La storia dello Scudetto del Cagliari
Lo scudetto del Cagliari è il premio a una regione da sempre ai margini, che, forse, solo grazie al titolo dei rossoblù “fa il suo ingresso” nell’Italia socio-politica moderna. Antecedentemente la percezione della Sardegna dominante nel “continente” (peraltro, in Sardegna non mancano persone che con il predetto termine alludono anche e addirittura alla Sicilia) era di terra marginale, buona come luogo per le punizioni dei malfattori più pericolosi o più incalliti, o buona per trasferirci i più lavativi e i meno affidabili dal punto di vista lavorativo.
La strada per il titolo parte da lontano
Il titolo dei rossoblù, in realtà, parte da lontano. Nell’agosto del 1967 si incontrano Fabio Maria Crivelli, all’epoca direttore dell’”Unione Sarda”, e Manlio Scopigno, da poco malamente esonerato dal Cagliari. L’obiettivo comune era di issare il Cagliari ai vertici del campionato di “A”. Scopigno era ormai convinto che la stessa compagine con qualche novità nella rosa già collaudata (in sostanza, si sarebbe trattato, come si dice in questi casi, di piccole correzioni di tiro) potesse lottare per la parola ancora tabù o proibita: Scudetto.
I due interlocutori convenivano che per poter osare tanto due erano le condizioni minime necessarie: che Riva rimanesse in squadra e che lo stesso Scopigno ne ritornasse a essere il timoniere. Per quanto riguarda questo secondo assunto, il giornalista può promettere che il suo giornale, che a Cagliari ha sempre “contato” e influito molto, lo avrebbe aiutato a riprendersi quella panchina che in tanti ancora ritenevano di diritto sua (Scopigno, in fondo, considerava il suo licenziamento come una ferita ingiusta di cui doveva essere risarcito solo ridandogli il maltolto).
Circa la questione dell’eventuale cessione di Riva – a parte il desiderio degli altri giocatori del Cagliari a che Riva restasse, a parte l’attaccamento dei sardi nei confronti del medesimo, che ormai era diventato a prova di bomba e che induceva soprattutto i cagliaritani a inscenare autentiche manifestazioni di piazza a favore della permanenza dell’attaccante lombardo, a cui corrispondeva un reciproco atteggiamento di sentimento di fedeltà, di dedizione e di stima del giocatore, che ormai vedeva nell’Isola e nei sardi una nuova famiglia – il pericolo che questa si materializzasse, in effetti, era sempre sussistente, dato che il Cagliari non aveva tante dotazioni di denaro.
La resistenza alle offerte per Gigi Riva
Bisogna dire che il presidente Rocca sino a quel punto aveva “tenuto” e non aveva venduto il bomber. Rocca, in effetti, era stato tanto furbo. Aveva resistito a qualche ottima offerta, lasciando spazio di discussione solo per le offerte monstre: in pratica solo quelle della Juventus, consistenti in centinaia di milioni di lire, con l’aggiunta di diversi giocatori come contropartita tecnica. Si apriva una partita per Riva: da un lato, in sostanza, la Juventus, dall’altra la città di Cagliari tutta, la squadra del Cagliari in sé, la volontà di Arrica, che quasi pareva si divertisse a illudere che stesse per mollare il giocatore, la posizione del quotidiano di Cagliari l’”Unione Sarda”.
Ma questo, forse, non sarebbe bastato, se non ci fossero stati gli azionisti del Cagliari. Nel 1967 le società calcistiche diventavano S.p.a.. Il Cagliari era di proprietà di 5 gruppi industriali che corrispondevano ai nomi della Cartiera di Arbatax, della Petrolchimica Macchiareddu di Assemini, della Eugenio Beretta tessili di Villacidro, della Sir di Porto Torres e della Saras di Sarroch. In sostanza, avevano un grande peso Moratti e Rovelli. In altre parole, la Sir controllava il Cagliari Calcio: questo dato di fatto societario permetteva alla stessa Sir di poter accedere al Credito Industriale Sardo, che la finanziava, e di poter avere le porte aperte con la Regione Sardegna.
L’importanza che il Cagliari rimanesse una squadra forte
Con il Cagliari, la Sir costruiva il suo rapporto con la Regione Sardegna, che, a sua volta, aveva interesse per ragioni elettorali a che il Cagliari rimanesse una forte squadra e che anzi migliorasse le proprie prestazioni. Ergo, sia la Sir che la Regione Sardegna dovevano fare di tutto a che Riva non partisse. Così per Rocca, che precedentemente aveva mandato via Scopigno, arrivava il momento della giubilazione da presidente del Cagliari. Il 9 febbraio 1968, anche con la scusa che la squadra non solo non migliorava, ma neanche ripeteva gli ottimi risultati dell’anno precedente, Rocca veniva sostituito nella carica di presidente del Cagliari da parte di Efisio Corrias, ex presidente della Regione e democristiano di spicco in Sardegna.
E democristiano era il controllo del Credito Industriale Sardo. In sostanza, il Cagliari era il crocevia in cui si potevano intersecare e ingravidare a vicenda interessi politici ed economici di portata. A imprenditori e politici faceva comodo fare grande il Cagliari: per i primi era una vetrina che si apriva al mondo, pubblicizzando quella Sardegna nella quale si muovevano le loro aziende, per i secondi, sotto la forma dei tifosi che sempre più numerosi seguivano o simpatizzavano per i rossoblù e che lavoravano spesso nelle aziende di cui sopra, costituiva un bacino elettorale.
E siccome i politici tirati in ballo era democristiani, il tutto sarebbe servito per prolungare e accentuare l’ormai pluridecennale potere dello scudo crociato sull’Isola: alle elezioni regionali del 1969 la DC avrebbe avuto il 44,54% dei consensi (e i comunisti, che nelle elezioni del 1969 si dovevano accontentare del 19,74% dei consensi, in tutto questo si potevano consolare che con i petrolchimici della Saras e della Sir rispettivamente a Sarroch o a Porto Torres si sarebbe potuta creare una reale classe operaia – che, in fondo, in una società da secoli pastorale come la Sardegna non vi era mai stata – con cui cercare di infilare un cuneo negli interstizi del potere democristiano e in quelli del potere imprenditoriale).
Inoltre, questo intreccio tra politici e imprenditori poteva all’epoca servire ai primi anche per controllare i secondi (oggi, nel mondo globalizzato della finanza internazionale, è il mondo economico che manovra di fatto la politica). E se il Cagliari, indipendentemente dalla politica e dal mondo dell’industria e della finanza, non fosse stato negli anni passati capace di segnalarsi per meriti sportivi, politici e imprenditori neanche lo avrebbero considerato. In tutto questo contesto, ancora una volta brillano i meriti di Silvestri, che aveva edificato quella squadra.
Ma, a questo punto pervenuti, si può dire che lo scudetto del Cagliari è stato anche “unico” perché conseguito da una compagine che, come fenomeno sociale è riuscita a intrecciare e stimolare un mondo di poteri, che a quei tempi bene o male o male o bene (al netto naturalmente di tutti gli abusi, gli opportunismi, gli egoismi, i cinismi e i limiti in genere) cercava di modernizzare la Sardegna, per farla entrare davvero nel novecento.
L’unicità di quel Cagliari dello scudetto fu anche quello di fare da specchio, per un motivo o per un altro, dello sviluppo economico della Sardegna e da volano per quanto riguarda l’immagine della Sardegna, perché questa non sarebbe stata più considerata solo come terra di punizione. Quindi il Cagliari lo si doveva portare in cima: a Scopigno sarebbe toccata la parte tecnica; ai suoi sponsor economici sarebbe toccato creare il retroterra finanziario adatto, con la sapiente mano di Arrica, che avrebbe “equilibrato” tra istanze tecnico-calcistiche e questioni economiche.
Fondamentale che rimanesse Riva. Ma per questi Cagliari era l’unità di misura antropologica, la città dove era adorato e onorato, ma anche rispettato e non disturbato o soffocato nella propria individualità personale. Ancora altro: per Riva non era importante che a Cagliari avesse vinto uno o più scudetti; non sarebbe stato il ricordo di uno scudetto storico a trattenerlo; a Cagliari ci rimaneva perché lo avevano accolto come a casa, come un parente. Lì era considerato uno di loro e lui si considerava tale e considerava come fratelli i sardi. Riva certi sentimenti li ha espressi a un giornalista de “La Stampa” di Torino, Bruno Bernardi: “I miei gol li dedico sempre alla Sardegna.
Ho avuto e continuo ad avere una regione che mi segue, che gioisce con me se gioco bene e forse soffre se gioco male. È un discorso che va oltre il calcio. E io me ne sento profondamente partecipe. Non sono nato a Cagliari ma è come se lo fossi. Non è neppure un debito di riconoscenza: è un amore ricambiato. Sento l’amore dei sardi verso di me, lo sento quando sono in campo e quando calcio a rete. Mi aiuta, mi dà forza. A Cagliari non mi sono affezionato solo ai colori rossoblù della società: hanno un valore infinitamente minore dell’amore della gente umile.
È a questa specie di comunione fra me e la Sardegna, per nulla legata al calcio, che io do valore. Dopo aver conquistato lo scudetto potevo andarmene dalla Sardegna, ma avrei tradito i pastori che arrivavano allo stadio in sella a biciclette sgangherate e che mangiano fuori dalle mura di cinta pane e formaggio, le donne tre vestite di nero che mi portano fiori all’aeroporto quando sto per partire o che mi invitano a tenere a battesimo il loro nipotino. Sono il simbolo di una regione che mi ha eletto figlio elettivo.
Così sono rimasto e credo che saranno questi i sentimenti a tenermi legato alla Sardegna”. È la verità di Riva. È la verità vera. Così Riva teneva fede, confermava e ribadiva quel giuramento che aveva fatto quando, essendosi aperta nei suoi confronti un’autentica asta, con in particolare la Juve che ritornava sempre all’assalto per assicurarsi le sue prestazioni, e con offerte sempre più alte, dichiarava pubblicamente frasi di questo chiaro tenore: “Non lascerò Cagliari. Giocherò qui fino alla fine della mia carriera. Questa gara ad acquistarmi non mi interessa, l’ho già detto più volte. Non andrò via di qui per soddisfare quello che ormai mi sembra solo il capriccio di qualcuno”.
Quindi, di fronte a queste parole, a questi concetti, a queste emozioni, l’opportunità o l’opportunismo professionale sarebbero passati in secondo piano, come i soldi in più che avrebbe guadagnato altrove, anche trasferendosi solo per qualche anno, per poi, magari, ritornare in Sardegna, come facilmente avrebbe, d’altronde, potuto fare e come, con una certa dose di praticità lombarda gli consigliava Radice. Ma il vivere quotidiano era ed è il vivere di tutti i giorni, e la Sardegna era ed è nelle vene di Riva: andandosene, anche per poco, era ed è come svenarsi. E non si può vivere svenati, neanche un giorno. Nel 1969 Boninsegna finisce all’Inter in cambio di Poli, Domenghini e Gori e di alcune centinaia di milioni di lire. Il contratto ha anche una clausola: se il Cagliari volesse cedere Riva, l’Inter avrebbe diritto alla prelazione.
La notizia del clamoroso passaggio esplose come una bomba nella stampa sportiva italiana e a fine giugno 1969 I tifosi del Cagliari gridarono allo scandalo, credendo che fosse andato via un campione (quale Bonimba indiscutibilmente è stato) per tre giocatori non eccelsi. Anzi di più: Poli e Gori erano valutati alla stregua di “signori nessuno” e Domenghini era visto ormai addirittura come “vecchio”. N
iente di più erroneo e fuorviante. I tre, invece, sono stati calciatori di gran pregio (Domenghini anche campione d’Europa con la nazionale) e hanno costituito un gran colpo, forse la mossa decisiva per lo scudetto. Scopigno era soddisfatto; aveva le idee chiare al riguardo. Domenghini avrebbe dato fantasia e velocità all’azione, Poli poteva essere utilizzato in ogni parte del campo, Gori era la spalla ideale di Riva.
Il Cagliari dello scudetto, costruito indubbiamente intorno a Riva (e questo sarà il limite di quella squadra, perché – e lo si vedrà nella stagione successiva, quando lo stesso patisce il terribile incidente al Prater di Vienna – in caso di assenza forzata del bomber di Leggiuno il castello si affloscia su stesso), ha avuto un che di brasiliano e un po’ di quello che sarebbe stato il calcio totale olandese o di quella che sarebbe stata la nazionale di Bearzot che ha trionfato nei mondiali di Spagna del 1982.
I giocatori fondamentalmente dovevano saper fare tutto per poter essere in grado ricoprire più ruoli. Dietro agiva una difesa di ferro davanti ad Albertosi nel pieno della maturità; il libero doveva essere pronto anche a impostare l’azione; davanti sarebbe stato un tourbillon con l’ala destra che doveva correre e sfondare (Domenghini calzava a pennello, essendo egli un giocatore molto veloce e in grado di saltare l’avversario), con i centrocampisti che dovevano saper alimentare il gioco o con il tipico lancio lungo o con pochi fraseggi mirati che non dovevano essere ripetitivi e prevedibili, ma diversificati nelle loro dinamiche grazie a una buona capacità di movimenti atti a confondere; Gori, come si direbbe oggi falso nueve, doveva muoversi per creare spazi e fare da sponda.
E in un certo senso il Cagliari di quegli anni era, da un lato, Riva, a cui i suoi compagni riconoscevano un’eccezionalità non solo atletica e calcistica, ma, oserei dire, anche antropologica e morale (di determinazione, di coraggio, di spirito di sacrificio, di esempio, di disponibilità, di amicizia, di fraterna sensibilità e di difesa nei confronti del gruppo, ecc.) e, dall’altro il gruppo, il coro, nel contesto del quale tutti si sentivano pari agli altri, tutti avevano bisogno di tutti e nessuno si sarebbe tirato indietro per aiutare e difendere l’altro.
Questo, in definitiva, il segreto del Cagliari dello scudetto. E, da un punto di vista tecnico, la forza straripante di Riva, il singolo e insieme il primus inter pares (ma Riva non si è mai sentito il leader della squadra, precisando o rettificando, semmai, che se è diventato il numero uno della squadra lo deve anche ai suoi compagni, con cui ha costituito una reale famiglia) era integrata dalla solida garanzia di un portiere per certi versi innovativo nel suo mestiere (rispetto al “classico” Zoff, Albertosi ha incominciato a svolgere il suo ruolo come se giocasse in una squadra a zona, usando i piedi con più frequenza, tanto per dirne una).
Da un difensore e marcatore nato, Martiradonna, che non mancava di applicarsi in maniera feroce, un po’ come faceva Vogts nella Germania Ovest, dall’altrettanto estroso marcatore Niccolai, stopper di ferro, da un libero attento e sempre attivo come Tomasini da un mediano illuminante come Cera, da un talentuoso Brugnera, da un veloce e imprevedibile Domenghini, da un centrocampista instancabile come Nené, da un trequartista come Greatti, che sapeva unire forza e fantasia, da un uomo d’attacco polivalente come Gori.
Scopigno ha sempre straveduto per quest’ultimo, ritenendolo la spalla ideale di Riva. E questo benestare dell’allenatore rossoblù condusse il giocatore a Cagliari. Come altri, Gori sarà conquistato dalla Sardegna e dai sardi. Conquistato dalla Sardegna e si può capire il perché: da un punto di vista della natura la Sardegna è il paradiso; conquistato dai sardi perché il tifoso del Cagliari non era come il tifoso torinese della Juventus, che all’epoca si poteva comportare con freddezza ignorando i calciatori della squadra preferita, e non era neanche come il tifoso di certe realtà provinciali italiane, che avrebbero reso impossibile la vita dei propri beniamini per la troppa pressione.
Il tifoso del Cagliari era contenuto e dignitoso. E fra i giocatori del Cagliari, fra i suoi nuovi compagni avrebbe trovato dei fratelli. In Scopigno avrebbe trovato un professionista della psicologia, che dai propri giocatori traeva sempre il meglio. Come il meglio trasse dalla posizione tattica affidata a Gori, facendolo un centravanti arretrato, o un centrocampista avanzato, utile per le sponde. Nel ’69 viene ingaggiato anche Poli. Egli veniva scelto da Scopigno, che aveva conosciuto il giocatore quando entrambi erano nel Vicenza. L’allenatore sapeva di potersi fidare del giocatore, come uomo e come atleta. Solitamente, quando si pensa al Cagliari dello scudetto del ’70 i “non addetti ai lavoratori” raramente pensano a Poli. Si immagina Riva, Albertosi, Cera, Domenghini, e pochi alludono a Poli.
Però, questo giocatore in quella squadra poi risultata scudettata, almeno agli occhi di Scopigno, doveva avere grande importanza, una funzione quasi cardine: era il jolly, quello che poteva stare sia in difesa che in centrocampo, quello che poteva essere chiamato a marcare l’avversario, come doveva tenersi pronto a fare da libero e impostare il gioco. E in quel Cagliari si è subito integrato. In quella squadra, che era una seconda famiglia, in cui erano tutti amici, o perché qualcuno era accomunato a qualcun altro perché era stato considerato uno “scarto” calcistico, o, soprattutto, perché quasi tutti avevano avuto un’infanzia difficile, spesso scandita da povertà post seconda guerra mondiale, da difficoltà da famiglie numerose o dal fatto di essere orfani da piccoli, non poteva non essere accolto Poli.
Quel Cagliari è stato unico anche per questo. Forse non è esistita una squadra italiana con un livello così elevato di cameraderie, o di fratellanza da compagnia. Sarebbe rimasto in Sardegna e per i vincoli umani, sportivi ed extrasportivi lì coltivati e per quella particolare natura della Terra di Sardegna che fa suoi figli chi decide di legarsi a essa. Nel Cagliari dello scudetto Poli totalizza 14 presenze anche per causa di un infortunio. Detto questo, approssimandosi il principio di campionato 1969 – 70, una stagione che dovrà terminare qualche settimana prima del solito perché ci sono da giocare i mondiali messicani, ai nastri di partenza le solite squadre favorite di sempre sono ben agguerrite per succedere al titolo alla Fiorentina.
Intanto quest’ultima di diritto è da considerare tra le autorevoli papabili alla vittoria finale, in quanto ha mantenuto l’ossatura della squadra dell’anno appena trascorso, riconfermando in blocco gli undici giocatori freschi campioni d’Italia, a esclusione di Mancin, sostituito da Longoni. E i viola partiranno bene: le prime quattro giornate a punteggio pieno, prima della discussa sconfitta in casa contro il Cagliari.
Poi segue un campionato altalenante, chiuso con il quarto posto. La Juve si rafforza con il giovane Furino, destinato a luminosa carriera tra i bianconeri, con il valente stopper Morini, anche questi destinato a tante vittorie con la Vecchia Signora. Inoltre altri arrivi: Vieri, Leonardi, Gian Pietro Marchetti, Cuccureddu (per quest’ultimo vale discorso il discorso fatto per Furino e Morini, ovvero quello di vincere successivamente tanto con la squadra degli Agnelli). La Juve parte male; nelle prime 9 giornate racimola 2 vittorie, 3 pareggi e 4 sconfitte. Dopo, 8 vittorie di seguito. Sino alla venticinquesima giornata sarà la rivale del Cagliari più pericolosa. L’Inter presenta Boninsegna e Lido Vieri come nuovi rinforzi provenienti da altre squadre; dal proprio vivaio fa esordire Bellugi. Il Milan, che cede Hamrin al Napoli, Scala al Scala al Vicenza e Mora al Parma, acquista Nestor Combin dal Torino.
Arriverà quinto. La prima partita di campionato del Cagliari dello scudetto non è entusiasmante: un pari per 0 a 0 il 14 settembre 1969 in casa della Samp, senza particolari emozioni, con la squadra di casa allenata da un grande allenatore come Fulvio Bernardini, che dispone la squadra in modo da concedere poco. Vero è che nel Cagliari manca Greatti, il che costituisce una lacuna non da poco negli equilibri complessivi della squadra. Nella seconda giornata, il 21 settembre ’69, si registra una limpida vittoria sul Lanerossi Vicenza degli ex Pianta e Puricelli: un 2 a 1 inequivocabile con Domenghini e Riva mattatori.
Il 28 settembre ’69 nella terza giornata a Brescia contro la squadra dell’ex allenatore Silvestri è necessario e sufficiente un secondo tempo in crescendo per imporre un 2 a 0 firmato da Domenghini e Riva. Alla quarta giornata, il 5 ottobre ’69, il Cagliari in Sardegna fatica contro il fortino laziale: peraltro, manca pure Riva. Ma il Cagliari crea gioco e il poliedrico e molto tecnico Brugnera dopo un’ora di gioco sigla una rete importantissima nel contesto dell’annata. Il 12 ottobre 1969, quinta giornata di andata, i rossoblù giocano a Firenze.
L’anno precedente le due squadre si erano contese lo scudetto. Vi erano tanti strascichi polemici e gli ex Albertosi, Brugnera e Mancin avevano lasciato la Fiorentina più o meno “malamente”, quando non furono proprio cacciati. Gli ex rossoblù Rizzo e Longoni, ora a Firenze avevano lasciato Cagliari in maniera, tutto sommato, meno traumatica. La Fiorentina ha vinto le prime quattro partite del torneo ed è in testa, il Cagliari insegue a un punto. Partita intensa e nervosa. Un gol di Riva, con perentorio colpo di testa, viene giustamente annullato per fallo dello stesso su Superchi. La Fiorentina per un certo tratto di partita domina. Ma poi il Cagliari passa su rigore di Riva, concesso a seguito di contropiede.
Nené serve Zignoli e l’ex Rizzo lo atterra. Ma questi sostiene che Zignoli ha solo simulato. Poi la Fiorentina mette sotto assedio la porta sarda. Tra l’altro, Amarildo e Martiradonna vengono espulsi da Lo Bello per reciproche scorrettezze. A due minuti dalla cessazione dell’incontro Chiarugi per la Fiorentina approfitta di una mischia e segna. Lo Bello annulla per presunto fuorigioco. Lo stadio diventa una bolgia e arbitro e giocatori del Cagliari escono scortati dalla polizia. I sardi balzano in testa.
Questa volta non lascerà la vetta strada facendo, al contrario del precedente anno. La settimana, il 19 ottobre ’69 dopo il Cagliari ospita un’Inter ostica, che passa in vantaggio con Suarez. La fatica è tanta, ma Nené rimedia. A Napoli il successivo 26 ottobre Riva, un Riva strepitoso, puntualmente servito dai compagni, batte gli strascichi di una febbre e gli stessi partenopei, con Zoff che subisce 2 reti. La partita successiva a Cagliari il 9 novembre 1969 contro la Roma altalenante di Helenio Herrera, benché potesse disporre di elementi di prim’ordine, come Luciano Spinosi, Bet, Santarini, Cappellini, Peirò, Cordova o Capello, presenta difficoltà e insidie.
Ma il Cagliari ha anche un Nené in anno di grazia che con un gol fa la differenza. Successivamente, per due partite, il Cagliari non brilla eccessivamente. Dapprima, il 16 novembre 1969, contro una Juve lontana otto punti, il gol di Domenghini non basta per vincere una partita combattuta che la Juve interpreta correttamente e gioca con vigore. Pareggia Cuccureddu (giocatore sardo che il Cagliari anni prima non aveva preso più di tanto in considerazione) a un minuto dal termine.
Con i tifosi del Cagliari che si inviperiscono perché trafitti proprio dall’unico sardo presente in campo. Partita che rivela problemi è quella successiva a Verona il 30 novembre ‘69. Riva è assente, Domenghini si rende attore di un autogol e Greatti a 5 o 6 minuti dal termine sigla il pari. Il rientro di Riva per la partita casalinga contro il Bologna, il successivo 7 dicembre, è essenziale e decisivo. Il Cagliari magari non è al top. Ma è squadra solida e quadrata. Non subendo tanti gol, spesso gli basta il golletto per racimolare punti importanti. Riva sigla il gol vittoria. Dopo bisogna andare a giocare a Palermo. Il 14 dicembre 1969 il Cagliari incappa nella prima sconfitta della stagione.
La partita, in realtà, veniva giocata con sei giocatori sardi o influenzati o appena sfebbrati. Segna per il Palermo Troja, il Cagliari gioca obiettivamente male. Ma nella ripresa Riva segna dopo azione personale. Però l’arbitro annulla perché il guardalinee Cicconetti gli segnala il fuorigioco di Martiradonna, in realtà a terra, perché fattosi male in precedente azione. Scopigno corre verso il guardalinee per protestare e viene espulso. Ma a fine a partita avviene il vero “fattaccio”. Scopigno insulta brutalmente il guardalinee invitandolo a infilarsi per via rettale la bandierina (è un eufemismo) e ad andare a festeggiare insieme con i giocatori del Palermo.
E poi gli urla anche dell’altro, il tutto con contenuti poco edificanti. Il referto dell’arbitro è impietoso, ma veritiero, perché le parole sono state pronunciate da Scopigno coram populo e varie persone hanno udito. Pochi giorni prima di Natale Scopigno è squalificato per 5 mesi, pena poi ridotta a 4. La sconfitta a Palermo, ancorché evitabile, da un lato meritata per quanto fatto vedere (anzi, meglio, non vedere) dal Cagliari, dall’altra ingiusta perché il gol del possibile pareggio di Riva non era obiettivamente da annullare, tuttavia, non avrebbe inciso più di tanto sulla classifica, perché il Cagliari staziona, comunque, davanti con 18 punti, a fronte dei 15 di Inter, Vicenza e Fiorentina, dei 14 del Milan e dei 13 di Verona e Juve.
E Scopigno non fa drammi. In panchina ci andrà il vice Ugo Conti e Scopigno assisterà alle partite dalla tribuna e potrà dire che nella stessa si sta meglio perché fa più caldo che in panca. A proposito di Ugo Conti, egli era del 1916 ed è morto nel 1983. Da giocatore era stato un buon attaccante e in “A” aveva giocato in squadre come Fiorentina, Genoa o Juventus. Da allenatore, a parte squadre “minori” come Gubbio o Viareggio, avrebbe allenato compagini come Livorno o Crotone e dal 1969 al 1972 avrebbe fatto da vice a Scopigno a Cagliari, come lo avrebbe fatto a Fabbri quando questi prese il posto del primo nella panchina sarda.
E grazie a due lunghe squalifiche dei due allenatori citati, Ugo Conti a Cagliari ha potuto trascorrere periodi importanti “da primo”, senza sfigurare. Riprendendo il campionato, dopo la sconfitta a Palermo, la partita nel campo del Bari il 21 dicembre potrebbe rivelarsi pericolosa. Un’altra sconfitta potrebbe creare seri problemi quanto meno a livello mentale.
E Scopigno, fine psicologo, dice ai suoi di fare attenzione: se non si perde a Bari, sarà scudetto. La parola tabù viene pronunciata. Comunque, i giocatori del Cagliari prendono sul serio (come hanno fatto sempre) il loro allenatore e fanno una gara attenta di contenimento, con Riva (giocatore per molti versi universale e, in un certo senso, antesignano di quegli olandesi che alcuni anni dopo sarebbero stati capaci di ricoprire ogni ruolo) che non manca di scendere in difesa per dare il suo contributo. Lo 0 a 0 viene assicurato; ma non bisogna negare che la stampa sportiva rimane perplessa di fronte all’atteggiamento del Cagliari, valutato come rinunciatario.
GLIEROIDELCALCIO.COM (Francesco Zagami)