GLIEROIDELCALCIO.COM (Federico Baranello) – Per la rubrica “Libri” abbiamo raggiunto e intervistato Riccardo Cavassi e Marco Tarek Tailamun, autori del libro “Football Nostalgia Novanta”, edito da Ultra Edizioni.
Riccardo e Marco sono i fondatori di Football Nostalgia Novanta, una delle storiche pagine Facebook con cui compiere un viaggio nei meandri di una decade magica ed irripetibile. Nel libro, i due amici, presentano una fantasiosa playlist di personaggi e aneddoti unica nel suo genere, tratteggiata con passione, maleducazione e irriverenza. Un viaggio nel tempo tra le meraviglie di un decennio indimenticabile, nel quale soubrette poco vestite e presidenti miliardari fanno da cornice a un universo di campioni stellari e fenomeni parastatali, portieroni, terzinacci, gol leggendari e imprese titaniche.
Oggi un estratto del loro libro in cui i nostri amici, allo loro irriverente maniera, raccontano di Andrei Kanchelskis e Taribo West.
Si ringrazia la casa editrice Ultra Edizioni per l’opportunità.
Buona lettura.
Il team de GliEroidelCalcio.com
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Andrei Kanchelskis e un incubo chiamato Taribo
Esistono omuncoli insignificanti capaci di scrivere immeritatamente la storia, e personaggi epici inspiegabilmente destinati a scivolare nell’oblio. Messia usa e getta, eroi da una botta e via, venuti al mondo con il solo scopo di regalare al popolo emozioni galattiche ma effimere, lampi di felicità esagerata ma istantanea, momenti di passione tanto brevi quanto intensi, come un primo coito vissuto tra le cosce sudate di Eva Grimaldi. Miti a breve scadenza, gladiatori con le ore contate; gente condannata a perire inesorabilmente nel dopodomani, ma non prima di aver scheggiato il viso e l’orgoglio degli dèi. Come un Ciro Ferrara candidato per il Pallone d’Oro. Scherzati dal fato, questi personaggi sono vittime del proprio beffardo destino. Uno di loro è Andrei Kanchelskis, e questa è la sua straordinaria leggenda. Andrei, dalle parti di Firenze, verrà sempre ricordato così. E con il curioso appellativo di Ciliegione, affibbiatogli da un giornalista della «Gazzetta», a sottolineare lo sforzo economico del Presidente, che a una Viola già attrezzatissima aveva aggiunto un elemento di caratura internazionale. Il Ciliegione sulla torta, appunto.
Tutto ebbe inizio una notte di gennaio del 1996. Vittorio Cecchi Gori, disteso sul suo enorme divano in pelliccia di dalmata, intento ad autocelebrarsi sui minuziosi primi piani che il cameraman-galantuomo di Galagol dedicava alle labbra fatate di Alba Parietti, ebbe un’illuminazione. Si alzò all’improvviso, quasi posseduto da un demonio in astinenza, completamente nudo, col membro ciondolante ancora unto di lube al mentolo. Sollevò lo sguardo verso la foto della rosa stagione 95/96 e, dopo aver maledetto come al solito l’intera famiglia di Mr. Ranieri, prese d’impulso lo StarTac appoggiato sulla credenza – quella su cui teneva ammucchiati, senza un particolare criterio, Coppe Italia, David di Donatello e avvisi di garanzia. Si mise a comporre un numero lunghissimo, schiacciando almeno sedici tasti in una sequenza delirante. Dall’altro capo della linea rispose la lontanissima voce del corrispondente ucraino di Cecchi Gori, uno spacciatore di anfetamine con la passione per le gli FKK, soprannominato Viktor il figlio di Troika, uno dei tanti loschi soggetti cui il presidentissimo viola si rivolgeva quando, nelle solitarie notti fiesoline, veniva accarezzato dai desideri più oscuri. Il presidente comandò che lo sgherro gli comprasse, «prima di subito, maremma troia» e per non meno di 15 miliardi di lire, la migliore ala destra d’Europa. «Fottesega se non so leggere il nome, voglio uno che corra come un cavallo, anzi più di un cavallo. E non scherzo, che poi gli faccio fare i test di sforzo all’ippodromo di Gaucci con Varenne.
Male che vada lo selliamo, gli incolliamo una coccarda sulla schiena e lo sacrifichiamo al prossimo Palio di Siena». Viktor, esperto di droghe sintetiche ma del tutto impreparato sul fronte calcistico, sentendo profumo di denaro facile, sguinzagliò i suoi contatti al KGB alla ricerca del colpaccio di mercato: l’informatore giusto, un giovane infiltrato sovietico a Buckingham Palace, dal roster dell’Everton pescò un’ala destra dal nome impronunciabile per il 98% della popolazione anglofona, ma dal passato illustre. Era lui, Andrei Kanchelskis, da quelle parti conosciuto come “er kalashnikov”, già fucile d’assalto della fascia destra del Manchester United, uno dei più grandi esterni nella Premiership dell’epoca. Viktor verificò di prima mano le informazioni ricevute: lo comprò immediatamente su PcCalcio, e schierandolo largo con Ciccio Baiano nel Foggia dei miracoli vinse in mezza giornata una Coppa Italia e una Coppa delle Coppe. Riuscì addirittura a portarlo a una media di 89, come le superstar Beloufa e Babangida. Con la benedizione del miglior simulatore calcistico di tutti i tempi, il nostro cirillico talent scout si convinse a tentare la sorte e sfidare gli sbalzi di umore del Presidentissimo, spedendogli il russo direttamente nel cortile di casa, a bordo di uno sputnik viola gigliato.
Ed è qui che ha inizio la meravigliosa, imprevedibile parabola di Andrei a Firenze. Kanchelskis, alla presentazione coi tifosi, sfoggiò un completo anni Novanta color sabbia degno del peggior Fiorello versione Karaoke. Insieme a lui la bionda moglie Inna, Miss Kirovograd, già cover-girl di «Ukrainian Brides Magazine»: talento innato attorno ai pali, pelliccia Annabella anche sotto le lenzuola e fame atavica di Mercedes E-200. Andrei, con quel capello untissimo al retrogusto Stolichnaya Gold e sigarette Kortina super KS, lo sguardo ceruleo e apatico da impiegato alla Prefettura di Kiev, proponeva sgroppate sulla fascia dallo stile inconfondibile: arcuato, rapido, tecnico, dribblomane da trattamento sanitario obbligatorio. Uno capace di fare inutili piroette su se stesso prima di crossare, o di montare sulla palla e mettersi sull’attenti, a metà tra un gendarme ritardato e una foca un po’ pallida e molto educata. Andrei era un cavaliere dell’apocalisse con le scarpe a tredici. Un videogame della Konami in carne e ossa. Un luna park fatto uomo.
Una favola, quella di Andrei a Firenze, che si concluse prima ancora di iniziare, come una threesome tra Fabrizio Maffei, Alba Parietti ed Ela Weber. Perché il nostro cosacco non fece in tempo a trovare un appartamento nei palazzacci stile CCCP di Sorgane che immediatamente il destino gli bussò sulla spalla. Per l’esattezza a San Siro, contro l’Inter di Ronaldo. Mister Malesani lo schierò come ala, convinto di aver per le mani un’arma impropria, in un 3-4-3 da Fantacalcio, insieme a Bati, Rui Costa, Lulù il belga e pure Spadino Robbiati. Andrei stava volando. Sulla fascia era un treno e si prendeva gioco di gente con uno scarsissimo senso dello humor, leggi Ciccio Colonnese e Benoit Cauet. I tifosi cantavano il suo nome e lui, dentro di sé, si sentiva un dio, uno scherzo della natura, un fottutissimo ibrido uomo-gabbiano a cui nessuno poteva tarpare le ali. Ma all’improvviso lo shock.
Terrificante. Inaspettato. Potentissimo. Taribo West, il collezionista di tibie, uno che, armato di quel suo innocente, irresistibile sorriso sdentato, si è impunemente nutrito del dolore altrui per tutto il corso della sua permanenza in Italia, prese la rincorsa ed entrò di prepotenza su Kanchelskis – tipo Lexington “The Impaler” Steele a uno Spring Break collegiale – beccandosi giusto un giallo da un Graziano Cesari non ancora schiavo delle lampade UV, ma già petulante.
Entrata di una cattiveria meravigliosa. Di un’oscenità quasi poetica. Sulla linea del fallo laterale. A due piedi sulle caviglie dell’avversario. Gratuita. Impulsiva. Una slavina con le treccine. Un tornado di urla belluine e tacchetti affilati. Un action painting di spruzzi di sangue e schegge di rotula. Se il fallo fosse un’arte, West ne sarebbe l’esponente rinascimentale. Le ginocchia di Andrei saltarono in aria come popcorn bollenti, i legamenti furono raccolti sul posto e smaltiti dall’Hera, poi inevitabilmente sostituiti con delle fascette da elettricista. I chirurghi, in sala operatoria, continuavano a scuotere la testa incantati come monaci buddhisti mentre l’impassibile russo, in preda a un delirio febbrile e con in mano una boccia da 75 di vodka, con gli occhi spalancati fantasticava sul giorno del proprio ritorno in campo.
Sì, perché Andrei era un pazzo. Un Don Chisciotte. Uno che avrebbe fatto di tutto pur di tornare a lottare contro le simpaticissime difese italiane di una volta, fatte di ignoranza, catarro ed Eternit. E infatti, dopo mesi di inattività, decise di rimettersi in gioco proprio con la sua Nazionale russa, durante uno spareggio delicatissimo contro l’Italia, valido per un biglietto ai Mondiali di Francia. E Andrei, permeato da eroismo mistico, si convinse che lui a Parigi ci sarebbe andato: l’ha predetto, l’ha visto nelle stelle, l’ha letto nelle radiografie del suo ginocchio. La partita era Russia-Italia, quella in cui Bobo Vieri giocò tutto l’incontro con una vergognosa chiazza di letame sulle mutande, con la scusa che il campo era una palude coperta di neve. Andrei K, dove K sta per Kamikaze e Andrei per un moto a luogo al condizionale da usare quando si è disperatamente in ritardo, era pieno di furore ed epos. Voleva riscattarsi verso il calcio italiano. Aveva architettato una vendetta sovietica, trasversale. Voleva far del male a un interista qualsiasi. Come una vipera a cui pesti la coda, si scagliò a gamba tesa contro l’innocente Pagliuca, in un banzai di bestemmie moscovite, convinto di sapere chi avrebbe avuto la meglio nello scontro tra un russo e un bolognese. Purtroppo commise un piccolo errore di valutazione, anche perché il bolognese in questione era un individuo fatto interamente di calcestruzzo, e con quella manovra improvvisa Andrei mise la parola fine alla propria carriera: un gesto inspiegabile, catartico, da vero Eroe Romantico.
Non giocò mai più realmente a calcio, la sua avventura fiorentina si accese e si spense in un lampo, come una scoreggia infuocata. Il suo mito, però, sopravvive inarrestabile, tramandato di generazione in generazione, esaltato dall’eloquio di nonni toscani, esasperato dalla fantasia dei bambini al campetto. Un’icona indelebile, un’apparizione indimenticabile, come una rockstar morta a vent’anni o un Galeazzi magro a bordo di una canoa. Un libro scritto solo per metà, tutto da riempire con parole inventate. Una storia da sogno, stroncata da un incubo chiamato Taribo.
Andrei Kanchelskis in maglia viola: ventisei presenze, due gol, una leggenda.
Estratto da “Football nostalgia novanta” di Riccardo Cavassi e Marco Tarek Tailamun, Ultra edizioni.