La vita di un essere umano è cadenzata da eventi più o meno tristi o gioiosi che la punteggiano, avventure che coprono un ciclo con una caratteristica unica e particolare: finisce, perché la vita di ogni persona ha una scadenza, un limite, un termine.
Quello che si perpetua è il ricordo, il retaggio, piccolo o grande che sia, che riguarda comunità intere o singole famiglie.
E gli oggetti?
Possono oggetti inanimati avere quasi una vita propria essi stessi, fino a diventare mitologici?
Sicuramente sì, soprattutto nel momento in cui acquistano un valore simbolico universale, diventano premio, rappresentazione di conquista.
Lo sport è pieno di questa simbologia, agli atleti vittoriosi nelle varie competizioni sportive viene assegnata una medaglia, che può essere simbolo di vittoria o di piazzamento, quelle che però entrano veramente nel mito sono le coppe, il premio finale di un percorso di squadra, niente come il calcio può vantare trofei che il piacere di stringere tra le mani, di conquistarli, può rappresentare l’ambizione ed il traguardo di un’intera carriera.
Si pensi alla Coppa dei Campioni, la famosa “Coppa dalle Grandi Orecchie”, il simbolo che annualmente viene assegnato alla miglior squadra europea di club e che è, forse, il trofeo più ambito del pianeta.
Il vero fascino, però, risiede altrove, perché una Coppa dei Campioni si mette in gioco ogni anno e c’è subito la possibilità di riconquistarla, una Coppa del Mondo invece no, devi aspettare quattro anni per avere la possibilità di riprovarci, e magari i casi della vita non ti daranno più quell’opportunità.
E poi la Coppa del Mondo è un trofeo per nazionali, quindi la gioia della conquista non si limita alla tifoseria di una squadra che può coinvolgere una città e i suoi tifosi sparsi per il mondo, ma una intera nazione, un intero popolo.
La Coppa del Mondo non è stata sempre quella attuale, immortalata tra le mani di Dino Zoff nel 1982, ultimamente sollevata da Hugo Lloris, capitano della Francia vincitrice a Russia 2018, e in trepida attesa di nuove mani che la alzino al cielo di Qatar 2022.
In origine la coppa era diversa, era la “Vittoria Alata” che Jules Rimet, l’ideatore della competizione e presidente della Fifa, iniziò a dare come simbolo di vittoria ai capitani delle nazionali che si succedevano sul podio dei vincitori ogni quadriennio a partire dal 1930.
Forgiato dall’orafo francese Abel La Fleur, il trofeo vide la luce nel 1928, 1800 grammi d’oro, o presunto tale, perché in realtà argento placcato in oro, in cui era rappresentata, nello stile Liberty dell’epoca, appunto la vittoria.
Da subito la sua storia è avventurosa e travagliata, neonata deve partire per un giro del mondo che come prima tappa la porterà nel lontano Uruguay, per il debutto del torneo, premiando il capitano vincitore e padrone di casa, il difensore José Nasazzi.
Poi il ritorno nella Vecchia Europa che si stava avviando verso la catastrofe della guerra, vedendo rispecchiarsi nella sua figura le sinistre immagini di dittatori quando noi italiani trionfammo per due volte consecutive.
Arrivò la guerra e la Coppa, come tante persone, dovette nascondersi alla furia distruttrice dei belligeranti tedeschi, salvata con uno stratagemma da Ottorino Barassi, all’epoca segretario della Figc, che riuscì a nasconderla, in una scatola di scarpe, alle ricerche della Gestapo.
Passata la furia bellica, ritornata la pace ritorna anche il mondiale che, in quanto ecumenico, è forse esso stesso simbolo di pace, ma subito c’è il dramma, anche se solo sportivo, quello di una nazione, il Brasile, che ospitando la ripresa nel 1950, si considerò campione prima ancora di giocare, e fu punito dagli dei del pallone, che fecero alzare il trofeo a Obdulio Varela, capitano uruguagio; alzare per modo di dire, perché tanta era la tristezza, tanto il dramma sportivo che si visse al Maracanà che nessuno ebbe la forza e il coraggio di gioire.
Si ritorna in giro per il mondo, in Svizzera, dove premiata sarà proprio la redenta Germania, anche se la nazionale più forte era l’Ungheria, poi la gioiosa Svezia, in un’edizione finalmente senza scorie e spettacolare, dove il Brasile riuscì a coronare il suo sogno, grazie anche ad un imberbe, e piangente Pelé.
“Vittoria Alata” che resta a Rio de Janeiro perché, come l’Italia 1934 e 1938, il Brasile sarà l’unica altra nazionale, a tutt’oggi, ad aver vinto due edizioni di seguito.
Arriviamo al 1966, il mondiale si disputa in Inghilterra, la culla del calcio moderno, tra le partecipanti tre, Uruguay, Italia e Brasile, che se avessero alzato il trofeo per la terza volta, se lo sarebbero aggiudicato definitivamente: questo il regolamento voluto dallo stesso Jules Rimet, il cui nome ora indica la coppa stessa, “Coppa Rimet”.
E qui, in Terra d’Albione, si consuma un giallo vero e proprio, degno della fantasia di Dame Agatha Christie.
In esposizione poco prima dell’inizio della competizione, la coppa è rubata da Westminster Hall, il 20 marzo.
Parte un’intensa…. caccia alla coppa, Scotland Yard è sotto pressione, viene anche chiesto un riscatto, alla fine non saranno Miss Marple, Hercule Poirot o l’ispettore Japp che ritroveranno la coppa, ma un piccolo cane, Pickles che, a passeggio in un parco pubblico, trova una scatola con dentro la coppa.
Grazie a questo ritrovamento, la Regina poté consegnare a Bobby Moore il trofeo per la prima volta inglese, che diventò definitivamente brasiliano quattro anni dopo a Messico 1970, quando a contenderselo furono i verde oro e l’Italia, con l’ultimo trionfo di Pelé.
Tutto finito?
No, se il lettore pensa che ora il trofeo faccia bella mostra di sé negli uffici della Federcalcio brasiliana si sbaglia, perché il 19 dicembre del 1983 fu di nuovo trafugato e mai più ritrovato, chi pensa fuso, chi sospetta nelle mani di qualche collezionista privato che se ne gode la bellezza.
Così, in modo un po’ drammatico, si conclude la storia della “Vittoria Alata”, che ha fatto il giro del mondo, è sfuggita ad attentati, è passata tra le mani di Re, Regine, Capi di Stato, capitani di nazionali, portata sempre in giro in trionfo negli stadi di tutto il mondo.