Per la rubrica “Libri” abbiamo raggiunto ed intervistato Gianluigi D’Ambrosio autore del libro “Difendendo da giganti” “le storie dei grandi difensori che hanno segnato diverse ere”, edito da Urbone Publishing.
Per noi un consueto e piacevole triplo appuntamento: dopo l’intervista del 25 marzo, ed il primo dei due estratti della settimana scorsa, oggi il secondo.
Buona Lettura.
Il team de GliEroidelCalcio.com
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“È un borghese per default. Sposa la classica bionda ma gioca divinamente a calcio. No, togliete il “ma”, il “ma” non serve: gioca divinamente a calcio. È razionale, ha fatto il mediano nelle prime Germanie, adesso fa il libero. È il padrone, è veramente un giocatore che passa una volta ogni cent’anni”. (Federico Buffa)
Un terreno e i residui di una guerra mondiale appena conclusa, una Nazione distrutta senza idee per ripartire, con il dovere di farlo per rinascere in un momento delicato. In un quartiere di Monaco di Baviera, gli occhi di un neonato si aprivano e cominciavano a diffondere sensazioni invisibili, come un inizio silenzioso per la costruzione di qualcosa di grande. Ciò che vediamo ora è il frutto di tante azioni, cominciando proprio dal muro che divideva Berlino in due parti, mentre il neonato diventava un ragazzino con le idee molto chiare. Per lui non era un passatempo divertirsi con la palla, ma un ennesimo segnale in cerca dei giusti recettori, nei luoghi dove incantare e distribuire la propria luce di classe.
La madre Antonie e lo zio Alfons (attaccante per qualche stagione del Bayern), si dimostrarono più forti rispetto alla volontà del padre postino, colui che sognava un futuro da avvocato o geometra per il piccolo Franz una volta divenuto un uomo. Un passo importante sulla strada che conduceva ad Obergiesing, il luogo della sua prima realtà calcistica, ossia il settore giovanile di quello che un tempo era “SC Monaco 1906”. Immaginate la scena in cui solleva al cielo la Coppa del Mondo, poi però chinatevi e schiacciate il tasto “rewind” per riavvolgere il nastro, stoppando il nostro film davanti ad un tredicenne in un torneo giovanile.
La finale tra SC Monaco 1906 e Monaco 1860, i cosiddetti “Leoni”, la squadra che tutti i ragazzi di allora sognavano di raggiungere un giorno. Non un inizio da libero, ma in posizione avanzata nel ruolo di ala, mandando in bambola tutta la difesa avversaria, fino alla reazione scomposta di uno di loro, ossia un nome che alla fine si rivelerà cruciale per il destino, del calcio tedesco e internazionale. Allora mi chiedo: “Cosa sarebbe successo se Gerhard König non avesse tirato uno schiaffo a Franz?”.
Già proprio così, ad un certo punto della gara ricevette uno schiaffo da Gerhard, e nonostante la vittoria, egli mise da parte per sempre il suo primo amore, giurando di non giocare mai con la maglia dei suoi sogni. Sarebbe diventato grande? Impossibile saperlo, ma voglio continuare il mio viaggio, immaginando la prima firma per il Bayern Monaco, la squadra che ai tempi era ben diversa da quella attuale. Poi però qualcuno interruppe la monotonia bavarese, portando un disco dalla Jugoslavia,
contenente una musica mai ascoltata prima di allora in quella terra. Zlatko Čajkovski seduto e incantato dalle giocate di quell’ala meravigliosa nelle giovanili, impugnando la decisione di farlo esordire presto, insieme ad altre promesse come Gerd Müller e Sepp Maier.
Metteva a segno tanti gol, sollevava al cielo le prime gioie e piangeva per le sconfitte amare, arretrato ad un tratto nella zona mediana per diventare padrone del gioco. Occhi moltiplicati insieme al desiderio di averlo nella propria squadra, tra le fila della Germania Ovest in cammino verso Wembley, verso la nazione che ospitava i Mondiali del 1966 proprio in Inghilterra. Trascinatore autentico in grado di segnare e far segnare, capace di trafiggere in semifinale il “ragno sovietico” tra i pali avversari, colui che nella storia è stato l’unico portiere a vincere il “pallone d’oro”, il grande Lev Jašin.
Giunto a Wembley senza lasciare mai Bobby Charlton, in una battaglia epica da vera finale mondiale, uscito dal terreno di gioco con voglia di rivalsa dopo aver perso contro i “Leoni d’Inghilterra”. Nessuna traccia di “Euro 1968”, voglioso di rivalsa a Messico 1970, vendicando e guidando la rimonta sugli inglesi campioni del mondo in carica, fino ad un cartello che indicava: “Estadio Azteca”. Poco più di un’ora di gioco, nel bel mezzo di scontri descritti e raccontati da chi c’era quel giorno, caduto sul terreno dopo uno scontro con l’italiano Cera, costretto a stringere i denti nonostante la lussazione della spalla. Dal minuto 66’ fino al gol di Gianni Rivera per il 4 a 3 finale, nel giorno della “partita del secolo”, corrispondente alla sua ultima apparizione da centrocampista.
Il braccio improvvisamente avvolto da una doppia fascia, una doppia lettera “C” che indicava il duplice ruolo, la doppia responsabilità di essere capitano del Bayern e della Germania Ovest. Gli anni ’70 una vera consacrazione, un nuovo vento in grado di valorizzare e donare il soprannome passato alla storia, perché in terra austriaca tutto nacque da uno scatto che ritraeva lui insieme ad un busto reale. Lì per un’amichevole tra Bayern e Austria Vienna, passeggiava come un vero turista
insieme ai compagni di nazionale nell’Hofburg, nella residenza austriaca che fu degli Asburgo. Lo scatto di un fotografo su una rivista nazionale, nessun dubbio sul soprannome da attribuire per sottolineare la grandezza, e fu così che immortalò un sorriso mentre osservava il busto di Francesco Giuseppe.
Divenne “Kaiser”, l’imperatore che sui prati verdi dominava la scena con la sua personalità, arretrato ancora di più dall’allenatore della nazionale Schön, nel ruolo di libero per rivoluzionare il gioco del pallone. Il “Meisterschale” della Bundesliga, un Europeo in Belgio e il “Pallone d’oro” di France Football su un podio tutto tedesco, mago del pallone dalla difesa all’attacco in ogni tipo di azione, perché fu un grado di completare la metamorfosi in “fonte d’ispirazione”. La bellezza e il fascino di uno scontro di idee, sulla strada che portò ad un incrocio per narrare un’altra bella porzione di storia, ovvero dell’incontro tra Franz e Johan Cruijff. La delusione forte quando incassò un pesantissimo poker da Johan e compagni, nel vederli sollevare a Belgrado la Coppa dei Campioni, trasformata alla fine in uno stimolo
per innescare una grande fame di vittoria.
Fu così, con un’altra Bundesliga e la prima “donna dalle grandi orecchie” stregata a Bruxelles, scrivendo la storia e guidando i compagni nel suo nuovo ruolo, capace di conquistare da vero imperatore del calcio, le città di Parigi e Glasgow, per un totale di tre Coppe dei Campioni consecutive. Il destino di nuovo in casa, nel mondiale casalingo del 1974 dove si consumò la vittoria sugli Orange olandesi, con orgoglio sollevando nel cielo dell’Olympiastadion la seconda Coppa del Mondo della storia tedesca. Non finirono di splendere le luci calcistiche, in cammino verso la Francia per ricevere il secondo “Pallone d’oro”, nonostante la sconfitta europea a causa del primo cucchiaio della storia, ad opera del cecoslovacco Panenka.
Senza mai smettere di vivere per il gol, nato per vivere emozioni anche Oltreoceano, conquistò gli States svariate volte con la maglia dei Cosmos di New York, tornando poi in Germania guidando ancora verso i trionfi. La quinta Bundesliga e il ritorno ancora negli States, con gli scarpini al chiodo con una bella giacca da allenatore. L’Italia nuovamente nel destino, stavolta con un primato diverso e illuminato con una luce assai speciale, poiché unico a trionfare da giocatore e da allenatore in un mondiale di calcio. Leggende di spessore lasciate libere di agire, sulle praterie dove seminare, la classe in semi che genereranno concetti calcistici da tramandare per l’eternità.