GLIEROIDELCALCIO.COM (Federico Baranello) – Per la rubrica “Libri” la scorsa settimana abbiamo raggiunto e intervistato Paolo Valenti, autore del libro “Da Parigi a Londra – Storia e storie degli Europei di calcio”, edito da Ultra Edizioni.
Oggi un estratto del libro in cui si racconta l’Europeo del 1964 e in particolare il contesto storico di riferimento.
Si ringrazia la casa editrice Ultra Edizioni per l’opportunità.
Buona lettura.
Il team de GliEroidelCalcio.com
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1964
LA SPAGNA DEL GENERALE
IL CONTESTO
Il 1964 è un anno particolare nello sviluppo del decennio. Un anno nel quale, sotto la spessa coltre della Guerra fredda tra il blocco occidentale e quello comunista, si agitano i sussulti di cambiamento di un mondo che rifiuterà i vecchi stereotipi comportamentali della società e che porteranno ai movimenti di rivolta sociale che caratterizzeranno la seconda metà degli anni Sessanta. Gli eventi nel mondo si alternano tra ottimismo e delusione, passi avanti verso l’affermazione dei diritti civili e avvilenti regressioni. Mentre negli Stati Uniti è ancora viva la ferita aperta dall’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, l’1 febbraio 1964, per la prima volta in carriera, i Beatles conquistano la vetta della hit parade americana con il brano I Want to Hold Your Hand. E se il 1964 è l’anno della condanna all’ergastolo di Nelson Mandela, è anche quello in cui il premio Nobel per la pace viene assegnato al reverendo Martin Luther King, incontrato da Papa Paolo VI in un gesto di afflato ecumenico tipico del Concilio Vaticano II.
Accadimenti rilevanti, talvolta contraddittori, nei quali la seconda edizione del Campionato europeo per nazioni si andò a incastonare nell’apparente semplicità dello svolgimento di una fase finale di quattro partite da disputare in cinque giorni. Fu la Spagna, tra le Nazionali qualificate, a ospitare semifinali e finali di una manifestazione che aveva cominciato ad assumere uno spessore tecnico decisamente più significativo rispetto a quello della sua prima edizione. Innanzitutto per il numero delle federazioni che presero parte al sorteggio delle qualificazioni: ben ventinove, ridottesi di un’unità ancor prima di giocare per via dell’accoppiamento uscito dalle urne tra Grecia e Albania, a cui gli ellenici si rifiutarono di dar seguito per motivazioni politiche che costrinsero l’Uefa ad assegnare la vittoria a tavolino all’Albania. E poi per l’adesione di Nazionali quali Italia e Inghilterra, non presenti nella prima edizione, e il Portogallo del fenomeno Eusebio.
Ancora assente, invece, la Germania Ovest per volontà del suo tecnico Seep Herberger, contrario a partecipare a tornei ufficiali che non fossero i Campionati del mondo. Nei sedicesimi di finale gli azzurri si confrontarono con la Turchia: un doppio incontro senza storia che la nostra selezione mise al sicuro già nella partita di andata con un perentorio 6-0, al quale si aggiunse la vittoria di misura del ritorno (1-0). Furono gli ottavi a mettere a dura prova la squadra di Edmondo Fabbri, che si trovò costretta a fronteggiare i campioni uscenti dell’Urss senza le risorse fisiche e d’esperienza necessarie per riuscire a prevalere. Dopo il 3-1 subito in Russia in malo modo (gli avversari non evitarono di ricorrere alle maniere dure pur di riuscire a prevalere) l’Italia non fu capace di ribaltare il risultato a Roma, in una partita nella quale, oltre all’esordio del futuro “messicano” Angelo Domenghini, si registrò anche un rigore che Sandro Mazzola si fece parare dal “Ragno nero” Jašin. I gol di Gusarov e Rivera bloccarono il risultato su un 1-1 insufficiente alla nostra squadra per passare il turno. Sulla strada delle eliminatorie si persero anche l’Inghilterra, il Portogallo e, sorprendentemente, la Jugoslavia e la Cecoslovacchia, rispettivamente seconda e terza classificata nel 1960. Tra il 17 e il 21 giugno, a disputarsi il titolo tra il Santiago Bernabéu di Madrid e il Camp Nou di Barcellona c’erano, oltre alla Spagna padrona di casa, la Danimarca, che era la sorpresa del torneo, essendo composta da giocatori non professionisti, l’Unione Sovietica del Pallone d’oro in carica Lev Jašin e l’Ungheria, che avrebbe vinto le Olimpiadi di quello stesso anno e del 1968.
Per il Generale Franco ospitare l’Europeo si tradusse in una grande opportunità di propaganda per il regime. La sua dittatura, dopo il truculento periodo della guerra civile, si era gradualmente ammorbidita e si era aperta al mondo esterno, dischiudendo il Paese al turismo e ai flussi finanziari sostenuti dagli investimenti stranieri. Una politica economica che aveva consentito lo sviluppo di un maggior benessere tra la popolazione doveva trovare una conferma anche a livello internazionale, e una competizione sportiva ben organizzata e possibilmente vinta come l’Europeo poteva assicurare quel risultato. Il valore della Nazionale iberica era l’elemento convincente per cambiare orientamento rispetto all’ostracismo dimostrato quattro anni prima nei confronti della selezione sovietica, che venne ospitata nei confini nazionali, correndo il rischio di subire una sconfitta sportiva che avrebbe avuto degli inevitabili contraccolpi politici.
Ma il calcio spagnolo stava vivendo un momento di splendore, e il Generale confidava nelle sue possibilità di affermarsi. La vittoria finale degli uomini del tecnico Villalonga gli diede ragione, anche perché arrivò prevalendo proprio sugli acerrimi nemici, più politici che sportivi, dell’Urss. Un successo di campo che negli anni più recenti è stato condannato all’oblio dalla sua stessa valenza ideologica, nella generale tendenza a cancellare ciò che ha fatto parte della storia spagnola nel periodo franchista.
Estratto da “Da Parigi a Londra” di Paolo Valenti, Ultra Sport.
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