La storia di Julio Libonatti, il primo oriundo a vestire la maglia azzurra
El Potrillo
Nel 1921, nell’edizione in cui esordiva il Paraguay allenato da José Laguna, l’Argentina conquista la sua prima Copa América. La nazionale albiceleste vince tutte le partite, mettendo in fila Brasile (1-0), Paraguay (3-0) e Uruguay (1-0).
La firma su queste tre vittorie, che valgono il trofeo, è del ventenne Julio Libonatti. È figlio di immigrati italiani, i quali, da oltre un decennio, arrivano numerosi nei porti sudamericani, direttamente dal Belpaese, con il sogno di veder concretizzate oltreoceano le promesse non mantenute in patria dopo l’Unità. La sola Argentina ne ha accolto più di ottantamila.
Il calcio, insieme al tango, è una delle maggiori occupazioni di xeneizes e papolitani, soprattutto a Rosario, il piccolo centro urbano, nato quasi per caso, che un tempo era utile solo per chi doveva cambiare cavallo prima di raggiungere le Ande.
Qui il pallone è più che una religione, e va oltre il campo da gioco. Maradona dirà: “Quando vai a Rosario senti un aroma di calcio che è unico”. Gli farà eco Menotti, allenatore dell’Argentina campione del mondo nel 1978, che parlerà di “stile rosarino”, che consiste in un calcio elegante, tecnico, fatto di possesso di palla, gioco collettivo e tocchi deliziosi. Qui sono nati e hanno iniziato a tirare i primi calci Ángel Di Maria e Leo Messi, ma anche il nostro Julio Libonatti.
L’abile centravanti di manovra si è già fatto notare nelle file del Newell’s Old Boys, dove gioca arretrato per distribuire meglio il gioco alle ali. È anche dotato di corsa e velocità, per questo motivo i tifosi rosarini lo hanno soprannominato “El Potrillo”, il puledro.
Libonatti, con tre reti, è il capocannoniere della Copa América 1921. E alla fine del derby del Rìo de la Plata contro l’Uruguay, i tifosi argentini scavalcano le recinzioni di legno dello stadio Barracas e se lo issano sulle spalle portandolo in trionfo per quattro chilometri, dallo stadio fino alla Plaza de Mayo, nel centro di Buenos Aires.
Argentina 1921
Il primo oriundo
La fama di questa perfetta macchina da gol dopo qualche anno attraverserà l’oceano e giungerà alle orecchie del conte piemontese Enrico Marone Cinzano, proprietario del Torino e anche dell’azienda che produce l’omonimo distillato. Per sconfiggere la Juventus ha capito che ha bisogno di nuovi giocatori, meglio se sono stelle sudamericane, come quelle che avrebbero presto brillato alle Olimpiadi di Parigi del 1924.
Così, nel 1925, Libonatti scende dal treno alla stazione Porta Nuova. Insieme a lui ha viaggiato anche Adolfo Baloncieri, uno dei più grandi centrocampisti di ogni epoca. Anche lui è figlio di immigrati italiani in Argentina, giunti anni prima dal Piemonte, ma ha da poco compiuto il viaggio di ritorno da Rosario per far fortuna prima con l’Alessandria e poi proprio con i granata. Libonatti e Baloncieri, insieme, faranno le fortune del Torino e della Nazionale italiana. Sono loro i primi oriundi della storia.
Ma cosa vuol dire oriundo? Il termine viene dal verbo latino oriri, che significa “nascere”, “trarre luce”. L’Italia, in quegli anni, si rende conto che sulle rive del Río de la Plata i figli e i nipoti degli emigranti hanno fatto del fútbol un’arte, una religione e uno stile di vita. Perché non richiamarli verso i patri lidi affinché diano una mano a far progredire il calcio italiano?
Ci sarebbe un ostacolo. La Carta di Viareggio, il primo e forse unico contributo del fascismo alla rifondazione del calcio. Il documento chiariva che si poteva giocare nel nostro campionato solo se si era italiani. Agnelli, però, vorrebbe investire il proprio denaro per portare qualche stella sudamericana alla Juventus, quindi è lui stesso a suggerire una soluzione a Mussolini. Così gli pone il problema degli oriundi. Il futuro proprietario dell’azienda italiana più importante spiega al Duce che la proibizione di ingaggiare i figli degli emigranti costituirebbe una seconda punizione per coloro che hanno dovuto abbandonare la terra natia alla ricerca di un lavoro. Agnelli e Mussolini giungono quindi al compromesso che il sangue italiano resisterebbe almeno due generazioni, e che in fondo gli oriundi sono “figli di un’Italia che si spinge fin oltre l’Atlantico”.
In tal modo, “El Potrillo” si potrà liberamente scatenare con la maglia del Torino con la quale segnerà 157 gol in 266 partite, e persino con la nazionale: 15 gol e una Coppa Internazionale. È, a oggi, il secondo miglior cannoniere granata di sempre dopo Paolino Pulici. Imprendibile dentro e fuori dal campo. Un vero dandy degli anni Venti che sotto la Mole avrebbe esibito cravatte sgargianti, camicie di seta e abiti alla moda. Dilapiderà una fortuna e farà un triste ritorno in Argentina (dopo una parantesi tra Genoa e Rimini) a bordo di un piroscafo il cui biglietto sarà pagato dai suoi più fedeli amici.