Nel corso della sua quasi bisecolare storia, il gioco del calcio ha vissuto notevoli mutamenti, dal puro gusto di prendere a calci un pallone in compagnia, al calcio business attuale, con commistioni anche scientifiche nella sua attuale esplicazione, si veda la preparazione atletica, la medicina o l’analisi tattica che si applicano oggi.
Non tutto è stato lineare, però, quasi ad imitare la storia del progresso umano: secoli, in questo, di quasi immobilismo fino all’esplosione di scoperte degli ultimi due, che hanno proiettato l’uomo in un futuro di cui ancora non si vede il limite ed il confine.
Nel calcio è avvenuta quasi la stessa cosa: per anni è esistito solo il confronto tra Sistema e Metodo, in cui la differenza la faceva il talento del singolo, poi è arrivato il Calcio Totale, l’esaltazione del gioco di squadra in cui sì, il talento era sempre necessario, ma mai più fine a sé stesso, sempre e solo al servizio del collettivo.
Una vera e propria rivoluzione culturale che, a partire dagli anni Settanta ha vissuto tre tappe fondamentali, finora: la prima, negli anni della contestazione studentesca e non solo, in Olanda, con l’introduzione del Calcio Totale, mentore Rinus Michels, esaltato in campo dall’Ajax guidato da Johan Cruijff, meno dalla nazionale, che pure arrivò due volte in finale ai mondiali, in Germania Ovest (1974) e Argentina (1978).
La seconda rivoluzione una ventina di anni dopo, con le idee di Arrigo Sacchi, il “Profeta di Fusignano”, evoluzione di quelle olandesi, incarnate dal Milan detto anche “dei Tulipani” per la presenza di campioni orange quali Ruud Gullit, Marco Van Basten, Frank Rijkaard.
Trascorre ancora circa un altro ventennio e arriviamo all’attualità, che ancora stiamo vivendo, con il calcio “metamorfico” di Josep Pep Guardiola, nato in Spagna nel Barcellona ma poi esportato in tutta l’Europa che conta, sempre con il marchio vincente del Rivoluzionario.
Fatta questa premessa, per arrivare al nocciolo della nostra storia, necessita farne un’altra.
Uno dei mestieri più difficili che esistono in Italia è quello di Commissario Tecnico della Nazionale azzurra: in un paese con sessanta milioni di abitanti, tutti poeti, santi, navigatori e, appunto, CT di calcio, sono enormi le pressioni su chi ha poi compiti e doveri di fare scelte e prendere decisioni, e si può capire quanto è invero difficile, tutto è vivisezionato e passato al microscopio, e inevitabilmente ci sono quelli pro e quelli contro determinate scelte.
L’ascesa di Arrigo Sacchi alla panchina azzurra era stata corroborata dai tanti successi conseguiti in campo internazionale con i rossoneri, ma anche da un logoramento di rapporti nell’ambiente milanista che il presidente Silvio Berlusconi aveva intuito, trovando opportuno dirottare il tecnico in azzurro, dove si era appena conclusa in modo mesto la parabola di Azeglio Vicini.
Naturalmente, l’avvento di Sacchi ebbe le proporzioni di un terremoto di massimo grado nell’ambiente azzurro, perché Arrigo non voleva essere un semplice selezionatore, ma essere allenatore anche lì.
Cosa improbabile, visti i tempi della Nazionale, costretta tra un impegno e l’altro dei club, e perciò iniziarono le prime frizioni, gli scontri ideologici.
Il primo obiettivo della sua Nazionale erano i mondiali che si sarebbero svolti nel 1994 negli Stati Uniti, per la prima volta fuori dall’asse Europa – Sud America.
Gli azzurri conquistarono abbastanza agevolmente il pass ma, in tutto quel periodo, comprese anche le amichevoli, che ci portò al mondiale, del gioco propugnato da Sacchi si videro solo sporadici sprazzi, molte speranze erano invece riposte proprio nel mondiale.
Qui l’Italia sarebbe effettivamente riuscita a raggiungere la finale, poi persa ai tiri di rigore contro il Brasile, ma non con le “modalità sacchiane”, bensì con quelle che sono sempre state le caratteristiche del nostro calcio: grandi capacità di sofferenza, attenzione maniacale nella fase difensiva, cinismo e velocità in contropiede, un campione come faro, il Divin Codino Roberto Baggio, emulo qui del Paolo Rossi del 1982 e del Totò Schillaci del 1990.
Il buon risultato in ogni caso conquistato nonostante la scarsa brillantezza del gioco prolungò la permanenza di Sacchi in azzurro, la tappa successiva erano i campionati Europei che si sarebbero svolti in Inghilterra due anni dopo, nel 1996.
Per questa competizione le speranze erano di vedere finalmente trasposte anche in azzurro le mirabilie calcistiche viste in rossonero forte, Sacchi, di ulteriori due anni di lavoro, ma le cose furono solo peggiori, in un certo senso anche più crudeli nelle modalità ma, ancor peggio, frutto di scelte di Arrigo Sacchi che si rivelarono totalmente errate, la prima tra tutte rinunciare a due campioni come Luca Vialli e, soprattutto, Roberto Baggio, che pure quest’ultimo lo aveva portato ad un passo dalla gloria.
Nonostante i tanti segnali negativi, l’esordio azzurro nella competizione fu ottimo, una vittoria contro la Russia ottenuta grazie ad una doppietta di Pierluigi Casiraghi, che si mostrava in ottima forma e pronto a diventare lui il faro in quella competizione.
Qui, però, il CT fece un altro errore: una delle leggi non scritte del calcio prevede che squadra che vince non si cambia, invece nel secondo match contro la Repubblica Ceca, squadra giovane e motivata, zeppa di futuri campioni (Karel Poborsky e Pavel Nedved su tutti), Sacchi cambiò metà squadra, lasciando fuori, tra gli altri, lo stesso Casiraghi.
Risultato: sconfitta netta, anche al di là del due a uno finale.
A quel punto la squadra era impaurita, anche in non buone condizioni fisiche, ma ancora padrona del suo destino: bastava vincere contro la Germania, già qualificata.
Invece gli azzurri, nonostante la remissività dei tedeschi, non andarono oltre il nulla di fatto, sbagliando anche un calcio di rigore con Gianfranco Zola: come già ai mondiali del 1966, le ombre della sera inglese si portavano via al primo turno le speranze azzurre, e con esse tramontava l’utopia di Sacchi.
Un’utopia nata dalle suggestioni del Milan, mutuate dal calcio olandese, ma più che nel gioco fu nell’atteggiamento mentale, aggressivo sempre e ovunque, e non attendista, la vera rivoluzione sacchiana.
Che si sarebbe fermata, appunto, al rossonero del Milan, scrivendo, invece un’”Incompiuta” per i colori azzurri.