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Libri: “Ahi, Sudamerica!”- L’arrivo di “Mumo” Orsi

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GLIEROIDELCALCIO.COM – Per la rubrica “Libri” abbiamo raggiunto e intervistato Marco Ferrari, autore del libro “Ahi, Sudamerica!”, oriundi, Tango e futbol, edito da Laterza.

Marco Ferrari, giornalista e scrittore spezzino, è redattore del quotidiano in lingua italiana “Gente d’Italia” edito in Sudamerica.

Nell’aria si sente un forte odore di fainà. Per le strade si vende “O Balilla”, un giornale in dialetto, e i carbunin usano pantaloni bleu di Genova. Eppure non siamo sotto la Lanterna, ma dall’altra parte del mondo, a Buenos Aires. Qui sono gli italiani appena immigrati a far innamorare tutti del gioco più bello del mondo, il fútbol. Questo libro ne racconta le storie, esilaranti, malinconiche e struggenti, a cavallo tra le due sponde dell’oceano, con in mente i personaggi strampalati di Osvaldo Soriano e come colonna sonora le note intense di Astor Piazzolla.

Un racconto appassionato da cui ne scaturisce una lettura coinvolgente.

Un triplo appuntamento per noi: l’intervista all’autore e due estratti del libro, oggi il secondo dedicato all’arrivo in Italia di Raimundo Bibiani Orsi detto Mumo.

Si ringrazia la casa editrice Laterza per l’opportunità.

Buona lettura.

Il team de GliEroidelCalcio.com

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“Carlo Carcano aveva forgiato il quinquennio d’oro juventino sugli oriundi Monti, Orsi e Cesarini. Si muoveva nel mercato porteño meglio che in quello italiano, aveva i suoi canali informativi, teneva i contatti con i consolati, scriveva ai mediatori argentini di seguire questo o quel calciatore che avesse un cognome italiano, si era abbonato a «El Gráfico» che giungeva a Torino odorando di stiva di transatlantico. Si era portato a casa gente come Luis Monti, Renato Cesarini e Raimundo Orsi, schierati a fianco di Felice Borel II, detto Farfallino per la sua leggerezza nella corsa, Combi, Rosetta e Calligaris. Quei tre oriundi gli avevano regalato la fortuna, ma anche determinato la sua sfortuna. Aveva messo in bacheca quattro scudetti consecutivi, dal 1931 al ’34, e tante, troppe invidie. Era finito sotto il tiro dei burocrati fascisti. Lo chiamavano «frocio» e lo schernivano a ogni vittoria consumata ai danni delle altre compagini foraggiate dai gerarchi del potere. Lui mantenne l’eleganza e lo stile di un dandy inglese anche nel fango degli stadi finché il regime non impose alla Juventus di allontanarlo dalla panchina con l’ombra del sospetto aleggiante oltre la giustificazione ufficiale: «Motivi personali indipendenti dalla conduzione tecnica della squadra». Si capiva che dietro a quel provvedimento si celavano questioni private, la pederastia oggetto del pettegolezzo nel mondo sportivo e non solo. Gli altri finiti sotto accusa, Mario Varglien e Luisito Monti, che avrebbero attentato alle virtù del ventenne minorenne Felicino Borel, non furono puniti. Pagò per tutti l’allenatore. Pagò per la frase di Farfallino Borel: «Davanti a lui è proibito togliersi i pantaloncini».

Carcano se ne andò all’ottava giornata senza voltarsi, col passo rapido, il vestito grigio, la testa tonda e stempiata, le labbra regolari, il mento prospiciente, le voci che lo rincorrevano in ogni dove. Lasciò il posto all’ingegner Benedetto Gola, dirigente accompagnatore ufficiale della squadra, e a Carlo Bigatto, soprannominato Il Dilettante, i quali riuscirono comunque a conquistare il quinto scudetto consecutivo battendo sul filo di lana l’Ambrosiana-Inter. La decisione riguardante Carcano non fu mai digerita dal presidente Edoardo Agnelli, sapendo benissimo che era l’uomo che aveva guidato la squadra verso la leggenda e che forse avrebbe consentito altri ambiziosi traguardi concludendo un decennio da favola.

Ma non andò così. E allora aveva pregato gli amici genovesi di trovargli un tetto per salvarlo dall’onta della vergogna. La cacciata di Carcano rovinò la Juventus e aprì il ciclo del Bologna amato da Mussolini che vinse quattro scudetti. Il caso più eclatante di quella Juve fu Raimundo Orsi, chiamato da tutti Mumo, al centro di un contenzioso diplomatico-politico tra Italia e Argentina. Era un furetto piccolo, ossuto, insignificante, il girovita da segalitico e il naso aquilino. A leggere le notizie sulle Olimpiadi di Amsterdam del ’28, dove l’Argentina fu battuta come sempre dall’impavido Uruguay e dove venne giudicato il miglior calciatore della competizione, ci si attendeva un ariete, un peso massimo, un tipo muscoloso, un Carnera d’aria di rigore. Invece sbarcò dal piroscafo quel peso mosca stretto in un soprabito corto che nessuno credette essere l’Orsi atteso dai dirigenti. Quasi stavano per rispedire indietro quel tipo dai capelli lisci, unti di brillantina e la riga centrale, forse un cameriere o un fattorino della nave che voleva spacciarsi per l’ala sinistra della nazionale argentina, che probabilmente aveva rubato un cappotto a un cliente ancora più mingherlino di lui e addirittura i documenti al vero giocatore di calcio rinchiuso chissà dove nel ventre dell’imbarcazione oppure caduto inopinatamente in mare durante la traversata atlantica.

Ma la fotografia del passaporto non lasciava dubbi: quell’essere umano di taglia minuta, filiforme ed esigua, magro e denutrito, alto 1,70 per 66 chili, era proprio Raimundo Bibiani Orsi, un’ombra nella sera calata sui moli di Genova. Così i dirigenti juventini lo caricarono senza alcun entusiasmo su una Fiat 508 Balilla e lo trascinarono nelle lande piemontesi, non prima di essersi fermati in un negozio di abbigliamento per sostituire il cappotto che Orsi aveva preso in prestito da un fratello minore temendo, con giusta causa, la rigidità del clima padano. I primi giorni nella capitale sabauda furono angoscianti per il giovane oriundo, poco avvezzo al rigore della blasonata società e alle sconosciute nebbie continentali. Avendo studiato al Conservatorio di Buenos Aires e fatto pratica nell’orchestra di Francisco Canaro, si era portato il suo violino, stava in casa a suonare Mi noche triste di Pascual Contursi oppure a piangere cercando invano di concludere le rime di Mi Buenos Aires querido. Soffriva di quella malattia che i porteños chiamano tanghitudine che assale in determinati e precisi casi: lontano da casa, lontano da tutti; parlando o scrivendo ai genitori ci si sente improvvisamente più vecchi di loro; quando si è sulla soglia di un addio, uno qualunque. Un peso si pianta sullo stomaco e nessuna bevuta d’arzente riesce a scioglierlo, l’insicurezza prende il sopravvento, l’amore non è più amore, è solo tradimento, la gioventù un inganno effimero della vita, l’amicizia una bufala. Ecco, nella fredda casa di Torino, circondato dall’assenza di sorrisi, Mumo pativa di quello strambo effetto che può colpire solo i rioplatensi e nessun altro. E non era spiegabile a uno di Biella o Vercelli che a tre gradi sottozero cantava ’O sole mio. Per consolarlo il barone Giovanni Mazzonis finanziò persino un gruppetto che lo accompagnava in qualche tanghetto di romantiche risonanze, lui che era un piemontese oculato. No, Orsi muoveva l’archetto del violino come se muovesse le corde dell’anima e un sussulto di fibre colorava di grigio l’umida stanza torinese. Il vortice di note della Cieguita, il suo pezzo prediletto, gli vibrava in testa, un fiume musicale lo trascinava alla sua infanzia, alle strade e ai cortili dove aveva appreso a giocare a calcio picchiandosi con avversari galiziani e polacchi. Poi lo colpiva il buio e si imponeva il silenzio, a lungo. Fuori pioveva, gocce di malinconia si stampavano sui vetri: un irreversibile moto del tempo che quella pioggia trascinava giù dal cielo, il tempo che non tornava, la gioventù che sfioriva, gli amori che la lontananza affievoliva e svuotava nell’eterna convalescenza dal passato. Maledetto il tempo in cui la sua famiglia cominciò a fare su e giù sull’oceano non sapendo bene dove collocare il peso del ricordo che conteneva oramai tutta la sua esistenza, anche il presente che fuggiva via, come un soffio di respiro. Guardando oltre il vetro appannato della sala canticchiava un’aria languida di Gardel.

Lui andava fiero di aver conosciuto El Zorzal criollo a Parigi quando la delegazione argentina diretta ad Amsterdam era stata accolta dal grande maestro di tango al cabaret “El Garrón” che era di proprietà di un impresario argentino. Così conciato – smilzo, affranto, desolato e nostalgico –, i dirigenti juventini lo tennero a bagnomaria quasi un anno prima di mostrarlo in pubblico, anche per diverbi economici con la società di provenienza, con il governo argentino che protestava per il “rapimento” dell’eroe olimpico l’anno prima dei Mondiali del 1930 e dovendo lavorare per dimostrare la sua vera identità italiana per ius sanguinis. Di certo si creò un certo imbarazzo attorno a quell’essere apparentemente insignificante che corrispondeva nientepopodimeno che al nome di Raimundo Bibiani Orsi, l’eroe delle ultime Olimpiadi. In quel purgatorio dorato l’aletta dalle quattro ossa riceveva comunque un ingaggio di 100 mila lire, una paga mensile di 8 mila (che lui pretendeva in pesos argentini), più o meno il salario di un generale o un ingegnere, una villa con affitto pagato più il prestito gratuito di una Fiat 509, quelle con la ruota di ricambio appesa sul portabagagli del retro. Lo si poteva incontrare solo agli allenamenti e al termine delle partite interne di campionato, accompagnato da un sussurro di voci e da un alone di scetticismo. Era l’uomo delle nostalgie, era il ragazzo diviso in due, metà di qua dell’oceano, l’altra metà rimasta alla foce del Río de la Plata. Poi un giorno rimise nella custodia il violino e gli spartiti dei tanghi in lunfardo con i versi bizzarri di Antonio Podestá e Lorenzo Juan Traverso, scritti per la parlata colloquiale dei migranti, e iniziò a far vedere davvero come trattava la palla […]”

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