In occasione dell’edizione del 1958, la Fifa ha deciso di assegnare l’organizzazione del Mondiale nuovamente a un Paese europeo: la Svezia. Le inascoltate candidature di Cile, Messico e Argentina tengono lontana la Coppa Rimet dall’America Latina per il secondo campionato del mondo consecutivo. Una decisione politica che conferma, ancora una volta, la mancanza di fiducia nei confronti di un continente che ancora fatica a risollevarsi da continue crisi economiche e sociali.
Ciò nonostante, a Rio de Janeiro c’è grande attesa attorno all’evento. La stampa carioca comincia a parlare di «appuntamento con la storia» e la partenza dei brasiliani è annunciata in pompa magna. La Seleção giunge in Scandinavia con il sostegno morale ed economico del nuovo presidente Juscelino Kubitschek, un ex medico ben visto da tutti gli schieramenti in campo. Il suo motto durante le elezioni è stato: «Cinquant’anni in cinque!». Kubitschek ha dunque fretta e voglia di bruciare le tappe. Inoltre interpreta la volontà del Paese di voler finalmente cambiare pagina. La parola d’ordine diventa così «desarrollismo»(sviluppo) e come primo atto è stata avviata la costruzione della metropoli del futuro: Brasilia, la città disegnata dagli architetti Lúcio Costa e Oscar Niemeyer. I due hanno studiato sugli scritti di Le Corbusier e realizzato una profezia del sacerdote italiano Don Bosco a cui, più di settant’anni prima, era apparsa in sogno la nascita di una città ubicata proprio nel punto preciso dove ora sorge la capitaole.
Kubitschek ha dunque finanziato la partenza della nazionale in Europa, ulteriore investimento dettato dalla palpitante atmosfera ottimistica che sta vivendo il Paese. Da qualche tempo, infatti, nelle case dei brasiliani benestanti, stanno facendo la loro comparsa elettrodomestici, televisioni e radio. Transistor e onde medie trasmettono giorno e notte incalzanti musiche al ritmo di samba. Per i palati più esigenti, ci sono le malinconiche note della bossa nova suonata e cantata da Tom Jobim e João Gilberto.
A Rio e a San Paolo si facilita l’ingresso di capitale straniero. Le multinazionali vi costruiscono complessi e filiali distaccate. Presenti Volkswagen e Fiat. Moda e consumismo, già dilaganti in alcuni Paesi europei che stanno vivendo il boom economico, ora seducono anche i brasiliani. Nelle favelas, invece, si continua a morire di fame.
Didi, Vavà, Pelè e Garrincha
Frutto del nuovo sistema economico, in grado di abbracciare le enormi possibilità del mercato mondiale, la Nazionale brasiliana ha il volto giovane e dinamico dei suoi due funamboli: Djalma Santos e Didi. Uno guida la difesa, l’altro il centrocampo.
Didi in Svezia verrà eletto miglior giocatore del Mondiale. Fisico asciutto, collo lungo, sembra quasi un idolo africano, tanto che il suo soprannome è «O Príncipe Etíope». Tra i primi venti migliori giocatori del Novecento, diventerà maestro del passaggio in profondità, della cosiddetta ‘foglia morta’ e anche della punizione calciata d’esterno, con solo tre dita del piede. Facendo di necessità virtù, ha iniziato a calciare così un giorno che si era fratturato l’alluce.
Un ulteriore e decisivo cambio di passo prevede pure l’arrivo di un nuovo uomo in panchina: Vicente Feola. Il saggio e corpulento allenatore paulista, figlio di due salernitani emigrati in Brasile alla fine dell’Ottocento, applica metodi scientifici alla preparazione atletica dei propri giocatori. Insieme a una cosiddetta «Junta médica», durante le qualificazioni, ha passato ai raggi X quasi duecento calciatori brasiliani. Analisi di laboratorio, esami clinici, elettrocardiogramma, misurazione della massa muscolare e così via. Ogni branca della medicina applicata allo sport gli è servita per fare le scelte più giuste. Finanche la psicologia. Per due casi, però, non ha dato retta ai risultati e ha fatto prevalere il buon senso.
Lo psicologo gli ha fatto sapere che dai test di intelligenza effettuati, due giocatori non hanno raggiunto neanche il minimo garantito. Sulla carta avrebbero una psiche simile a quella di un bambino di quattro anni. Non gli affiderebbe neanche la patente di guida. I due giovani reprobi, i quali rispondono al nome Manoel Francisco dos Santos ed Edson Arantes do Nascimento, in distinta compaiono con i nomi di Garrincha e Pelé.
Feola manda così al diavolo lo psicologo e consegna le chiavi della squadra nelle mani dei due funamboli. Saranno loro i protagonisti del Mondiale, e insieme a Didi e Vavá formeranno il trio meraviglia.
A sospingere le loro magie ci sono: i leggendari terzini Nilton e Djalma Santos e anche Zagallo, che arretra da sinistra per dare una mano al centrocampo. In quella formazione gioca anche un giovane ventenne che assomiglia come una goccia d’acqua a Valentino Mazzola. Così da quel momento tutti lo chiamano «Mazola», con una sola zeta. Ma il suo vero nome è José Altafini. Farà fortuna in Italia, talmente tanto da meritarsi anche una citazione nel film L’Audace colpo dei Soliti ignoti (sequel de I soliti ignoti), quando Vittorio Gassman, nei panni del ladro Peppe, interrogato da un maresciallo, si dilunga in un falso giuramento ripetendo a memoria la fantasiosa cronaca giornalistica di un Milan-Roma: «Al quarantunesimo Altafini detto Mazzola ricevuta la sfera di cuoio dallo scattante Danova… aggirava l’accorrente Bernardini e lasciava partire di sinistro una secca staffilata che si insaccava alla convergenza dei pali, niente da fare per il pur vigile Panetti».
La coppa del mondo è nostra
In barba alla superstizione, i tifosi brasiliani, ancor prima che si cominci a giocare, per le strade di Stoccolma cantano: «A Copa do Mundo é nossa, com brasileiro não há quem possa!» («La Coppa del Mondo è nostra, contro un brasiliano non ce n’è per nessuno!»). Effettivamente le assenze di Italia e Uruguay, sommata alla prematura eliminazione dell’Argentina, rimuovono le eventuali preoccupazioni. In più, gli undici messi in campo da Feola sono davvero sensazionali. Mettono in fila tutte: Austria, Unione Sovietica e Galles. Paga dazio ai brasiliani persino la sorprendente Francia, che in attacco si affida ai (13) gol del capocannoniere franco-marocchino Just Fontaine. Cinque a due il risultato finale.
Il 29 giugno al Råsundastadion di Stoccolma la finalissima contro i padroni di casa svedesi. Dopo novanta minuti, i verdeoro replicano il risultato della semifinale e sconfiggono la Svezia per 5-2. Le immagini della fantastica doppietta del diciassettenne Pelé e le sue commoventi lacrime di gioia, fanno il giro del mondo. Il Brasile, per la prima volta nella sua storia, è finalmente campione.
Capitan Bellini, incalzato da giornalisti e fotografi internazionali, alza la Coppa sulla testa per permettere a tutti di vederla. Diventerà un gesto universale replicato in ogni torneo.
Gli anni d’oro
Anche se la fascia di capitano ce l’ha al braccio un bianco, il resto dei talenti sono neri e meticci. Lo sottolinea il giorno dopo Mário Filho. Il giornalista brasiliano dà a loro il merito di aver simbolicamente «completato il lavoro della Principessa Isabella»: l’abolizione della schiavitù. «Non solo siamo geniali, non solo siamo acrobati, non solo siamo artisti circensi: siamo campioni del mondo», concluderà così il suo editoriale.
«Didì-Vavá-Pelé, i tre giocolier di cioccolata del verde regno del caffè», come cantava il Quartetto Cetra, simboleggiano infatti l’ascesa della breve stagione democratica brasiliana degli «anos dourados», gli anni d’oro, e favoriscono la nascita del mito globale della nazionale brasiliana.
L’immagine gioiosa, festante e vincente del Brasile, verrà confermata quattro anni dopo dal secondo successo consecutivo ai Mondiali cileni del 1962 e dalla fortunata canzone Garota de Ipanema. Opera di due scioperati che rispondono al nome di Vinícius de Moraes e Antônio Carlos Jobim, il pezzo è stata ispirato da una ragazza che ogni giorno entrava nel bar dove i due passano intere giornate a bere e a parlare. Compra le sigarette per la madre e poi va via. Si chiama Heloísa Pinheiro e inconsapevolmente diventa la protagonista della colonna sonora che sarà il biglietto da visita di tutto il Brasile, non solo della spiaggia di Ipanema. Da grande Heloísa diventerà una famosa modella, aprirà una boutique con lo stesso nome della canzone e comparirà sulla copertina dell’edizione brasiliana di «Playboy».
Calciatori e i musicisti diventano gli uomini insigniti del merito di aver generato un’ideologia nazionale. Gli fanno solo da sfondo le inestimabili ricchezze naturali, le bellezze paesaggistiche e il carnevale come festa tradizionale. Tuttavia, in mancanza di un passato glorioso cui rifarsi, e in assenza di eventi o nomi altisonanti di personaggi storici, o di una radice ideale solida, anche una semplice sconfitta sportiva sarà sufficiente a mandare in crisi d’identità un’intera nazione. Proprio come era accaduto nel 1950.
Nato a Cosenza, classe 1985, è storico, regista cinematografico e scrittore. Autore di diversi saggi e documentari sulla storia dello sport, è anche membro della Siss e dell'Anac. Da qualche anno lavora come supplente a Torino e ha da poco fondato la propria casa di produzione.