L’allenatore in Italia, storia di un mestiere
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L’allenatore in Italia, storia di un mestiere

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Allenatori in Italia

Questo articolo, ed i successivi, hanno come riferimento il volume Gli allenatori di calcio in Italia: una storia socioculturale.

L’allenatore è una figura cruciale nel gioco del calcio e nella sua storia. Sono gli allenatori ad allestire le squadre che Hanno dato vita a cicli capaci di segnare le epoche del calcio, così come sono gli allenatori i protagonisti delle innovazioni tattiche.

A qualsiasi appassionato del calcio dei nostri giorni parrebbe impossibile che due squadre si possano presentare su un campo di gioco senza avere un tecnico che le guidi.

Quando il calcio in Italia iniziava a strutturarsi, seppur in modo pionieristico, con la creazione della Federazione e l’organizzazione dei primi campionati nazionali, nessuna di queste squadre aveva un allenatore.

Le formazioni delle squadre erano decise dai consigli direttivi delle società o, nelle versioni più evolute, da un consigliere incaricato, spesso quello che aveva più tempo a disposizione. Con l’aumentare dell’esperienza dei giocatori emerse la figura del capitano che, oltre a guidare la squadra, cominciò a occuparsi anche delle scelte di formazione, anticipando il futuro ruolo di giocatore-allenatore. Le squadre erano composte da calciatori “stabili”: venivano sostituiti solo per scelte personali di vita o per raggiunti limiti d’età. Quando venivano inseriti giovani calciatori, erano i più esperti ad aiutarli. Capitani come Virgilio Fossati dell’Internazionale e Giuseppe Milano della Pro Vercelli, uomini simbolo delle loro squadre, trasmettevano le loro conoscenze, il “mestiere” sul campo.

Le sedute di allenamento, intese come attività strutturata, non esistevano. La preparazione fisica si limitava a esercizi ginnici generici svolti saltuariamente, mentre con il pallone, banalmente, si giocava…

La Nazionale, nata nel 1910, era affidata a commissioni tecniche composte da arbitri, gli unici con una visione trasversale dei giocatori delle diverse squadre. L’unica eccezione nel panorama italiano era rappresentata da Vittorio Pozzo, grande figura di studioso del calcio con collegamenti internazionali che aveva assunto la guida tecnico-organizzativa del Torino.

Pozzo condusse l’Italia alle Olimpiadi del 1912 e dopo il torneo olimpico evidenziò la carenza tecnica del calcio italiano, sostenendo la necessità di una crescita qualitativa dei giocatori.

La svolta arrivò nello stesso 1912 con l’ingaggio di William Garbutt da parte del Genoa. Ex calciatore inglese, Garbutt introdusse una metodologia di allenamento che segnò una rivoluzione epocale nel calcio italiano. Lui, semplicemente, riportava le pratiche apprese nella sua carriera di calciatore. Anche le coordinate del suo lavoro erano semplici: migliorare la forma fisica e la tecnica individuale dei giocatori con esercizi specifici. Introdusse anche l’uso della doccia calda dopo gli allenamenti. Un approccio che, insieme alla presenza di giocatori britannici, conferì al Genoa una superiorità atletica e tattica, portando il club al successo e dimostrando l’importanza di avere un allenatore professionista. Il termine “mister”, con cui ancora oggi si chiama l’allenatore in Italia, fu introdotto proprio con Garbutt, a testimonianza del suo impatto sul calcio italiano.

Contemporaneamente a Garbutt giunsero in Italia altri tecnici britannici, come John Robert Roberts al Modena e George Arthur Smith all’Alessandria, portatori dello stesso metodo:  il calcio ad alti livelli non poteva essere un’attività occasionale, ma un lavoro a tempo pieno e retribuito.

Gli allenatori stranieri furono i primi professionisti del football nostrano.

La guerra fermò questa prima migrazione del pallone. Quando, dopo il massacro bellico e il conseguente disastro economico, l’attività calcistica riprese i protagonisti della nuova migrazione tecnica furono, a causa della dissoluzione degli Imperi centrali, tecnici e calciatori provenienti dalle regioni danubiane. Il loro arrivo, negli anni Venti, segnò un’evoluzione significativa del calcio italiano.

Le scuole di Vienna, Budapest e Praga, con le loro diverse peculiarità tecniche e tattiche, qualificarono e arricchirono il nostro football. La possibilità di schierare due giocatori stranieri per squadra, promossa dalla FIGC, favorì questa crescita. Il “gioco danubiano”, nelle sue varianti, si basava su un’elegante conduzione del pallone e un’attenta costruzione del gioco. I numerosi allenatori danubiani introdussero un’etica professionale fondata sull’obbedienza all’allenatore e sul rigoroso rispetto del piano tattico. La scuola danubiana, presa a modello in tutta Europa, non lasciava nulla al caso, muovendo i giocatori in campo con la precisione di un maestro di scacchi.

L’ingaggio di allenatori stranieri proseguì negli anni successivi, anche dopo l’introduzione del blocco dei giocatori stranieri e la compiuta fascistizzazione del calcio italiano. La loro presenza divenne sempre più marcata: all’inizio del primo campionato di Serie A nel 1929-30, gli allenatori italiani erano in netta minoranza rispetto ai colleghi ungheresi, austriaci e britannici. La dipendenza dai tecnici stranieri continuò per tutti gli anni Trenta, con una forte presenza ungherese anche in Serie B e C. Nel 1932-33 la situazione degli allenatori non era cambiata in serie A: 5 italiani, 8 ungheresi, quattro austriaci e un solo inglese.

La superiorità degli allenatori mitteleuropei risiedeva nella loro capacità di insegnare sia la tecnica che la tattica, favorita dalla condivisione di una base culturale con gli italiani, assente nei tecnici britannici. Nel 1930 era stato pubblicato il primo vero manuale, Il giuoco del calcio, scritto da Arpad Weisz, insieme al dirigente nerazzurro Aldo Molinari. Era un testo fondamentale per tutti gli ex giocatori che intendevano intraprendere la carriera di allenatore.

Nel 1933, la FIGC, guidata fin dal 1926 dal gerarca fascista Arpinati, istituì un corso nazionale per allenatori con l’obiettivo di formare tecnici italiani di alto livello e ridurre la dipendenza dagli stranieri. Si trattava di un progetto ambizioso, ispirato ad un modello parauniversitario, con un corso residenziale di quattro mesi, poi ridotto a tre, per completare l’indipendenza nazionale del calcio italiano. Il corso alternava lezioni teoriche, non solo di  tecnica calcistica, ma anche di pedagogia, medicina dello sport, educazione fisica, cultura generale, nozioni di lingua francese e tedesca e pratiche (calcio, ginnastica, atletica).

La destituzione di Arpinati da tutti gli incarichi politici (era sottosegretario al Ministero degli Interni) e sportivi (presidente del CONI e della FIGC), avvenuta all’inizio di maggio del 1933, segnò la fine di questo importante esperimento. Il corso fu concluso anticipatamente a fine giugno e il progetto di creare una scuola italiana di formazione degli allenatori fu accantonato. Era la conseguenza di una delle tante lotte di supremazia interne al fascismo, ingaggiate dai gerarchi anche utilizzando lo sport, il calcio in particolare, come strumento di potenza.

I nostri allenatori continuarono, quindi, ad essere degli autodidatti. Avevano l’esperienza tipica del giocatore, con le nozioni impartite da altri allenatori più anziani, e non uscivano dall’empirismo.

Ci vollero tre anni perché la federazione tornasse a parlare di allenatori. Il 7 ottobre 1936 il Direttorio Federale decise l’istituzione del CAF (Comitato Allenatori Federali) con l’obiettivo di regolamentare e disciplinare la figura dell’allenatore. Venne disposta anche l’assunzione di una decina di allenatori destinati a operare in diverse zone territoriali, con l’obiettivo di migliorare il panorama calcistico italiano, rivolto alle società minori e alla selezione di giovani talenti.  Venne anche emanato il primo regolamento federale organico che disciplinava la figura dell’allenatore.

L’esperienza del CAF fu molto breve, segnata dal difficile rapporto con le società che continuavano ad ingaggiare soggetti non qualificati e dalla mancanza di supporto da parte della federazione. Il CAF fu soppresso nel luglio 1938.

La dipendenza dai tecnici stranieri non era finita. All’inizio dei campionati 1938-39, nonostante i venti di guerra e le leggi razziali applicate immediatamente nel calcio, in serie A c’erano 9 allenatori stranieri e 7 italiani, mentre in serie B era stato raggiunto il pareggio nove e nove.  Solo la seconda guerra mondiale portò alla prevalenza di tecnici nostrani (10 a 6 all’inizio di tutti e tre i campionati effettuati dal 1940 al 1943).

Due mesi esatti prima dell’ingresso dell’Italia in guerra, il 10 aprile 1940 il Direttorio decise la costituzione, a Firenze, del Centro di Preparazione Tecnica (per dirigenti allenatori e giocatori), diretto da Luigi Ridolfi, futuro presidente della FIGC. Il Centro, nelle difficoltà del momento, riuscì a imprimere passaggi importanti:

– definì il ruolo degli allenatori, pubblicando l’elenco degli abilitati (dalla FIGC) a svolgere funzioni di allenatore o aspiranti allenatori;

– organizzò raduni collegiali per giovani calciatori,

– emanò il Regolamento generale per gli allenatori (1942), macchiato indelebilmente dala clausola discriminatoria che vietava l’accesso alla professione ai non ariani.

– organizzò corsi per allenatori e massaggiatori. Questi, paradossalmente, si svolsero solo nell’estate del 1943, poco prima del crollo del regime: dal 28 al 30 giugno quello per massaggiatori e dal 3 al 10 luglio quello per allenatori.

 

POTRESTI ESSERE INTERESSATO A LEGGERE QUESTI LIBRI D’EPOCA SULL’ARGOMENTO NELLA NOSTRA EMEROTECA

L’allenatore di calcio, di Enzo Sasso – Edizione Mediterranee Roma, 1963

“La Roma di Don Oronzo” – di Enzo Sasso, Edizioni Mediterranee Roma 1967

GLIEROIDELCALCIO.COM (Massimo Cervelli)

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Vive a Firenze, dove è nato nel 1955 e si è laureato in Lettere Moderne, presso l’Università degli Studi di Firenze. Cultore della storia del football e della sua divulgazione in spazi pubblici, è membro della Società Italiana di Storia dello Sport e vicepresidente del Museo Fiorentina, di cui coordina la commissione storia. È autore di diverse pubblicazioni, tra cui Profondo viola (Odradek, 2002) e La Toscana nella costruzione dello Stato nazionale, insieme a Claudia De Venuto (Olschki, 2013).

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