Ercole, il più importante degli eroi greci, era presente quando nacque il primogenito del suo fraterno amico Telamone. Così pregò Zeus, suo padre, di concedere al nascituro la virtù del coraggio, che doveva essere pari a quella di un leone.
La supplica fu esaudita, così Aiace – questo il nome del bambino –, una volta diventato adulto, riuscì a distinguersi sul campo di battaglia nella Guerra di Troia, risultando uno dei più coraggiosi e valorosi guerrieri, uno dei pochi a poter reggere il confronto con il grande Achille.
Questo racconta il mito greco. La cronaca racconta invece che, dalla leggenda di Aiace, una domenica mattina, quella del 18 marzo 1900, nella fumosa saletta di un caffè nel centro di Amsterdam, nacque l’Amsterdamsche Football Club, la squadra di calcio che poi sarebbe passata alla storia come Ajax (il nome latino di Aiace).
Un gruppo di giovani appassionati del beautiful game si erano riuniti quel giorno all’Oost Indié con il preciso intento di creare un club calcistico, cui decisero di affidare il nome e successivamente anche il simbolo del loro eroe greco preferito, ponendo così le basi per la nascita di una formazione che negli anni a venire avrebbe scritto pagine indimenticabili della storia del calcio.
La squadra d’oro
Dopo un inizio balbettante, sempre in bilico tra la Prima e la Seconda divisione, il destino dell’Ajax cambiò per sempre quando davanti ai cancelli del vecchio stadio di legno Het Houten (casa dell’Ajax fino al 1934) si presentò un uomo inglese in bombetta, Jack Reynolds.
Era il nuovo allenatore, l’uomo che avrebbe riscritto le sorti dei lancieri, giunto in Olanda per sostituire l’irlandese Jack Kirwan e risollevare la squadra dal baratro della Seconda divisione.
Reynolds era nato a Manchester nel 1881. Dopo una modesta carriera come esterno in diverse squadre inglesi – dal Grimsby Town Football Club allo Sheffield, fino al Gillingham – aveva iniziato la professione di coach in Svizzera e nel 1914 fu chiamato dalla nazionale tedesca in vista della preparazione alle Olimpiadi.
Ma lo scoppio della Prima guerra mondiale fece cambiare i piani non solo del CIO ma anche di Jack che decise, così, di trasferirsi in Olanda dove approdò, appunto, sulla panchina dell’Ajax. Ancora non poteva saperlo, ma ad Amsterdam ci sarebbe rimasto per trentadue lunghi anni – in tre diverse fasi –, lasciando in eredità otto scudetti, una Coppa nazionale e soprattutto le basi tattiche di quello che poi, nel giro di una ventina d’anni, sarebbe diventato il Calcio totale.
Sportleider en voetbaltrainer Karel Lotsy is tot kapitein bij de Generale Staf benoemd en zal de sportorganisatie van het leger ter hand nemen.Nederland, Den Haag *5 oktober 1939
Grazie a lui, infatti, l’Ajax degli anni Venti potè vantare, rispetto alle squadre avversarie, un gioco offensivo senza eguali. Reynolds era fermamente convinto che l’attacco fosse «la miglior difesa». E partendo da questo principio, in una manciata d’anni, costruì pezzo dopo pezzo una vera e propria macchina da gol, una squadra che la stampa dell’epoca ribattezzò «gouden ploeg», la squadra d’oro.
Ajax: la squadra del ghetto
I lancieri erano trascinati dai gol di Jan de Natris, un eccellente giocatore capace anche di portare al bronzo olimpico la nazionale olandese ai Giochi di Anversa del 1920, grazie a un gol nel finale durante un pirotecnico 5-4 alla Svezia. De Natris segnava continuamente e in modi diversi, anche di testa, grazie ai cross dell’ala destra Eddy Hamel, il calciatore americano di origine ebraiche, vero e proprio idolo per la tifoseria ajacide, che poteva vantare persino un fan club a lui dedicato.
I tifosi, pur di non perdersi una delle sue leggendarie cavalcate sulla fascia o uno dei suoi precisi traversoni, durante l’intervallo si spostavano sulle tribune opposte dello stadio. La sua fine fu però tragica. Dopo l’invasione tedesca dell’Olanda nel 1940, venne deportato e ucciso nel campo di concentramento di Auschwitz.
Ma la tradizione dei calciatori ebrei nell’Ajax gli sopravvisse, proprio come racconta Simon Kuper nel suo libro Ajax, la squadra del ghetto. Il calcio e la Shoah.
Del resto, una numerosa e variopinta comunità ebraica si era stabilita ad Amsterdam prima ancora che Cristoforo Colombo sbarcasse nel Nuovo Mondo. Con il Decreto dell’Alhambra e il successivo Massacro di Lisbona, alla fine del Quattrocento agli ebrei di Spagna e Portogallo fu lampante che per loro non ci sarebbe stato futuro nelle terre iberiche.
Così si rifugiarono nella più tollerante Olanda, la quale aprì porti e braccia agli esuli appena sbarcati, e già due secoli dopo, durante l’epoca luminosa della Repubblica Olandese, molta dell’energia vitale del Paese era generata da alcuni intellettuali portoghesi discendenti dalle prime famiglie stanziatesi nei Paesi Bassi.
Uno su tutti Baruch Spinoza, il più grande filosofo che l’Olanda abbia mai generato («fino all’arrivo di Cruijff», sostiene qualcuno). E poi, più avanti, già nel Diciannovesimo secolo, la vita ad Amsterdam era positivamente influenzata dalla comunità ebraica in diversi àmbiti socio-culturali, diventando anche un punto di riferimento per il commercio dei diamanti.
Non sorprenda, dunque, che anche il calcio risentisse di questa forte incidenza ebraica. E non sorprenda, nemmeno, ciò che accadde nel febbraio 1941. In seguito alle prime restrizioni naziste nei confronti dei cittadini ebrei, come la ghettizzazione dei quartieri ebraici, quasi tutta la città si mobilitò per protestare contro questi soprusi da parte degli invasori. Capitanata dai portuali comunisti, la protesta durò solo qualche giorno prima di essere soppressa nel sangue.
Ciò fu possibile solo in virtù dell’impensata collaborazione da parte della polizia locale nei confronti delle truppe tedesche. Un migliaio di agenti olandesi, racconta la cronaca, da Amsterdam a Rotterdam, contribuirono a rastrellare gli ebrei e a spedirli nei campi di concentramento in Polonia. Cosa che fecero sotto la supervisione e l’incoraggiamento del loro commissario capo, l’olandese Sybren Tulp.
A bordo di uno di quei treni della morte, c’era anche l’allenatore dell’Ajax Jack Reynolds. Pure lui, come molti ebrei di Amsterdam, ci era finito a causa di un tradimento. Ma questa volta non era stato perpetrato da un uomo in divisa, bensì dal suo collega, nonché presidente della Federazione calcistica dei Paesi Bassi (KNVB): Karel Lotsy.
Secondo un’inchiesta giornalistica — che fece molto scalpore negli anni Settanta —, pare infatti che Lotsy avesse collaborato con i nazisti già durante i primi giorni dell’occupazione, escludendo gli ebrei dal calcio olandese «prima ancora che fossero i tedeschi a pretenderlo».
A pagarne le conseguenze fu anche Árpád Weisz, il quale conobbe Lotsy al suo arrivo in Olanda, proprio come si legge nell’imperdibile libro di Matteo Marani Dallo scudetto ad Auschwitz: vita e morte di Árpád Weisz.
Nel nome di Jack
Fatto sta che Jack Reynolds fu imprigionato nel campo di concentramento di Toszek, in Polonia, dove divise parte della sua tragedia personale con un celebre connazionale: il prolifico scrittore Pelham Grenville Wodehouse. L’autore di tanti romanzi, scritti per la maggior parte tra Francia (prima) e Stati Uniti (poi), nel lager polacco – per dirla con parole sue – spiccava «come un elefante in un gregge di pecore».
A tenere in vita l’ex allenatore fu la sua fantastica tempra, ma anche la continua assistenza a distanza da parte di alcuni dirigenti dell’Ajax che gli inviavano settimanalmente del tabacco, più inchiostro e carta su cui appuntare consigli tecnici che pubblicavano poi come trafiletti sull’Ajax-Nieuws, il giornale del club.
Ciò gli servì per mantenere viva la mente e la speranza. Una straordinaria forza di volontà, la sua, rinfocolata anche dalle partite di cricket e di calcio che riuscì spesso a organizzare sotto la severa vigilanza delle guardie naziste.
A guerra finita Amsterdam era diventata una città di fantasmi, specialmente nelle zone dove sorgevano i quartieri ebraici. Ciò nonostante, Reynolds, una volta libero, tornò di corsa sulla panchina dei lancieri. La sopravvivenza nel campo di concentramento rafforzò l’adorazione dei tifosi olandesi nei suoi confronti.
Al «caro, vecchio Jack» – o Sjek, per dirla con la pronuncia olandese – avrebbero poi intitolato anche una tribuna del De Meer. Con lui nuovamente al comando, l’Ajax poté sognare di tornare alla vittoria di un campionato che ormai mancava dal 1939. Vittoria che, puntualmente, arrivò nella stagione 1946-47 grazie anche ai gol di un giovane attaccante su cui confluivano tutti gli schemi offensivi: Marinus Jacobus Hendricus Michels, detto Rinus.
Con i suoi 122 gol, tra il 1946 e il 1958, scrisse le fortune del club olandese. Ma la vera gloria, come vedremo più avanti, arriverà con lui in panchina. Nota a margine: in quella squadra, come ala sinistra, giocò anche Gerrit Draaijer, fratello della madre di Cruijff, che contribuì non poco a influenzare il nipote Johan con il virus del calcio.
Con le vittorie e l’entusiasmo ritrovato, «gli olandesi si convinsero (e convinsero il mondo) di essere stati una nazione di coraggiosi antirazzisti e membri della Resistenza». Ciò nonostante, a molti verrebbe naturale oggi alzare il sopracciglio davanti a questa affermazione.
Per esempio allo scrittore Harry Mulisch – uno dei principali scrittori olandesi – che, una volta, intervistato a proposito della sua rocambolesca disavventura durante l’occupazione tedesca, rispose ironicamente che a suo avviso la maggior parte degli olandesi si fosse unita alla resistenza «soltanto a guerra finita».