“La Regia di Pippo” è un titolo che può essere letto in due modi. Regia (con l’accento sulla i) in senso cinematografico, visto che Marchioro ha diretto in modo mirabile e mettendoci sempre del suo le squadre allenate. Dal Cesena “all’olandese” che raggiunse la qualificazione per la Coppa Uefa alla delusione Milan, dove forse era troppo avanti per i tempi. Dal successo di Como, dove in due periodi diversi collezionò tre promozioni, tra cui il primo “filotto” consecutivo della storia dalla serie C alla serie A, per arrivare alla prima, storica promozione del Barletta in serie B.
Regia (senza l’accento sulla i) è anche l’affettuoso appellativo con il quale i tifosi chiamano la propria squadra, la Reggiana. E qui Marchioro ha compiuto il suo capolavoro, rimanendo per ben sei anni, raccogliendo una squadra in serie C portandola fino alla massima serie. Dai dirigenti ai giocatori, tutti a distanza di trent’anni, sono ancora legati tra di loro e a Pippo come a un padre o un fratello. C’è chi lo sente ancora tutte le settimane o va o trovarlo nella sua casa a Cesena.
L’effigie di Marchioro è impressa sulle gradinate del vecchio stadio Mirabello, vera roccaforte di quegli anni e difficilmente espugnabile. Un tributo meritato da parte di una città che gli ha voluto e gli vuole bene non solo per i suoi successi sul campo, ma soprattutto come grande uomo.
Era il primo maggio 1994, il giorno della morte di Senna a Imola, che seguimmo, sgomenti dalle gradinate, attraverso il maxi schermo dello stadio.
Raccontò qualche anno dopo Marchioro di quel giorno dove si giocava parte della sua vita e in una città dove non era stato ben voluto: «Sono andato lì consapevole del fatto che quel giorno, in quello stadio, si sarebbe disputata una partita di calcio, niente di più e niente di meno. Vedi, io non ho mai subito più di tanto il condizionamento dell’ambiente, e la cosa è dovuta al retaggio della mia esperienza di calciatore, perché non avevo, sotto quelle spoglie, quel che si dice un buon rapporto con il pubblico. E la cosa, devo riconoscere, alla lunga mi ha giovato. In circostanze simili, mi sono sempre detto “se va male pazienza”, ma quel giorno io ero ottimista».[1]
Il Milan di quegli anni poteva mettere in campo due formazioni egualmente forti, così in quell’occasione schierò tre dei quattro difensori che sarebbero scesi in campo nella finale contro il Barcellona, ovvero Tassotti, Panucci e Galli. Visto che i titolari Costacurta e Baresi erano squalificati per la gara di Atene, Capello intendeva provare possibili alternative. A centrocampo giocò Desailly e in attacco Simone era affiancato da Papin, alla sua ultima partita con la maglia del Milan, quindi desideroso di ben figurare. A proposito del francese, Marchioro rivelò anni dopo, un aneddoto, per sgomberare il campo sul sospetto che il Milan volesse “accomodare” quella partita.
«Uno dei nostri fece uscire la palla all’altezza della nostra panchina. Venne a raccoglierla Papin, accanto ai miei piedi, così cercai, in modo bonario, di stemperarne l’aggressività, visto che pareva indemoniato. Gli dissi: “Papin fai il bravo”. Mi rispose risentito, come se si trattasse di una proposta scellerata e gridò: “No pari! No pari!”. Loro facevano sul serio, questa è la verità»[2]. A distanza di trent’anni mi permetto una battuta: in fondo Papin aveva ragione, non sarebbe finita pari!
Il Milan giocò esattamente come il Parma contro il Piacenza, cioè con l’obiettivo di evitare infortuni oltre che brutte figure e possibili sospetti. Così lo 0-0 sembrava essere il risultato più probabile, che avrebbe lasciato allo spareggio il compito di decidere chi tra Reggiana e Piacenza meritasse di più di disputare un nuovo campionato di serie A.
Racconta sempre Marchioro a proposito di quella giornata: «Accadde un fatto positivo, e così ce la facemmo. Riuscimmo a concludere positivamente un’annata sciagurata, perché sul piano arbitrale subimmo l’inimmaginabile. Io non ti nascondo di avere paventato che il nostro destino fosse già scritto».[3]
Il destino aveva le sembianze di Massimiliano Esposito. «Stravedo per lui» aveva detto Pippo a Genova, in tempi non sospetti, quando Padovano si lamentava di essere sostituito da questo giovane debuttante. Invece Marchioro aveva visto giusto. Esposito realizzò cinque reti nelle ultime gare, decisive, come questa. Un tiro di esterno, palo-gol, poi la corsa a torso nudo sventolando la maglia sotto la curva granata impazzita. Ricordo di essere rotolato per alcuni gradini e di essere rimasto in stato confusionale per alcuni momenti. Mancavano però ancora venti minuti, così Capello pensò di inserire Donadoni e Massaro per pareggiare e non chiudere il campionato con una sconfitta, ma soprattutto per non lasciare sospetti, visto che l’allenatore del Piacenza Cagni abbandonò la gara proprio mentre la Reggiana segnava, inveendo, e scuotendo la testa sconsolato.
Così ci fu il tempo per un ulteriore sussulto. Questa volta fu davvero l’ultimo però. Proprio Massaro, a pochi minuti dal termine, colpì a botta sicura da due passi. Sembrava gol, i tifosi della Reggiana, quando rivedono quelle immagini a distanza di trent’anni, si mettono ancora le mani in faccia, come in quel giorno.
Taffarel compì un prodigio, una parata d’istinto formidabile. Qualcuno, scomodandone una più illustre, sempre di stampo sudamericano, la definì “La mano di Dio”. O forse dell’amico Senna, brasiliano come lui. Di certo mai come quel giorno Taffarel, provò un misto di sensazioni di gioia e tristezza così ravvicinate.
«Un personaggio. Voleva fare il centravanti e faticai non poco a convincerlo che doveva allenarsi come portiere. Brasilianamente refrattario alla disciplina. Una sera si correva, ad un certo punto non lo vedo più: mi allarmo perché temo si sia fatto male. Lo cerco, era quasi buio e lo sorprendo dietro un tappetone. Gli feci un sermoncino e da allora si mise a lavorare»[4] dice di Taffarel il suo preparatore William Vecchi.
E Massaro, quando due mesi più tardi si trovò a Pasadena sul dischetto del rigore con davanti ancora lui, Taffarel, forse ripensò a quella parata miracolosa, facendosi nuovamente ipnotizzare.
“La Reggiana ha saputo osare ed è stata premiata, il Piacenza si è accontentato”[5]
scrissi in una lettera, non c’erano i social all’epoca, al Guerin Sportivo che fu pubblicata nel dibattito che inevitabilmente seguì a quella partita.
Ricordo le parole del compianto Giampiero Galeazzi alla puntata di “90mo Minuto”, che vidi registrato a notte fonda, una volta terminati i festeggiamenti di quel giorno. Dopo avere visto il servizio su Milan-Reggiana, disse testualmente: «Passiamo ora al Cagliari, che si è salvato con le proprie forze». Ne conservo ancora la VHS.
Il Milan in quella stagione, così per ricordare, pareggiò 0-0 in casa contro il Lecce e 2-2 contro l’Udinese, quindi ogni tanto aveva qualche battuta a vuoto, come lo 0-0 a Piacenza nelle prime giornate. Capello, nell’intervista a caldo nel dopo partita respinse al mittente le polemiche: «Si è sempre detto che il Milan ha venticinque titolari, bene oggi c’è n’erano in campo tredici». Marchioro invece ci teneva a rimarcare i meriti dei suoi: «Non vorrei che in tutto questo bailamme si dimenticasse la prestazione della Reggiana. Contro un Milan non stellare ha giocato meglio e ha meritato di vincere, questa è la premessa. Poi diciamo che è successo un miracolo».[6]
Abbandonando le polemiche, devo dire che il finale del film di quel campionato non me lo sarei immaginato così. Forse il perfido regista volle evitarmi la sofferenza di uno spareggio al quale non avrei retto emotivamente. Così al ritorno, sul pullman pensavo già alla stagione seguente. Sarebbe tornato (forse) Futre, avremmo avuto in primavera il nuovo stadio sul quale era in programma in autunno la posa della prima pietra. Anche se la squadra aveva costruito la salvezza in casa, nel vecchio caro, piccolo Mirabello che solamente il Milan aveva violato. Ventiquattro punti dei trentuno complessivi finali (tanti quanto l’Inter, così per dare un’idea) furono conquistati in casa, dove la Reggiana subì solamente sei reti, nessuno aveva fatto meglio sul proprio campo. Dovevamo proprio abbandonare il nostro stadio?
Qualcosa sembrava offuscare quella gioia, già durante il ritorno da Milano. Sembrava impalpabile, sfuggente, ma la sensazione era che difficilmente la Reggiana avrebbe potuto ripetere un campionato simile a questo.
Anche Marchioro l’aveva capito e forse questa volta non voleva commettere lo sesso errore fatto a Como, del quale ho parlato in precedenza.
«Cosa provo dopo vent’anni dall’esonero al Milan? Solo emozione. Il merito di questa impresa va diviso anche con la città»[7] dichiarò il giorno della salvezza. Era un Marchioro serio, che alla domanda sul perché non sorridesse rispose con un vago: «Non lo so, forse non mi capacito ancora di ciò che è successo» ma ad una successiva considerazione circa il segreto di questa squadra, lascò trasparire il possibile addio alla panchina della Reggiana. «La capacità di reagire. Quante volte in questo campionato siamo usciti scornati. Però al martedì si ricaricavano le pile e si ricominciava. Non abbiamo mai subito un tracollo, questa è stata la nostra forza. Anche se, lo confesso, dentro di me credevo che questa fosse l’annata negativa tra quelle passate a Reggio».[8]
Una frase quest’ultima, visto anche il tono dimesso con la quale fu pronunciata, che aveva l’aria di un addio, secondo il giornalista che aveva raccolto la dichiarazione, ma non solo.
[1] Giordano Ciarlini – Reggiana 1992-1996 da Marchioro ad Ancelotti – Prima edizione giugno 1996
[2] Giordano Ciarlini – Reggiana 1992-1996 da Marchioro ad Ancelotti – Prima edizione giugno 1996