Vorrei oggi raccontarvi una storia di Calcio e di vita che s’intreccia nella vicenda amara di un campione di cui quasi nessuno sa più nulla.
Era ungherese e, nel mio racconto, immagino che sia lui stesso a parlare con voi.
Questa è la storia di Sandor Kocsis …
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Speriamo che quel sedativo che mi hanno dato faccia effetto in fretta… non ne posso più.
Ho un dolore terribile, mi sembra di avere inghiottito dei chiodi… o del vetro.
Non pensavo che si potesse provare un dolore così forte.
Dio mio… non riesco a muovermi ma anche stando fermo sento una specie di trapano che mi ferisce lo stomaco.
Vorrei abbandonarmi un po’, lasciarmi andare ai ricordi, ai rimpianti della mia vita, vorrei appoggiare la testa al cuscino e non fare niente… nemmeno pensare.
Sono stanco… stanco di tutto, anche della stessa vita.
Qui è tutto ingiusto!
Io non ero così, io ero una persona allegra, mi piacevano le ragazze, mi piaceva il vino e magari berlo in compagnia dei miei amici.
E soprattutto mi piaceva la vita.
Ed era cominciata bene la mia vita, era stata bella fino a quel maledetto 22 luglio del 1979.
Ecco… se volete un esempio, la mia vita è stata come una montagna altissima, io sono stato molto vicino alla vetta e poi, quando ho sentito la sensazione inebriante di poterla toccare, sono caduto rovinosamente.
Ed ora, in questa calda serata di un luglio spagnolo, in questo ospedale, sono rimasto da solo contro questa bestia schifosa che mi sta divorando lo stomaco.
Per fortuna il sedativo sta facendo effetto… che sollievo, finalmente posso appoggiarmi al cuscino, chiudo gli occhi e respiro molto lentamente.
Ora riesco a mettere ordine nei miei ricordi, se volete ve li racconto.
Credo che pochi abbiano avuto la fortuna di vivere i momenti esaltanti che ho vissuto io, ma sono pochi anche quelli che hanno vissuto i miei grandi, devastanti dolori.
Sapete? Io sono stato un grande calciatore. Io sono stato Sandor Kocsis, un grande goleador negli anni ‘50, una delle stelle dell’Aranycsapat, “La Squadra d’Oro”, quella della “Grande Ungheria’”.
Ero fortissimo nel gioco di testa.
Che meraviglia quella squadra!
Dal 1950 al 1954 non perdemmo neanche una partita e che incontri memorabili giocammo!
Fummo i primi a vincere a Wembley contro l’Inghilterra, ma più che una vittoria fu un trionfo, 6-3 per noi, con il pubblico inglese che prima ci accolse con gli insulti e poi ci salutò tra gli applausi.
Quei poveri inglesi li maltrattammo anche nella partita di ritorno a Budapest: 7-1 per noi.
Poi vincemmo a Roma contro l’Italia, 3-0, inaugurando lo stadio Olimpico e poi vincemmo anche le Olimpiadi di Helsinki, nel 1952.
Quattro anni di trionfi, di splendido gioco e di divertimento.
E sì, perché noi ci divertivamo davvero quando scendevamo in campo.
A volte, mentre giocavo, avevo l’impressione di dipingere una tela o di suonare uno strumento musicale.
Più che una squadra di calcio eravamo un’orchestra perfettamente amalgamata con il pubblico che ci ascoltava estasiato.
E andavamo d’accordo tra di noi.
In quella squadra c’erano fior di campioni. C’era il colonnello Ferenc Puskas, c’era il deputato Bozsik, c’era Hidegkuti, Czibor, il portiere Gyula Grosics e c’ero anch’io!!!
L’allenatore era Gustav Szebes, una gran brava persona oltre che un ottimo allenatore.
Un giorno che restammo senza un centravanti di ruolo, Szebes ebbe l’intuizione di far giocare con il numero 9 Hidegkuti, che invece era un regista, inventando così il centravanti arretrato.
Fu così che mandavamo in crisi i centrocampi e le difese delle squadre avversarie.
Sandor Kocsis – WIKIPEDIA
E sì… erano belli quegli anni per noi calciatori.
Certo, il regime comunista opprimeva pesantemente il popolo ungherese ma a noi, i componenti dell’Aranycsapat, ci portava in palmo di mano, guai a toccarci.
E poi, a dire la verità, a me la politica non interessava affatto; mi piacevano le ragazze, possibilmente ogni volta diverse, mi piaceva bere con gli amici, mi piaceva divertirmi con un pallone tra i piedi, mi piaceva saltare più in alto di tutti ed arrivare a colpire il pallone là, dove difensori avversari non riuscivano ad arrivare.
Nel giugno del 1954 si disputarono in Svizzera i campionati del mondo di calcio.
Dovevano essere i “nostri campionati”. Eravamo i più forti e qualunque risultato diverso dal nostro trionfo sarebbe stato un evento clamoroso.
Sembrava un copione già scritto: rifilammo nove gol a zero alla Corea del Sud, poi battemmo per 8 a 3 la Germania Ovest e ci qualificammo per i quarti di finale.
Battemmo il Brasile 4 a 2 ma quella non fu una partita… oh no!
Quella fu una battaglia, una caccia all’uomo ma li battemmo lo stesso i brasiliani ed io segnai due goal.
In semifinale affrontammo i campioni del mondo dell’Uruguay.
Pioveva forte quel giorno a Losanna ma dagli spalti nessuno se ne accorse, tanto fummo bravi noi e gli uruguayani.
All’inizio del secondo tempo eravamo sul due a zero per noi e sembrava fatta ma loro riuscirono a pareggiare e, a due minuti dalla fine, un tiro di Schiaffino che stava entrando in rete fu fermato da una pozzanghera.
Nel secondo tempo supplementare segnai ancora una doppietta che valse la finale.
Eravamo distrutti, le partite contro Brasile e Uruguay ci avevano letteralmente demolito i muscoli e la mente ma bastava solo uno sforzo, ancora un piccolissimo sforzo per prenderci la Coppa Rimet.
In finale avremmo incontrato di nuovo la Germania Ovest.
Era cosa fatta, in fondo l’avevamo già umiliata qualche giorno prima e poi i tedeschi erano privi di campioni e di fantasia, che fastidio avrebbe potuto darci?
Entrammo in campo a Berna quel maledetto quattro luglio 1954 che eravamo già esausti, aggrappati con i denti ad un briciolo di volontà.
Cominciò bene la nostra partita: dopo solo otto minuti eravamo già sul 2 a 0 per noi.
Ma eravamo stanchi, Dio mio come ricordo ancora e perfettamente quella totale, assoluta stanchezza che ci aveva preso.
Due minuti dopo loro avevano già pareggiato e fu allora che mi venne da pensare che, forse, non ce l’avremmo fatta.
Ecco… fu lì che intravidi la vetta della mia personale montagna ma in quell’esatto istante capii anche che non l’avrei mai potuta raggiungere.
A sei minuti dalla fine i tedeschi segnarono il goal del 3 a 2 e non ce la facemmo più a pareggiare.
Rientrammo negli spogliatoi talmente increduli che non riuscimmo nemmeno a piangere.
Che atmosfera, in quello spogliatoio.
Solo adesso ho capito che tipo di atmosfera fosse: un’atmosfera di morte!
Stavo cadendo dalla montagna e tutto stava precipitando con me.
Nel 1956 i sovietici invasero il nostro Paese cancellando ogni sogno di libertà.
Noi della Honved, la squadra di club per cui giocavo, fummo mandati in tournée in Europa ma solo per far vedere che tutto era come prima, che niente era successo.
Quando ci ordinarono di rientrare in Ungheria, pochi però ubbidirono.
Io trovai rifugio in Svizzera, a Berna.
Avevo conosciuto il presidente della squadra locale, lo Young Boys, che mi propose di giocare con loro ma la federazione ungherese non diede il nulla osta.
Così mi venne offerto un impiego di rappresentante di elettrodomestici ma i soldi erano pochi.
In qualche modo riuscii a corrompere le guardie di frontiere e a farmi raggiungere da mia moglie Alice e dalla mia bimba, Agnese.
Che anni terribili!
Ero infelice, cominciai a bere e una sera toccai il fondo facendomi arrestare per ubriachezza.
Non avevo nemmeno i soldi per l’avvocato, fu un amico a prestarmeli.
Poi in un giorno più triste degli altri diedi un bacio alla mia bimba e a mia moglie e inghiottii un intero tubetto di barbiturici.
Fui salvato per miracolo.
Dopo qualche anno la federazione ungherese concesse il nulla osta e ricominciai a giocare ma nulla fu più come prima!
In Ungheria il calcio per me era desiderio di divertirmi, voglia di vivere, adesso, invece, era solo la possibilità di dare a me e alla mia famiglia un’esistenza dignitosa.
Non esultai mai più, né per i gol né per le vittorie e portai sempre una fascia nera al braccio in segno di lutto per l’Ungheria.
Mi trasferii a Barcellona e tornai anche a vincere molte partite ma ormai il destino mi aveva battuto e umiliato più di quanto non era mai riuscito a fare alcun difensore avversario.
Quanti anni sono passati da allora!
Oggi è il 22 luglio 1979, da qualche settimana ho cominciato a sentire dolori allo stomaco, sempre più forti, sempre più insopportabili.
Mi hanno ricoverato in questa clinica di Barcellona e hanno iniziato a farmi esami su esami, visite e controlli.
Ma non ho bisogno di aspettare gli esiti, io so già che ho una bestia feroce dentro il mio corpo.
Forse ho cominciato ad averla da quel maledetto 4 luglio 1954.
Una bestia che prima ha mangiato il mio animo, la mia allegria, la mia voglia di vivere e che, adesso, sta divorando la mia carne.
Dio mio… l’effetto del sedativo sta terminando… sento di nuovo quel dolore insopportabile.
Come mi piacerebbe abbandonarmi, sentirmi stanco nel corpo e nella mente, esattamente come quella volta che rientrai negli spogliatoi di Berna dopo aver perso con la Germania ma stavolta non ci riesco.
Allora mi alzo dal letto ma ogni passo che faccio è una pugnalata nello stomaco.
Ora sono davanti alla finestra… la apro.
Mi investe un vento caldo e umido, posso sentire anche l’odore del mare.
Guardo giù… non so a che piano si trovi la mia stanza d’ospedale ma spero proprio di essere abbastanza in alto per non poterci ma più tornare.
Laureato in Economia e Commercio all’Università La Sapienza di Roma, è un autore, sceneggiatore e attore teatrale.
Mario non ama parlare molto di sé, preferisce spendere le sue parole per i personaggi delle storie che racconta e che porta in scena.
Adora due cose in particolare: le scarpe da running e le strade del mondo.
Ed è così che trova i suoi incredibili personaggi, o forse, più esattamente, sono loro che vanno a cercare Mario, perché ne percepiscono le affinità elettive.
Così facendo egli ruba prezioso spaccati di vita dai suoi viaggi, spaziando dalle Regioni della Mitteleuropa, quella da cui, perdendosi fra le acque dell’amato Danubio, non farebbe mai ritorno, ai tramonti meravigliosi dell’Africa, fino alle grandi distanze della Russia, Nazione che ama e da cui è ricambiato incondizionatamente.
Distribuisce poi il “suo bottino” trascrivendo il caleidoscopio di vite, sensazioni ed emozioni, a beneficio dei suoi lettori.
Un autore, Mario Cantoresi, capace di toccarti nel profondo e lasciarti qualcosa di unico e prezioso dentro.