GLIEROIDELCALCIO.COM – Per la rubrica “Libri” abbiamo raggiunto e intervistato Marco Ballestracci autore del libro “Giocare col fuoco”, storie dal campionato perduto del 1944, edito da Mattioli 1885.
Nel dicembre del 1943, a Venezia, viene indetto il nuovo campionato di calcio. I principali sostenitori del torneo sono il Ministro della Cultura Popolare, Ferdinando Mezzasoma, e il nuovo Commissario Unico del Coni, Ettore Rossi. Il campionato inizia nel gennaio del 1944, perdendo partecipanti mano a mano che il fronte si sposta verso nord. I Vigili del Fuoco di La Spezia arruolano gran parte dei giocatori dello Spezia Calcio e intraprendono la competizione.
Le imprese sportive si mescolano con la vita e con la tragedia della guerra. Tra bombardamenti, macerie, attraversamenti della Cisa e regolamenti di conti, il campionato procede fino al triangolare conclusivo all’Arena di Milano, dove i Vigili del Fuoco di La Spezia battono in finale il Torino. Il campionato termina così, il 20 luglio del 1944, ma i protagonisti del libro hanno altre imprese da portare a termine, così che, alla fine d’ogni cosa, tutto volga a una più giusta normalità.
Oggi l’ultimo appuntamento con il secondo estratto …
Si ringrazia la casa editrice Mattioli 1885 per l’opportunità.
Buona lettura.
Il team de GliEroidelCalcio.com
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“Piola aveva concordato ogni cosa con Novo già la sera del suo arrivo a Torino: l’alloggio in una villetta di Pino Torinese, lontano dai rischi delle incursioni aeree che si correvano in città, uno stipendio d’una certa consistenza visti i tempi e la sicurezza che i genitori non avrebbero mai patito le difficoltà d’approvvigionamento che la guerra comportava.
Avevano cenato insieme e poi il commendatore gli aveva fatto preparare una stanza per la notte. La città l’avrebbero percorsa il giorno dopo perché, prima del suo ritorno serale a Vercelli, Vittorio Valletta aveva espresso il desiderio d’ospitare per pranzo il nuovo grande acquisto del Torino-FIAT.
La mattina successiva Novo congedò garbatamente l’autista e si pose al volante della propria vettura in direzione della villa di San Mauro Torinese dove dimorava l’amministratore delegato della FIAT.
A Vercelli Piola aveva sentito parlare del grande bombardamento di Torino del 13 luglio, ma una cosa era sentirne parlare, un’altra cosa era vedere.
Durante il tragitto transitarono da Via Roma e da Via Santa Teresa: il centrattacco ricordava d’averle percorse, prima della guerra, sotto braccio a Vittorio Pozzo per prendere un caffè al “Bicerin”. Allora erano strade ordinate ed eleganti mentre adesso erano inondate di macerie che qualche mezzo pesante aveva scostato per ripristinare il traffico.
C’era gente imbacuccata che scavava e Novo osservando la scena, come se temesse d’offendere qualcuno, disse sottovoce: “Dicono che cercano i morti, ma son passati sei mesi. Cosa pensano di trovare là sotto dopo tutto stò tempo? La verità è che stanno ancora dietro ai dispersi, ma farebbero meglio a caricare tutto su un camion e decidersi a considerarli morti”.
Quando sbucarono in Piazza Castello lo sguardo di Piola non fu attratto dalla maestosità di Palazzo Reale, ma cadde su un edificio sulla sinistra, all’incrocio con Via Pietro Micca. Era stato senza dubbio un palazzo solenne, ma il 13 luglio era stato centrato da una bomba dirompente e ora era sventrato. La vista lasciava senza fiato: erano esposte agli occhi di tutti stanze che parevano ancora essere animate dallo spirito e dall’intimità della vita dei proprietari, ma bastava girare lo sguardo lungo i lati della piazza e si scoprivano tanti altri edifici i cui segreti erano altrettanto manifesti.
La distruzione procedeva e continuava disordinata anche oltre il ponte sulla Dora Riparia, come se i Lancaster della RAF avessero bombardato alla cieca.
“E’ stato un bombardamento notturno. Hanno colpito un po’ di qua e un po’ di là, sono arrivati anche a Chivasso. C’è chi parla di mille morti, c’è chi dice meno. Han detto che solo a Roma han bombardato di più. Dev’essere stato terribile a Roma…”.
Piola non si trovava nella capitale il 19 luglio: il giorno del grande bombardamento. Era già a Vercelli perciò disse ciò che tutti sapevano: “Sì è stato terribile. Il quartiere di San Lorenzo è stato completamente distrutto, ma lì son passati di giorno e i bersagli si vedevano chiari”.
Poi rimasero a lungo in silenzio, fin quasi al cancello della villa di Valletta.
“E’ la FIAT che ci dà la possibilità di giocare stò campionato. Lei Piola è un operaio della FIAT. Ogni tanto le toccherà andare allo stabilimento a farsi fotografare mentre lavora al tornio. È roba per la propaganda. Quello che ha firmato con me non è un contratto col Torino, ma un contratto di lavoro con la FIAT. Da oggi lei è “un elemento indispensabile per l’industria bellica” e ciò le basterà per non andare in guerra. Non mi pare una roba tanto male, no?”.
Piola non disse nulla. Rimase a guardare dal parabrezza un signore anziano, che doveva appartenere al personale di servizio, arrivare svelto per aprire il grande cancello.
“Valletta desidera conoscerla: dice che cercherà di non perdere neanche una partita al Motovelodromo per vedere giocare la nostra linea d’attacco”.
Piola lo guardò stupito.
“Ma non giochiamo al Filadelfia?”.
Novo abbassò di nuovo il tono della voce e parlò con una smorfia amara.
“Un po’ delle bombe incendiarie del 13 luglio sono arrivate anche al Filadelfia e non si può giocare. Giocheremo al Motovelodromo di Corso Casale finché non centreranno anche quello”.
Il signore anziano aprì la portiera e salutò Piola togliendosi il berretto.
Mentre salivano le scale apparve sulla soglia della villa la figura piccola e affilata di Valletta, col sorriso che il centravanti ricordava d’aver visto in fotografia più volte sul “Popolo d’Italia” e persino, insieme ad Edoardo Agnelli, sulla “Gazzetta dello Sport” quando la Juventus aveva vinto il campionato per cinque anni consecutivi.
L’amministratore delegato si fece incontro ai due ospiti, porse la mano al giocatore e disse: “Sono davvero felice d’incontrarla”.
Piola per un istante ricordò ciò che Blason gli aveva riferito al telefono. Persone informate dicevano che persino Fausto Coppi, il vincitore dell’ultimo giro d’Italia e detentore del record dell’ora, era prigioniero degli inglesi in Africa. Fu allora che comprese appieno che non s’era imbattuto solo nella più importante opportunità per vincere il primo scudetto, ma anche nel miglior salvacondotto per attraversare col minor danno possibile la guerra. Perciò strinse la mano che gli veniva offerta con calore e gratitudine”.