GLIEROIDELCALCIO.COM (Massimo Prati) – Per la rubrica “Libri” abbiamo raggiunto e intervistato un amico de GliEroidelCalcio, Massimo Prati, insegnante, storico e scrittore, autore del libro “I racconti del Grifo – Quando parlare del Genoa è come parlare di Genova”, edito da Urbone.
La raccolta, giunta alla sua seconda edizione, rappresenta una sorta di “amarcord” che propone la città di Genova sotto molteplici sfaccettature: dai personaggi della cultura e dello spettacolo, con cenni su De Andrè, Don Gallo, Govi e Pertini, agli eventi di importanza storica, come il bombardamento da parte della flotta del Re Sole del 1684, la rivolta di Balilla nel 1746 e quella dei portuali nel giugno del 1960, ma anche, e soprattutto, una serie di partite con aneddoti di varie epoche riguardanti il Genoa.
Oggi vi proponiamo un secondo estratto relativo ad un ricordo dell’autore dal titolo Gli Highlanders Rossoblù.
Si ringrazia la casa editrice Urbone Publishing per l’opportunità.
Buona lettura
Il team de GliEroidelCalcio.com
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GLI HIGHLANDERS ROSSOBLÙ
La città vecchia, i vicoli del centro storico. Da quei caruggi uscivano i giovani con le magliette a strisce che, nel giugno del 1960, fecero cadere il governo Tambroni. Tra quei ribelli, portuali allora poco più che ventenni, c’erano anche mio padre e mio zio. Mio zio paterno non l’ho mai conosciuto: morì a 25 anni a causa di un incidente sul lavoro, qualche mese prima della mia nascita, e la sua foto con il suo bel viso da marinaio è esposta per sempre nella Sala della Chiamata del Porto, a fianco a quelle dei suoi sfortunati colleghi, che come lui hanno lasciato la vita su una calata o dentro una stiva.
Ma c’è un’altra foto di quel mio zio che ricordo con emozione. Il 24 giugno del 1990 il quotidiano “Il Lavoro” lanciò un’inchiesta legata a Genova: pubblicò le foto del giugno ’60 e chiese ai genovesi di raccontare e di raccontarsi. Il giorno dopo c’era un intero articolo che parlava di mio zio Rinaldo: un suo vecchio amico d’infanzia e collega l’aveva riconosciuto e ne ricostruiva il profilo: ragazzo divertente e simpatico ma combattivo, cresciuto nel popolare quartiere della “Marina”, nei vicoli di Via Madre di Dio, socio della Compagnia Unica dei portuali, nella sezione San Giorgio, morto qualche anno dopo sui moli di Sampierdarena.
Edoardo Pasteur nei suoi primi anni di attività
Ma io quella storia la conoscevo a memoria, ciò che mi colpì fu invece la foto che accompagnava il servizio: c’erano centinaia di manifestanti in via XX Settembre, l’arteria principale della città, in una giornata di grande tensione, e tutti, ma proprio tutti, guardavano davanti a sé. Mio zio era stato il solo ad accorgersi che qualcuno stava scattando una foto, ed aveva rivolto un sorriso all’obiettivo. Per quanto ne poteva sapere, il fotografo avrebbe potuto anche essere un agente della questura.
Ricordo infatti che mio padre mi raccontava come, nei giorni successivi a quella che fu una vera e propria insurrezione di popolo, la polizia -foto alla mano- girasse per i moli del porto di Genova per identificare i portuali che avevano partecipato alla protesta. Ma, sul momento, mio zio non aveva pensato alle possibili conseguenze di rimanere immortalato in una foto; e nel volto sorridente di quella istantanea erano racchiuse la semplicità e l’ingenuità di quel mio caro parente, caratteristiche che mi fanno rimpiangere ancora di più il fatto di non averlo mai conosciuto.
E, anche a causa di questi profondi legami di sangue, il centro storico della nostra città per me non sarà mai semplicemente un luogo fisico ma sarà, prima di tutto, un luogo elettivo della mente e del cuore, dove si annidano numerosi ricordi, alcuni dolenti, altri assai divertenti. È uno dei luoghi della mia infanzia, periodo della mia vita in cui andavo a trovare mia nonna paterna, che abitava in Via del Molo, a pochi passi da Porta Siberia, nel quartiere vicino all’attuale Acquario di Genova: l’area ridisegnata da Renzo Piano (ma, ovviamente, negli anni Sessanta l’Acquario non esisteva e tutto era completamente diverso). Ed infine, il centro storico della nostra città è anche un posto dove vado ancora più volentieri di questi tempi, ogni volta che mi è possibile, visto che vivo all’estero da molti anni.
Molto è stato scritto e detto sui colori, gli ambienti, gli odori, i sapori e la gente dei vicoli. Canzoni, racconti, film e poesie: da “Via del Campo” di Fabrizio De Andrè a “Genova” di Dino Campana; da “Le Mura di Malapaga” di René Clément ed interpretato da Jean Gabin, a “Il Giorno dello Sciacallo”, di Fred Zinnemann (una trentina di anni prima che il celebre attore hollywoodiano Bruce Willis ne interpretasse il remake: “The Jackal”). Ma non solo uomini, donne e bambini, nel centro storico della nostra città ti parlano anche le pietre, se solo sai ascoltarle ed interpretarne il linguaggio.
Così, nei pressi del bivio tra San Luca e San Siro, all’altezza di un negozio d’abbigliamento, si può notare un bassorilievo, incastrato in un muro, raffigurante un uomo attaccato da un drago. In quella zona, l’urbanizzazione ne ha cancellato ogni segno ma, circa milleseicento anni fa, c’era un pozzo, o forse un rivo (corrispondente all’attuale via Lomellini), che la gente del posto credeva abitato da un basilisco (un essere mitologico, dalle sembianze di drago o di serpente, al quale si attribuivano poteri malefici). Ma San Siro riuscì a scacciare l’orribile bestia ed è per questo che la superstizione dei nostri antenati ha lasciato traccia di sé in un’opera in marmo, su una colonna d’ardesia di una vetrina, che separa i tailleur da gonne e maglioni.
Come si è soliti dire, “la storia la scrivono i vincitori”. Ma la storia può anche essere questione di punti di vista. E, quella di Genova, storia di una gloriosa dominatrice dei mari, sotto altri aspetti avrebbe potuto benissimo anche essere catalogata come una storia corsara, visto che i genovesi, nelle loro frequenti incursioni marine, avevano l’abitudine di depredare ciò che trovavano. È anche per questo che si può passare a Caricamento, presso il lato di Palazzo San Giorgio che dà verso i portici di Sottoripa e vedere le effigi, risalenti al tredicesimo secolo, appartenute in precedenza ad un palazzo nobile di Costantinopoli. Tra l’altro Palazzo San Giorgio, passato alla storia come une delle prime banche nella storia dell’uomo, era usato anche come prigione: lì dentro Marco Polo, catturato durante una battaglia navale, scrisse, anzi dettò “Il Milione” a Rustichello, un prigioniero pisano che con lui divideva la cella. E sul muro di quel palazzo c’è appunto una targa. Targa che giustamente ricorda ai posteri il luogo della creazione di un’opera artistica, fondamentale nella storia della letteratura di viaggio.
E le pietre parlano anche in molti altri luoghi della città antica: passando nel quartiere del Molo, per esempio, e poi ancora tra via di Canneto il Lungo, via San Bernardo ed in via dei Giustiniani si possono trovare, a diversi metri d’altezza, i leoni di San Marco inseriti nelle facciate di chiese e palazzi. Uno si trova addirittura a fianco ad un balcone di un antico palazzo. E passerebbe quasi sicuramente inosservato, a meno che non si cammini col naso all’insù o si sia a conoscenza della sua esistenza. Quei leoni sono i trofei di guerra di due battaglie navali vinte contro l’eterna nemica: Venezia. Le lapidi furono asportate da qualche chiesa o palazzo di una città istriana e portate a Genova in segno di vittoria.
La cerimonia di interramento della Medaglia Olimpica di Giovanni De Pra sotto la Nord, nel 1979
Ma i genovesi si era specializzati anche nel trasporto di qualcosa di più complicato: alcune parti della Chiesa di San Donato sono formate da colonne appartenute ad un tempio romano, di non so dove (forse di Luni, città romana che si trova al confine tra Liguria e Toscana). Un giorno i marinai genovesi arrivarono, smontarono il tempio e se lo portarono a casa. Parlando di Genova e dei vicoli della città, mi viene quasi da dire che le pietre del centro storico sono un po’ come delle conchiglie: se avvicini l’orecchio, sentirai l’eco di onde che arrivano da lontano: dalla Corsica, da Carloforte, da Biserta, dal Bosforo, da Gibilterra, dove ancor oggi c’è una “Genoa House”, dalle Canarie, dal Mar Nero o dal Medio Oriente. È anche per questo che una delle raffigurazioni più antiche di Cristo, “Il Sacro Mandillo” si trova nella chiesa di San Bartolomeo degli Armeni ma, in questo caso, la cosa riguarda un sito fuori dai vicoli, e po’ più in collina. E, detto en passant, quello che è passato alla storia come il “Figlio di Dio” non ha i capelli biondi e gli occhi azzurri come ci hanno spesso mostrato nei quadri in parrocchia ma, com’è logico che sia, ha i tratti tipici mediorientali.
La serata del maggio 2001 in onore di Capitan Signorini
Ho detto che le pietre del centro storico “ti parlano”. A volte ti parlano in senso figurato, come i volti in marmo dal naso mozzato, nel portale di Palazzo Lercari in Strada Nuova, che ricordano una crudele rappresaglia, ordita da un antico membro di quella famiglia, Megollo Lercari, contro una popolazione nemica. Ma altre volte le pietre ti parlano nel vero senso della parola. La scritta in latino di Porta Soprana, costruita ai tempi del Barbarossa, si rivolge direttamente al presunto invasore: “Sono sorvegliata da soldati, circondata da splendide mura e scaccio lontano con il mio valore i dardi nemici. Se pace tu porti, accostati pure a queste porte. Se guerra tu cerchi, triste e battuto ti ritirerai. Il Meridione ed il Ponente, il Settentrione e l’Oriente sanno su quale fremiti di guerre io Genova abbia prevalso”.
Comunque, sia quel che sia, ogni volta che posso me ne vado nei vicoli, mi infilo in in una loggia, in una chiesa o in un palazzo del centro storico e lascio che le cose mi raccontino le loro storie. Ma altre volte, ovviamente, vado nella città vecchia semplicemente per incontrare qualche vecchio compagno di scuola e bere qualcosa.
Un giorno, una quindicina di anni fa, ero in un bar dei caruggi con Robertone, un amico genoano grosso come un armadio che, nonostante sia più prossimo ai cinquanta che ai quarant’anni, è rimasto rissoso ed irascibile come ai tempi di scuola. È uno, come dice lui, a cui “piacciono di più i calci che i baci e che si suona volentieri ad est, ad ovest, a settentrione, a mezzogiorno e anche dopo mezzogiorno, sedicente inventore del manrovescio”. Eravamo oramai in serie C, a pochi giorni dal primo match contro il Pizzighettone ed io ero appena arrivato da Ginevra: stavamo preparando la nostra trasferta. In realtà la nostra prima partita di campionato in serie C avremmo dovuto giocarla a Marassi, ma siccome avevano squalificato il campo del Grifo, a causa di un lancio di razzi durante una precedente partita di Coppa Italia, stavamo mettendoci d’accordo per andare a Torino, che era lo stadio designato per giocare l’incontro in campo neutro.
Ci avviciniamo al bancone, cominciamo a fare due chiacchiere con il barista, e con piacere scopriamo che è genoano anche lui. Poi ordiniamo due boccali di medie chiare. Dopo un po’ entra un doriano, evidentemente cliente abituale, perché incomincia a scherzare di calcio col titolare del bar mostrando una certa confidenza: “Adesso che siete in serie C, vedrai che scomparirete, anzi siete già in via di estinzione”. Io avevo Roberto di fronte a me e vidi il suo volto passare dalla spensieratezza di pochi secondi prima ad una smorfia d’irritazione. Ricordo che tra di me pensai: “Ahi! Adesso scoppia la lite”. Roberto si gira si rivolge al nuovo venuto e gli dice: “A belina, guarda che noi siamo come gli highlanders: siamo eterni. Anzi, gli highlanders, al nostro confronto, sono dei principianti: ci fanno le seghe!”. Fortunatamente la cosa non andò oltre. Insieme al barista, cercai di calmare le acque. E poco dopo, io ed il mio amico Roberto finimmo le birre, pagammo il conto e ce ne andammo senza che ci fossero altri problemi. E qualche giorno dopo, eravamo sugli spalti dell’Olimpico di Torino a vederci un noiosissimo Genoa-Pizzighettone, insieme a migliaia di altri grifoni.
Però quel parallelo, fatto in un bar dei caruggi, tra i genoani e gli highlanders, da quel giorno non mi ha più abbandonato. In effetti, il Genoa e i genoani, con la loro tendenza a trascendere il presente e la realtà contingente, potrebbero essere il soggetto di un’interessante ricerca sociologica o antropologica. A me, appassionato di lingue e linguistica, colpisce anche la terminologia che i grifoni utilizzano parlando di loro stessi. Terminologia, rivelatrice di una visione del mondo, che va appunto aldilà della vita del singolo uomo. I genoani non sono semplici tifosi ma, come ebbe a dire il Professor Franco Scoglio da Lipari, sono “il Popolo Rossoblù”. Il Luigi Ferraris non è lo stadio ma il “Tempio”. E come nella migliore tradizione di racconti popolari, oggetto di studio della moderna narratologia, la storia del Genoa e dei Genoani ha i suoi nemici (al diavolo il “politically correct”, tanto di moda al giorno d’oggi: esistono anche i nemici, non solo i semplici avversari). Ed i nemici del Grifo sono chiamati “ciclisti”, “ravatti”, o “multicolors”. Ma la narrazione non si ferma lì, e così abbiamo la nostra “terra promessa” (cioè “La Stella”), così come abbiamo un sortilegio contro cui lottare (una leggenda narra che nel 1911 un’ortolana lanciò una maledizione contro il Genoa; maledizione che sarebbe dovuta durare cent’anni) […]
Massimo Prati, “I Racconti del Grifo. Quando parlare del Genoa è come parlare di Genova”, seconda edizione, Urbone Publishing, 2020. Libro non illustrato. 306 pagine. 15 euro.