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Le note stonate di Italia ’90 a parte la mancata vittoria

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Le note stonate di Italia ’90 a parte la mancata vittoria

Le Notti Magiche dell’Estate Italiana di bennatiana e nanniniana memoria occultano tutto il marcio che c’è intorno al mondiale nostrano. Un marcio di dimensioni colossali in un’Italia malmessa e carente in fatto di moralità e di senso della legalità, che si perde in contesti in cui il dio denaro si presenta in tutta la sua straordinaria dimensione reificata, facendo gola e stimolando ogni appetito, di qualsivoglia provenienza. A fronte della realtà di cui si sta per dire, appare quasi come “normalità” che la camorra a Napoli e la mafia a Palermo alzino la voce e allarghino i loro tentacoli.

Del resto, che la malavita organizzata fondi i suoi introiti sulla base di attività illecite è in re ipsa, l’illegalità è la sua anima, fa parte indefettibilmente della sua natura. Sull’altro fronte, invece, i canali della legalità sono quelli propinati all’opinione pubblica, ma nascondono in realtà immoralità e disonestà. È apparenza che inganna, ovvero che cerca di fuorviare, riuscendovi magari per qualche anno. Fino a quando lo si vuole, poi esce tutto allo scoperto.

In fin dei conti, il marcio relativo a Italia ’90 così come quello relativo a tanti altri scandali italiani fa il paio con quello della mafia e delle altre organizzazioni malavitose, la matrice è la medesima. In questo senso, esse si appalesano come se fossero sfaccettature che si ingravidano a vicenda, alimentando un male di fondo che si origina nello scarso senso civico che, purtroppo, contraddistingue il Belpaese da secoli, quello da cui promana anche lo stesso fenomeno mafioso in genere.

Sul punto si potrebbe citare lo scienziato e storico Mario Silvestri quando afferma che “D’altronde oggi, nel mondo moderno, in particolare nella nostra Italia, noi vediamo che i Verre si contano a decine di migliaia, mentre non ve n’è uno solo che abbia pagato come lui. Una società relativamente opulenta come fu quella romana dei primi secoli dell’impero – per il progresso tecnologico e scientifico, che comunque vi giocò un ruolo secondario, e soprattutto per l’arricchimento portato dalle vittorie e dalle spoglie strappate al nemico – è una società condannata all’autodistruzione se non è sorretta da saldi principi morali che trovano il loro ancoraggio solo in una fede religiosa…

Io non posso definirmi certo un uomo di religione, tuttavia non trovo un sostituto alla fede che, sola, mantiene i popoli saldi su principi etici. Sono tali principi gli unici capaci di trasformare in valori assoluti le virtù fondamentali per governare e essere governati: l’onestà e la giustizia. Se, anziché assoluti, si trasformano in riscontri relativi, essi consentono l’esistenza della “quasi onestà” e della “quasi giustizia”.

Il “quasi” è la differenza tra una società etica e una società potenzialmente corrotta, che a un certo punto “gripperà”, come ha “grippato” la società comunista che alla corruzione univa la fondamentale insensatezza della dottrina di governo”. Ebbene, lo scenario prospettato dallo studioso appare adattabile alla situazione italiana di fine anni ’80 del secolo scorso, come pure a quella attuale. E a questo quadro già di per sé desolante, oggi come 35 anni or sono, si vanno poi a sommare lo scadimento nelle volgarità, la mancanza di rispetto nei confronti delle persone, la tendenza agli insulti e agli istinti latamente razzisti.

Di questi ultimi si registreranno vari sconvenienti episodi che avranno come bersaglio soprattutto Napoli, i suoi cittadini e la squadra di calcio che la rappresenta nonché, proprio nel corso di Italia ’90, l’Argentina, associata con una sorta di effetto traslativo al capoluogo partenopeo per il tramite del suo uomo simbolo, Diego Armando Maradona (si ricorderanno, a tal proposito, gli irrispettosi fischi riservati all’inno argentino in tutti gli stadi italiani, fatta eccezione del San Paolo).

Quindi la sconfitta incassata sul campo nella semifinale giocata proprio contro l’Argentina campione in carica di capitan Maradona, peraltro per uno strano scherzo del destino nel catino di Fuorigrotta, rappresenta assolutamente il nulla rispetto a quanto verificatosi in ambito extracalcistico. Il Mondiale, basti osservare gli atti delle commissioni d’inchiesta e gli esiti delle vicende giudiziarie successivamente scaturite, si rivelerà un’autentica voragine sul piano dei costi, un’idrovora che ha esteso fino a decenni successivi i suoi effetti, con appalti dai costi lievitati con percentuali a tre cifre.

E alla fine il conto, presunto, perché non è detto che poi non sia sfuggito qualcosa, è stato di almeno di 7.230 miliardi delle vecchie lire (più di 6.000 provenienti dalle casse statali), in euro 3,74 miliardi, senza tener conto della circostanza che altre interpretazioni di quelle spese abbiano portato poi la cifra complessiva oltre i quattro miliardi.

Anche restando al conto più basso – quello dei 3,74 miliardi – sia pur senza rivalutarli, siamo di gran lunga molto oltre le cifre che sarebbero state spese nelle edizioni disputate in Sudafrica nel 2010 e a ridosso di quelle stanziate in Germania nel 2006 e in Corea-Giappone nel 2002. Con la rivalutazione Istat si arriverebbe a quasi 7 miliardi e mezzo, una cifra che si può ricavare anche più empiricamente considerando che allora un biglietto del bus costava 900 lire (46 centesimi), un quotidiano 1.200 (62 centesimi), un caffè 700 (36 centesimi).

Indubbiamente uno sproposito, considerando anche che gli americani, quattro anni dopo, avrebbero tirato fuori l’equivalente di 80 miliardi di lire, poco più di 40 milioni di euro, grazie allo sfruttamento di impianti e infrastrutture già esistenti. Per non parlare dei costi altissimi in termini di vite umane, con 24 vittime italiane nei vari cantieri installati lungo la penisola, a riprova di un vero e proprio disastro anche in tema di sicurezza sul lavoro.

Niente al confronto delle centinaia di vittime che si sarebbero conteggiate per gli impianti dei Mondiali 2022 in Qatar, con l’evidente differenza, tuttavia, che lì si registrano condizioni lavorative di semi-schiavitù (su cui vergognosamente non si parla). No, nella “civilissima” Italia, si son dovute contare 12 vittime nei cantieri degli stadi e altre 12 in lavori esterni.

In totale 678 gli infortuni sul lavoro, un’enormità. L’incidente più grave quello verificatosi allo stadio palermitano della Favorita (attuale Barbera), con cinque operai schiacciati dal crollo di una tettoia e oggi ricordati con una targa. Seminascosta. Appalti d’oro. E non bisogna certo sottacere lo spaventoso livello di crescita delle spese previste.

Lo stadio Delle Alpi a Torino – nel frattempo demolito per far posto al più moderno Juventus Stadium – ha presentato un rialzo di spesa del 214 per cento. L’incremento medio, secondo una relazione presentata in Parlamento dall’allora ministro delle Aree urbane, Carmelo Conte, è risultata dell’84 per cento. Non c’è stato luogo dove i conti non sballassero: l’Olimpico di Roma ha visto lievitare i costi del 181 per cento, a Bologna si “sono fermati” al 91, a Verona all’81.

L’impianto più costoso, alla fine, è stato quello della Capitale con 235 miliardi di lire (121 milioni di euro), anche perché – nonostante ci fosse tutto il tempo per appalti regolari – l’86 per cento dei lavori è stato affidato a mezzo di trattative private, ragion per cui quasi nove appalti su dieci di fatto sono risultati senza alcun controllo.

E pensare che i propositi, almeno sulla carta, sembravano essere ben altri. Emblematiche in tal senso le parole ricche di entusiasmo pronunciate dal presidente del Comitato Organizzatore Locale, Franco Carraro: «Il Mondiale sarà l’occasione più opportuna per dimostrare non solo le nostre capacità organizzative ma anche l’alto livello tecnologico raggiunto in tutti i settori della vita nazionale». Aspettative purtroppo disattese nei fatti.

Come detto, alla direzione del Comitato Organizzativo Locale era stato nominato Luca Cordero di Montezemolo, reduce dall’epoca d’oro alla Ferrari con Niki Lauda e del Consorzio velistico di Azzurra. Il suo slogan era stato “Realizzare un sogno” ma il sogno lo hanno realizzato – oltre ai tedeschi che si sono aggiudicati la competizione sportiva sul campo – tutti quelli che sono riusciti a lucrare sugli appalti d’oro non solo relativi agli stadi ma anche su opere pubbliche di più che dubbia utilità, molto spesso lasciate incompiute e abbandonate a loro stesse.

Alla radice delle spese dirette alle più disparate costruzioni e ristrutturazioni non vi è traccia di qualsivoglia straccio di disegno edilizio generale. Negli anni successivi i risultati di questi ingenti investimenti si sono poi rivelati inefficienti e sprecati. Alcune strutture sono diventate delle vere e proprie cattedrali nel deserto, altre dei meri esperimenti estetici che non hanno risposto ad alcuna reale esigenza, altre ancora sono state semplicemente abbandonate a se stesse nella più completa incuria. I soldi mondiali finanziano la strada statale di Ischia, la circonvallazione di Aosta, la tangenziale di Catania, lo stadio di Padova, tutte città che non debbono ospitare nessuna partita.

Per eliminare qualsiasi tipo di vincolo e controllo, il governo adotta un decreto con le procedure d’urgenza, quelle normativamente destinate a essere impiegate solo per le calamità naturali. Durante la realizzazione delle opere l’iter procedurale di assegnazione degli appalti si è palesato estremamente denso di zone d’ombra da non riuscire facilmente a capire quale fosse la reale situazione. In contrasto con le direttive CEE, infatti, gli appalti sono stati aggiudicati a mezzo della trattativa privata, anche se il valore supera il miliardo e mezzo.

Per portare a termine questo progetto, un totale di circa 48 miliardi di lire vennero stanziati con la legge n°65 del 1987 per le strutture di Bari, Torino, Bologna, Cagliari, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Udine e Roma. Impressionante la lievitazione dei costi, cresciuti vertiginosamente e fissati sulla base di trattative e appalti ancora oggi avvolti nel mistero. Tutto ciò nonostante vi fossero le tempistiche per organizzare in maniera cristallina tutte le gare d’appalto1.

Dalla stazione Ostiense in poi. Simbolo del disastro, quello che era stato presentato come l’Air Terminal di Ostiense, abbandonato poco dopo la fine dei Mondiali (costo 350 miliardi lire, 180 milioni di euro) e recuperato dalla fatiscenza nel 2012 da Oscar Farinetti per la catena di grandi negozi di cibi di qualità “Eataly” e, poco dopo, anche come stazione di partenza dei treni veloci del Consorzio Italo, del quale – ironia della sorte – lo stesso Montezemolo è stato presidente.

Ma non è stato certo soltanto questo l’unico pataccone tirato su a spese del contribuente: solo a Roma i tanti monumenti allo sperpero sono più che uno schiaffo al buon senso. Nella Capitale c’è una stazione che si chiama Farneto, in zona Farnesina, costata 15 miliardi di lire (oltre 7 milioni e mezzo di euro) e aperta solo per una ventina di giorni, il tempo di far fermare appena 12 treni, per poi diventare deserta ed essere abbandonata fino al 2008, quando è stata occupata dall’associazione Casapound.

A Milano l’emblema del disastro è il maxi-albergo Ponte Lambro: doveva essere una specie di “gioiello” legato al Mondiale e alla fine con il suo scheletro incompiuto è diventato un autentico ecomostro, abbattuto solo nel 2012 dopo tante peripezie politico-amministrative. Nella polvere sono finiti anche le decine di miliardi di lire spesi per tentare di completarlo; invano, perché almeno qui il fiume di denaro a un certo punto si è esaurito.

L’elenco degli sperperi è purtroppo lungo e, per di più, forse non tutto è stato censito. Oltre alla stazione di Farneto, a Roma ce n’è un’altra che ha subito lo stesso destino, quella di Vigna Clara, con un’aggravante: divenne inservibile perché i tecnici avevano errato nel calcolo delle misure di una galleria, al punto che due treni viaggianti contemporaneamente in direzioni opposte non sarebbero riusciti a passare.

Altro esempio la linea tranviaria rapida a Napoli così come quello di uno svincolo della sua Tangenziale, costata dieci miliardi e mezzo di lire a fronte dei 7,5 preventivati. Addirittura 54 miliardi fu invece il costo per i parcheggi a Bisceglie e a San Carlo. Paradossale, invece, è stato il caso dell’aeroporto di Bari, costato “solo” 6 miliardi ma destinato a non garantire la propria utilità, con la squadra del Camerun, inizialmente destinata ad atterrare nel capoluogo pugliese ma dirottata su un altro scalo, per la mancata ultimazione dei servizi antincendio e delle attrezzature radar, per non parlare della carenza di scalette per far scendere i passeggeri.

E poi ancora tantissime altre infrastrutture e maxi-parcheggi, alcuni inaugurati mesi e mesi dopo i Mondiali, altri neppure mai collaudati. Emblematico in tal senso il caso di quello sotterraneo del vecchio San Paolo di Napoli, destinato a ospitare 180 posti auto, ma invece mai utilizzato e nel tempo vandalizzato, abbandonato a un totale degrado e teatro addirittura di messe sataniche. Il perché di tutto ciò? Il parcheggio, compreso come patrimonio all’interno dello stadio San Paolo, ora intitolato al compianto Maradona, risulterebbe non essere mai stato aperto in quanto non a norma, dal momento che il soffitto della struttura sarebbe troppo basso.

Ultimati i lavori, peraltro con notevole ritardo rispetto ai tempi stabiliti, infatti, è successivamente subentrato il Decreto Legislativo n. 626 del 19 settembre 1994, introdotto per regolamentare la sicurezza sui luoghi di lavoro, che ha fissato l’altezza a 2,4 metri con la possibilità di portarla fino a 2 metri. Ebbene, il parcheggio in questione risulta essere più basso.

Pur trattandosi di disposizione normativa entrata in vigore in un momento successivo alla realizzazione dell’opera, non si è potuti andare in deroga alla stessa in quanto nel caso di specie ci si trova al cospetto di una struttura a uso pubblico e non privata. L’unica possibilità sarebbe stata quella di procedere a dei lavori di adeguamento, cosa che nell’imminenza della loro realizzazione non è stata fatta anche a causa della situazione di dissesto economico del Comune di Napoli, dichiarato dall’allora sindaco Francesco Tagliamonte, nel 1993.

A distanza di oltre 30 anni, l’amministrazione comunale partenopea starebbe finalmente pensando di poter recuperare quei 180 posti auto, ma per farlo sarebbero necessari dei lavori di adeguamento strutturale, nonché interventi sull’impiantistica, come il sistema anti-incendio, visto che nel frattempo la normativa in materia è cambiata. Più in generale, a livello nazionale, a soli tre mesi dal via, solo 95 dei 233 progetti finanziati erano stati completati.

Una disfatta. E come sottacere la progettazione e costruzione di stadi sovradimensionati, palesemente poco adatti al calcio e ricchi di controindicazioni anche in termini urbanistici. Del Delle Alpi di Torino si è già fatto breve cenno, con una storia iniziata in prossimità del 1990 e finita già con la chiusura nel 2006 e la successiva demolizione oltre due anni dopo.

Principale problema di quello “stadio che fu” era la scarsa visibilità, dovuta a un’eccessiva distanza tra gli spalti e il terreno di gioco, oltre a un impianto d’irrigazione divenuto ben presto origine di diversi problemi al manto erboso, danneggiato in diverse occasioni. E ancora il San Nicola di Bari, battezzato “l’astronave”, per via della caratteristica forma, dal suo famosissimo realizzatore Renzo Piano, precursore nell’Italia sportiva dell’estetica futurista e innovativa, destinato a finire sbriciolato dal degrado a causa della copertura in teflon cadente letteralmente a pezzi, sebbene attualmente al centro di importanti progetti di restyling in itinere.

Per non parlare dell’ormai ex San Paolo in quel di Napoli, come detto oggi intitolato al suo nuovo Santo – Diego Armando Maradona, che ha visto quasi subito decretata la inutilizzabilità del terzo anello in virtù dei notevoli problemi di staticità provocati alle abitazioni poste nelle sue vicinanze e dovute alla propagazione delle onde sismiche causate dalla fatiscente struttura in ferro installata all’interno di un impianto divenuto con il passar del tempo sempre più vetusto, la cui parziale opera di ammodernamento è stata poi per fortuna favorita dallo sfruttamento dei fondi stanziati in occasione della XXX Universiade disputata nel luglio del 2019 nel capoluogo partenopeo.

A Udine, il Friuli è stato recentemente ricostruito in considerazione di esigenze e dimensioni diverse, mentre il Sant’Elia di Cagliari è stato ridotto a poco più di un rudere per poi essere sottoposto a ingenti lavori di ristrutturazione. Quasi tutti questi impianti erano stati completati – alcuni sul serio, altri con qualche toppa – a ridosso del Mondiale.

Una cosa mai vista altrove, al punto che, a ben 24 anni dalla rassegna mondiale a marchio nostrano, a pochi mesi dell’inizio della rassegna iridata organizzata in Brasile nel 2014 – di fronte alle contestazioni sui ritardi brasiliani – il presidente dell’Uefa allora in carica, sua maestà Michel Platini, prendendo proprio il Mondiale italiano come termine di paragone, in chiave ovviamente negativa, ha tenuto a evidenziare come il problema concernente la tempistica di chiusura dei lavori nel mondiale carioca fosse di lieve entità se rapportato a quello che aveva riguardato la massima competizione internazionale disputata in terra italiana anni prima: “Nel 1990 si vedevano ancora operai che davano le ultime pennellate agli stadi poco prima dell’inaugurazione».

Umiliazione internazionale a parte, sì dirà: acqua passata, anche se costosissima2. No, purtroppo non è così. Basti pensare alla circostanza che nel bilancio di previsione di Palazzo Chigi del 2014 ci fosse ancora una voce concernente i mutui accesi con una legge del 1987 per costruire gli stadi del Mondiale. Il conto è di 61 milioni e 200 mila euro, nel 2013 e nel 2012 sono stati altrettanti, nel 2011 si è trattato di 55 milioni e di 60 nel 2010. Altro che investimenti, piuttosto sperperi a lungo termine.

E, peraltro, non è detto che nelle pieghe di altri bilanci pubblici non ci sia anche qualche altra brutta sorpresa di cui tener conto. Soldi gettati letteralmente alle ortiche, in gran parte anche e soprattutto per interessi lievitati a dismisura nel corso del tempo. In quattro anni quasi 240 milioni di euro, poco meno di quel che si risparmia grazie all’ora legale nello stesso periodo: circa 300 milioni.

Tante gocce in un mare di danaro pubblico sprecato senza soluzione di continuità che, invece, se speso nel miglior modo possibile, avrebbe potuto consentire al Belpaese di mettere mano a una situazione particolarmente deficitaria, al fine di avviare un’implementazione infrastrutturale tale da colmare l’evidente gap rispetto agli altri paesi europei.

Il tutto all’insegna di un modus operandi da definirsi superficiale o speculativo. Per la verità, a dirla tutta, fra le due cose non si sa quale sia quella meno inquietante. E per anni è venuto quasi da tremare al sol pensare all’ipotesi dell’Italia impegnata in un’altra grande manifestazione, visto che a lungo è stato accarezzato il sogno di vederla ospitare le Olimpiadi del 2024, poi assegnate alla Francia. Per grazia ricevuta potrebbe osarsi dire.

Timori accantonati soltanto per poco, sotto questo profilo, dal momento che non lascia dormire sonni tranquilli la recente ufficializzazione della designazione combinata Italia-Turchia per i Campionati Europei del 2032, che vedranno dunque il Belpaese ospitare una parte delle gare in programma nella rassegna continentale.

La speranza è che l’esperienza maturata in occasione dei mondiali nostrani del ’90 e tutti i disastri che ne sono derivati possano servire per non ripeterli anche in questa circostanza, che potrebbe essere invece quella giusta per riscattare le malefatte del passato e costruire qualcosa di importante sia per quanto riguarda l’impiantistica degli stadi che per quel che concerne le varie infrastrutture di supporto. Il tutto magari con annessi importanti risvolti occupazionali, visto che almeno in linea teorica queste rappresentano occasioni propizie per assumere persone in cerca di lavoro e pronte a mettere a disposizione la loro professionalità al servizio della collettività.

Il tempo dirà. Il disastro del 1990 ha avuto come eco solo l’apertura di numerose indagini, quasi tutte finite nell’impunità. Seguite da due proposte di commissioni di inchiesta parlamentare. La prima al Senato nel maggio 1992, a scandalo ancora caldo, proposta dal deputato Raffaele Costa (all’epoca Pli, poi Forza Italia), un’altra nel maggio 1999, promossa dal senatore Athos De Luca (all’epoca dei Verdi, successivamente Pd).

Nelle pieghe di queste proposte, agli atti, sono rimaste solo fiumi di parole amare: «Un’inchiesta della magistratura romana sugli sprechi di Italia ’90 – si legge nella relazione dell’onorevole De Luca – conclusasi con l’archiviazione di accuse di corruzione e abuso d’ufficio, lascia aperto il nodo delle responsabilità politiche e amministrative per tanti monumenti allo spreco e alla dissipazione del denaro di contribuenti». Il Grande Sperpero è così andato perso nell’oblio. E dunque il peggio di quel Mondiale non è stato certo il pari di Caniggia nella semifinale con l’Argentina, i successivi rigori sbagliati e la coppa portata via dai tedeschi.

C’è stato molto peggio di quell’uscita a vuoto di Zenga sulla testa dell’argentino che ha mandato in fumo i sogni di gloria degli italiani. Quelli sportivi. Altri sogni, di certo meno nobili e decorosi, mentre eravamo tutti quanti tristi per quella sconfitta, si stavano invece realizzando nelle case di imprenditori ed esponenti politici. A nostra insaputa e alle nostre spalle, forse.

Quella di Italia 90, quindi, non ha rappresentato esclusivamente un’estate magica e ricca di aspettative, ma anche e soprattutto una delle ultime grandi speculazioni economiche prima dello scandalo Tangentopoli, vicenda che ha segnato definitivamente la fine di un lungo periodo storico dell’Italia e il tramonto della carriera di numerosi politici e imprenditori, per anni dominatori assoluti della scena nazionale e protagonisti principali di una delle pagine più nere dell’Italia repubblicana.

Nella quale ormai da anni una certa borghesia spregiudicata faceva tutt’uno con la politica, e la prima guadagnava sempre più posizioni nei partiti (se prima ne erano interessati soprattutto DC e PSDI, con l’irrompere degli anni ‘80 ne veniva toccato e infiltrato in maniera rilevante anche il PSI).

A siffatto sistema politico e a questa finanza si legava una casta amministrativa sempre più autoreferenziale: la conseguenza finale era quello di favorire l’agglomerarsi di autentiche corporazioni di poteri e di interessi (vedere il caso P2) da un lato, e lo sviluppo di una criminalità organizzata ramificata e particolarmente incisiva nel territorio dall’altro. Il sistema giudiziario non sarebbe stato in grado di evitare certe storture e le illegalità sarebbero dilagate. E mentre tutto questo conduceva a scandali e all’emergere di ricchezze sempre più vaste in capo a pochi, agli italiani si chiedevano sacrifici, con tutto quello che conseguiva in termini di disagi (e rancori) sociali.

Gli scandali venuti fuori dalle vicende legate alla kermesse mondiale nostrana rappresentano, in pratica, una sorta di antipasto rispetto a quanto poi accaduto qualche anno più tardi con “Mani pulite” ovvero con la lunga serie di inchieste condotte dalle varie procure giudiziarie italiane, in particolare quella di Milano, rivelatrici del sistema fraudolento e corrotto che fino a quel momento aveva coinvolto in maniera collusa la politica e l’imprenditoria italiana.

Impatto mediatico e clima di sdegno dell’opinione pubblica decretano il crollo della cosiddetta Prima Repubblica e l’inizio della Seconda, con lo scioglimento dei partiti storici della Repubblica Italiana come la DC e il PSI e la loro sostituzione in Parlamento, nelle successive elezioni, da partiti di nuova formazione o in precedenza minoritari e appartenenti all’opposizione: seppure non sia intervenuto un formale cambiamento di regime, si ha un profondo mutamento del sistema partitico e un ricambio dei suoi esponenti nazionali. E, del resto, la stessa locuzione “Mani pulite” applicata alla politica era stata coniata per la prima volta nel 1963 nel film di denuncia sociale del regista Francesco Rosi Le mani sulla città.

In una scena del film, i deputati di maggioranza del Consiglio comunale di Napoli, in risposta a un consigliere di opposizione che li accusa apertamente di avere “le mani sporche”, in riferimento a un loro probabile coinvolgimento in una speculazione edilizia, affermano di rimando: “Le nostre mani sono pulite!”. L’espressione veniva successivamente ripresa il 10 luglio 1975 da Giorgio Amendola, deputato del PCI, durante un’intervista rilasciata a Manlio Cancogni pubblicata da Il Mondo in cui affermava senza mezze misure: “Ci hanno detto che le nostre mani sono pulite perché non l’abbiamo mai messe in pasta.

Come se non si potessero avere dei grandi affari amministrando l’opposizione in una certa maniera”. Così come nel 1983 il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, in un suo intervento pubblico, rivolgendosi alla platea con la sua voce ferma e inconfondibile, pronuncia queste parole: “L’appello che io faccio ai giovani è questo: di cercare di essere onesti. Prima di tutto la politica deve essere fatta con le mani pulite!”

Nella sua accezione, per così dire, più ristretta, “Mani pulite” fa riferimento al fascicolo di indagine aperto dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano nel 1991, in particolare dal Pubblico Ministero Antonio Di Pietro, e sfociata nel suo primo atto ufficiale del 17 febbraio 1992, con l’ordine di cattura emesso ed eseguito a carico dell’ingegner Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio e membro di primo piano del Partito Socialista Italiano in territorio milanese, colto dalla polizia giudiziaria in flagranza di reato ovvero proprio nel momento in cui intasca una cospicua tangente dall’imprenditore monzese Luca Magni.

Ed è lo stesso Di Pietro, a distanza di decenni dai fatti, a raccontare la genesi di questo nome nell’ambito di un’intervista rilasciata a L’Eco di Bergamo. Mike e Papa, così si parlavano in codice alla radio durante le indagini sfociate nell’arresto che avrebbe travolto un’intera classe politica. MP era la sigla che finiva nei verbali, Mike-Papa, quando mani pulite ancora non esisteva.

GLIEROIDELCALCIO.COM (Francesco Zagami)

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