RIVISTACONTRASTI.IT (Massimiliano Vino) – All’alba della stagione calcistica 1908, il football in Italia è uno sport ancora acerbo, anche se in grande crescita da un punto di vista tecnico e tattico. I problemi, però, si presentavano soprattutto nell’aspetto organizzativo, giacché la Federazione si fece protagonista di una scelta sciagurata, dovuta all’ambizione di vedere un maggior numero di calciatori italiani in campo: lo sdoppiamento del campionato. Questa scelta, che sbarrò la strada al naturale proseguimento di un torneo, la Coppa Spensley, in cui avevano già dato prova di sé i più antichi club italiani (Genoa, Milan, Juventus, Torino e U.S. Milanese tra tutti), spinse questi ultimi a disertare in massa la propria partecipazione dalla Prima Divisione, campionato gemello rispetto a quello federale e destinato a sole rose italiane.
Il pasticcio era fatto. Ma se dalla storia emerse un vincitore, questo fu sicuramente la prima e la più grande squadra di provincia del calcio italiano: la Pro Vercelli. Fu in barba alle proteste dei potenti club dei capoluoghi che i Vercellesi, guidati dal figlio di un ex agente segreto di Cavour, l’avvocato Bozino, si presero la scena, pareggiando il primo marzo del 1908 con la Juventus in casa e annichilendo con due reti i bianconeri nel match di ritorno. Inserita come vincitrice dello spareggio regionale piemontese in un girone con U.S. Milanese e Andrea Doria, la Pro espugnò entrambe, Genova prima e Milano poi, iscrivendo per la prima volta il proprio nome nell’albo d’oro del Campionato.
Il titolo della Pro Vercelli fu l’unico riconosciuto per il 1908 e rappresento l’ideale entrata in scena di un nuovo (ed effimero) modo di intendere il meraviglioso giuoco del football. Come disse Guido Ara, fuoriclasse della mediana dei Leoni bianchi:
«Il calcio non è uno sport per signorine».
In tale assunto erano accomunati i vecchi padroni del calcio italiano, lontani anni luce dalla nuova, dinamica, prepotente squadraccia della provincia piemontese. La Pro Vercelli era una squadra di contadini, devoti al lavoro. Erano uomini tutti d’un pezzo, diversi dai figli di papà del Genoa o dai liceali del D’Azeglio fondatori della Juventus. Nessuna di quelle “signorine” aveva mai dovuto vendere i sigari, donati come premio partita dal presidente della Pro Vercelli. I Leoni Bianchi erano una squadra stracciona e sporca, di quelle che oggi giocherebbero nei campi della Terza divisione, piuttosto che sui palcoscenici ingioiellati della Serie A o di qualunque altro campionato maggiore in Europa. La loro favola fu un misto di orgoglio e di cinismo provinciale senza precedenti.
Il talento, poi, era indiscutibile. Di ciò si ebbe un’altra dimostrazione nel 1909, quando la Pro Vercelli fu chiamata a confermarsi nel Campionato federale e giunse per la seconda volta consecutiva a disputare un quadrangolare conclusivo della Prima Divisione. Ancora una volta a battersi con i Leoni bianchi furono le leggendarie maglie a scacchi dell’U.S. Milanese nella partita finale. La Pro batté i milanesi sul proprio campo per 2-0, pareggiando per 2-2 a Milano. La squadra tutta italiana dell’avvocato Bozino si prese così il palcoscenico in entrambe le manifestazioni frutto della disastrata gestione federale.
Alla fine della stagione 1909 si optò ancora per un torneo doppio per il 1909-1910, con la Pro Vercelli chiamata a ripetere le fantastiche prestazioni mostrate in campo contro ogni pronostico dei due anni precedenti. A lottare per lo scettro di Campione d’Italia fu l’Inter, squadra nata appena un anno prima. L’italianissima Pro Vercelli avrebbe perciò sfidato un club che aveva fatto dell’utilizzo di calciatori stranieri il proprio manifesto ideologico e sportivo. I Leoni bianchi ebbero buon gioco del torneo di Prima Divisione, ma dovette contendere ancora all’Inter il titolo di campione del torneo Federale.
Fu in questa occasione che andò in scena uno degli episodi più eclatanti nella storia del calcio italiano, con la Pro Vercelli chiamata a disputare la finale del Campionato federale proprio con l’Inter ripetutamente date le continue diserzioni. Costretti infine a giocare, i Piemontesi mandarono in campo una squadra composta totalmente da bambini contro l’Inter in segno di protesta e con l’esplicita volontà di voler umiliare l’avversario. La carnevalesca esibizione fu una cinica, sfrontata vendetta ordita da Bozino contro l’Inter:
«Dileggiateli, burlatevi di essi… Voi non correte nessun pericolo: siete piccoli mentre essi sono grandi: essi non oseranno toccarvi… Forti dunque nella vostra piccolezza, provocateli… Noi vi… incoraggeremo, li insulteremo a nostra volta: e il tormento del loro animo sarà la più bella vendetta che abbia mai visto Vercelli.»
Occorre sottolineare che gli Interisti spiccarono in autocontrollo. La buffonata costò un risultato di 10-3 a favore dei nerazzurri, i quali furono celebrati per la propria irreprensibile serietà e calma dinanzi ai dileggi dei piccoli vercellesi. La trovata rimase però quasi unica nel suo genere. La Pro Vercelli, al bando di ogni regola, non aveva esitato a rinunciare al titolo pur di vendicarsi degli sportmen nerazzurri. La mancata squalifica da parte della debole Federazione fece inoltre sì che i bianchi di Vercelli rimediassero quasi immediatamente, mettendo in fila una serie clamorosa di trionfi nelle stagioni 1910-1911, 1911-1912 e 1912-1913. Dopo il terzo scudetto consecutivo della Pro Vercelli, il quinto in assoluto, i Leoni bianchierano la colonna portante della Nazionale italiana di calcio, nonché il club più forte e più temuto della penisola.
Tanto era il prestigio, anche a livello internazionale, che gli uomini di Bozino furono chiamati a prendere parte ad una tournee (cui prese parte anche il Torino, allenato da un certo Vittorio Pozzo), in Sudamerica. Come d’incanto, gli umili contadini della provincia piemontese furono trascinati nel vortice della vitae della mondanità latino-americana. Si diedero alla pazza gioia e rimediarono una sconfitta dietro l’altra. Oltretutto, nel 1914, la Pro Vercelli cedette clamorosamente lo scettro di regina d’Italia ad un’altra provinciale, il Casale. Fu l’apoteosi campanilistica di un calcio che sembra lontano anni luce. Gli uomini del Casale si erano infatti costituiti a squadra di calcio solamente per strappare il titolo agli odiati vercellesi! Ciò era ben chiaro dal colore nero delle loro casacche, a fare da contraltare al bianco vercellese.
La grande Pro Vercelli sembrava prossima a svanire. Lo scoppio della guerra sembrò accompagnare ancora di più i Leoni bianchi verso l’oblio, data la perdita di alcuni dei loro uomini migliori nelle trincee delle Alpi Orientali a combattere contro gli austro-ungarici. Invece la favola proseguì a causa delle isterie e della Federazione. La squadra fu in grado di rinnovarsi, lanciando anche un futuro asso della Juventus dei cinque scudetti consecutivi: Virginio Rosetta. Nel 1921 la Pro Vercelli si laureò così, nuovamente, campione d’Italia: al termine di un torneo bizantino suddiviso in 12 gironi di qualificazione la Pro sconfisse un coraggioso Pisa, laureatosi campione del torneo destinato alla parte centro-meridionale dello Stivale.
L’anno successivo una nuova scissione sancì il secondo ed ultimo trionfo deiLeoni Bianchi, 3-1 contro la Lazio, e il settimo titolo. Fu però il canto del cigno di un epoca, quella del calcio dilettantistico ai massimi livelli, destinata a scomparire. Se un sigaro poteva essere sufficiente a soddisfare gli appetiti dei fuoriclasse dei Leoni bianchi anteguerra, dopo la guerra il calcio si evolveva verso un professionismo puro. Il passaggio di Rosetta alla Juventus fu il sintomo di una sconfitta bruciante, peggiore di quelle inferte dalle squadre brasiliane, dal Casale o dall’Inter. Alla fine, era il calcio delle signorine a trionfare.
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