grazie a un centrocampo di qualità elevatissime, tali da autorizzare gli addetti ai lavori a definire la Francia il Brasile d’Europa (e la nostra formazione si era accorta della forza francese il 23 febbraio 1982 in un’amichevole a Parigi persino umiliante per il volume e le altezze del gioco degli avversari).
Dunque, il 2 giugno Italia – Francia. Inizia la partita l’Italia; dopo 44 secondi una corsa in fascia di Six mette in condizione Lacombe, che eludeva il controllo di Bellugi e poteva segnare.
Il nostro mondiale iniziava con gli incubi: una sconfitta o, peggio, una brutta sconfitta iniziale poteva compromettere il mondiale, dato che avrebbe scatenato, come una reazione a catena, critiche e polemiche dirompenti in un frangente in cui ancora risuonava la eco di tutti i mormorii uditi dopo le amichevoli con Spagna e, soprattutto, Jugoslavia.
Ma l’Italia nella quale era esordiente assoluto Cabrini e Rossi era alla terza partita con la maglia azzurra, grazie o per causa di quel gol a freddo si scuoteva e lasciava scivolare via ogni remora o timore. L’Italia avrebbe condotto un gran match e le occasioni sarebbero fioccate in quantità, magari qualcuna sprecata malamente.
Ma anche la Francia avrebbe colpito e avrebbe potuto concludere a rete ancora (significative, ogni tanto, le immagini televisive che riprendevano Bearzot dal volto preoccupato, sguardi che dicevano tutto). Attacchi, capovolgimenti di fronte improvvisi, fini fraseggi, azioni di prima e belle coralità avrebbero caratterizzato la sfida.
Ma l’Italia si sarebbe rivelata da subito per quello che sarebbe stata in tutto il mondiale, ovvero una bella sorpresa, con un gioco arioso, a tratti spumeggiante, sempre efficace. I due nuovi Cabrini e Rossi si sarebbero segnalati, ancorché giovani e con pochissima esperienza, come fuoriclasse.
Meritano delle osservazioni i due gol con i quali l’Italia ribalta il risultato e vince: il primo nasce da una serie di carambole dopo che Causio coglie una traversa; Rossi a un certo punto si trova dove deve essere per metterla in rete, ma distanziando il proprio marcatore per quel che basta e arrivando diversi secondi prima. In fondo in quel gol contro la Francia nel ’78 vi sono in nuce il terzo gol contro il Brasile il 5 luglio 1982 e il primo gol in occasione della finale di sei giorni dopo.
Rossi non aveva la potenza di Riva; egli stesso riconosceva come la natura non lo avesse dotato di particolari mezzi.
Ma aveva una caratteristica che lo ha reso unico e lo ha consegnato alla storia calcistica: era in grado, quasi naturalmente, di comprendere dove e quando doveva posizionarsi per rubare attimi e centimetri a difensori più grandi e più forti, mettendoli fuori dai giochi, neutralizzandoli, rendendoli inutili. Una dote di opportunismo come pochissimi.
Il secondo gol, siglato da un tiro al volo di Zaccarelli, nasce da un’azione che vede all’opera Gentile e Rossi: già quel Gentile, arcigno difensore che si mette in mostra durante il primo gol nella finalissima spagnola, come Bergomi nel corso del secondo, quello di Tardelli, con conseguente urlo.
Già nella prima partita contro la Francia si rivela il manifesto del gioco dell’Italia bearzottiana di sempre: partecipazione di elementi eclettici, con terzini che si trasformano in attaccanti.
GLIEROIDELCALCIO.COM (Francesco Zagami)
Nato nel 1971 a San Gavino Monreale. Da sempre interessato a temi calcistici e storici. Fondamentalmente autodidatta. All'attivo 3 libri. Un quarto testo, relativo alla Storia della Repubblica sociale Italiana in corso di pubblicazione. Ora al lavoro per un libro relativo al mondo arabo e per uno riguardante il periodo d'oro della Roma di Liedholm 1979-1984.
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