GLIEROIDELCALCIO.COM (Lorenzo Tassi) – FOOTBALL COMES HOME. Nel 1966 il calcio torna a casa, in Inghilterra, dove Ebenezer Cobb Morley ha dato vita, nel 1863, al football per come lo intendiamo noi oggi. Gli inglesi organizzano il Campionato del mondo di calcio coscienti di essere ben attrezzati per vincerlo. La presunzione di chi non ha partecipato volontariamente ai primi tre mondiali della storia (quelli del ’30, del ’34 e del ’38) ha ceduto negli anni ad un ammorbidimento da parte della Football Association che intende organizzare il tutto nel miglior modo possibile. Gli stadi inglesi sono pronti ad ospitare e a sorprendere le nazionali partecipanti. D’altronde la liturgica atmosfera degli impianti oltre manica affascina ancora oggi; gli spalti attaccati al campo, così da limare la distanza sia fisica sia psicologia tra tifoseria e calciatore. Tutti coinvolti in una sorta di cerimoniale, nessuno escluso. Il primo ad accorgersi di questa atmosfera straordinaria ed altresì ossequiosa è il capitano argentino Rattìn “el Rata”, il quale dopo essere stato espulso nel quarto di finale tra Inghilterra e Argentina, intraprende un lento ed interminabile giro di campo, nel quale i tifosi lanciano lattine e barrette di cioccolato, ma non si azzardano a mettere un piede nel rettangolo di gioco. “In Sudamerica, non sarei uscito vivo dal campo” dirà tempo dopo el Rata. Ma quell’episodio non è solamente legato alla ligia attitudine degli inglesi nei loro stadi, ma ad un fatto epocale che ha cambiato la regolamentazione dello sport più popolare al mondo. Rattìn si agita dal primo minuto di gioco, vuole parlare con l’arbitro, il quale gli indicherà la via d’uscita poco dopo. Il direttore di gara, il tedesco Kreitlein (appositamente scelto per arbitrare l’Inghilterra, ed il suo collega inglese per dirigere Germania-Uruguay…ma lasciamo perdere queste strane coincidenze), non capisce una sola parola pronunciata dal capitano dell’Albiceleste. Il giocatore viene invitato ad uscire e non lo farà per ben otto minuti. Ken Aston, responsabile degli arbitri Fifa, è in tribuna ad assistere sconcertato. Una scintilla, un barlume. Aston decide di inventare un linguaggio globale utilizzabile nel rettangolo verde di gioco, lì dove le lingue parlate non sono arrivate: il cartellino giallo ed il cartellino rosso. Ma solo nei mondiali 1970 in Messico assisteremo alla realizzazione di questa idea.
È il primo mondiale dove il ct non detiene il solo onere di gestire i calciatori, bensì, di sceglierli. Alf Ramsey, allenatore dell’Inghilterra fu colui che diede il via a questa piccola seppur importante rivoluzione. Lo stesso Ramsey del “Vinceremo il Mondiale” o del “quando si tratta di festeggiare, nessuno si permetta di issarmi sulle sue spalle, non guardatemi neppure”. Un uomo scontroso che ha vissuto gli orrori delle bombe lanciate dalla Lutwaffe sul suolo britannico, un uomo tenace affiancato da giocatori altrettanto testardi e talvolta presuntuosi. Banks, Moore, Bobby Charlton, Nobby Stiles (il più arrogante e sboccato)… calciatori forti e, nella loro superbia, molto intelligenti. Questa gente qui vincerà il mondiale in patria, in una partita assurda con la Germania di un giovane Kaiser Franz Beckenbauer. Ah, Kaiser non solo per la caratura da leader, bensì, per la netta somiglianza a Ludwig II di Baviera.
Secondo i tedeschi, la doppietta di Hurst nei tempi supplementari, che ha garantito la vittoria agli inglesi per 4 a 2, non deve essere convalidata: il primo gol è contraddistinto da un errore di valutazione dell’arbitro (che stavolta non è né inglese né tedesco) e del guardalinee che vedono la palla dentro ma in realtà batte sulla linea alzando bianca polvere. Il secondo è da annullare per la presenza di tre tifosi in campo, non inclini agli standard inglesi. Forse, per una volta, non hanno tutti i torti. I giornali tedeschi, l’indomani mattina, titoleranno: “Abbiamo perso la finale 2-2”. È il mondiale di Pickles, il cane che ritrovò la Coppa Rimet rubata pochi giorni prima nonostante la security. È il mondiale dell’Inghilterra che vince e convince…convince il mondo di avere una grande squadra, ma non i tedeschi, e tantomeno gli uruguagi e gli argentini che si sono legati al dito la scelta oculata dei due arbitri nei quarti di finale, definendo il fatto “el robo del siglo”, il furto del secolo. In effetti, i due direttori di gara si sono contraddistinti per errori grossolani ed in qualche modo “indirizzati” verso un finale diverso.
C’è il Portogallo di Eusebio, il Brasile di Garrincha e Pelè (l’ultimo mondiale che giocheranno insieme). C’è la Russia, o meglio l’Urss, priva del suo più grande talento calcistico mai espresso completamente. Tale Streltsov, condannato dal KGB ai lavori forzati nei Gulag per otto anni. Motivazione? Accuse di sproloquio nei confronti di una giovane donna russa. Ma per alcuni, i motivi sono rappresentati dal rifiuto del giocatore alle proposte del Cska (squadra del partito) e a quelle della Dinamo (vicina al KGB). Tornerà logorato e indebolito nel 1965 e giocherà nella Torpedo vincendo il campionato, ma per lui niente mondiale. Infine, parte del mondiale è anche nostro. Ma sarà segnato da una sconfitta storica, che ancora oggi si dimostra inspiegabile e favolistica.
1966, ITALIA. Nel 1966 l’Occidente sonnecchia in vista del grande focolare che si spargerà piano piano nell’arco di due anni. Ma c’è chi guarderà il ’68 come un qualcosa di ripetitivo. L’Olanda ha trascorso gran parte del 1965 dietro i moti rivoluzionari. I giovani di ogni città, paese e contrada si riuniscono spesso in Piazza Spui ad Amsterdam per manifestare il proprio dissenso contro le vecchie generazioni. La polizia interviene con manganelli, lacrimogeni ed arresti. Ma più aumentano le percosse, più giovani giungono a protestare. Così il governo olandese prende una decisione epocale: è meglio sedare i manifestanti con il dialogo, che con la forza. Se oggi Amsterdam è la città più libera del mondo, lo si deve anche a quella disposizione.
Gli olandesi, inoltre, sono estremamente pratici: hanno sconfitto il mare che mangiava le loro terre. La stessa praticità che ritroveremo nel calcio oranje all’inizio dei ’70, un modo di giocare che rivoluzionerà il calcio e lo renderà moderno grazie anche a due personaggi, un catalizzatore ed il suo allenatore. Ma questa è un’altra storia.
Praticità…termine che gli italiani hanno sempre ritenuto poco utile. Se gli olandesi hanno debellato le acque, noi non ci siamo fatti sommergere. Il 4 novembre ’66 l’Arno esonda, portando via un pezzo di Firenze insieme alle sue biblioteche e musei. I primi “capelloni” si adoperano per salvare il salvabile meritando il dovuto rispetto da parte dei “grandi”.
Franca Viola viene liberata e non accetta il matrimonio riparatore con il suo aggressore. Diviene simbolo di crescita civile, nonché paladina dell’emancipazione femminile, stessa emancipazione messa in evidenza dal giornalino scolastico “La Zanzara” che oltre a parlare di sesso, si concentra sul ruolo della donna nella società dell’epoca. Il giornalino viene fatto chiudere. Il messaggio di pace di Paolo VI non ha alcun riscontro da parte di chi si crogiola nel lanciare napalm in Vietnam, o da parte di chi mette in piedi una dittatura in Cina.
E la nazionale? Gli azzurri partono con entusiasmo verso le coste della Perfida Albione. E forse troppa euforia non è mai un buon segnale. Giocatori forti ce ne sono: Facchetti, Albertosi, Bulgarelli, Burgnich, Sandro Mazzola, Pascutti, Rivera, il povero Gigi Meroni…tutti guidati da Edmondo “Mondino” Fabbri. Il girone con Cile, Urss e Corea del Nord sembra agevole, o quantomeno il più facile. D’altronde se riesci ad evitare Brasile, Uruguay, Germania Ovest ed Inghilterra, puoi benissimo ritenerlo tale.
Tempo prima del mondiale, nel giorno in cui esce l’elenco dei convocati, tutti notano due assenze rumorose. Picchi e Corso non faranno parte del gruppo. L’Italia intera s’interroga. Solo due personaggi hanno la risposta: il nostro Mondino Fabbri e il grande presidente dell’Inter Angelo Moratti. Quest’ultimo stanco di Helenio Herrera sulla panchina della Beneamata, aveva optato per Fabbri, convinto che lo spagnolo procedesse in direzione iberica dopo aver guidato la sua nazionale nel 1962. Le cose non andarono come previsto. Herrera restò all’Inter e nel ’66 Fabbri, prima sedotto e poi abbandonato da Moratti, per ripicca non convoca in nazionale parecchi giocatori nerazzurri. Prediligerà il blocco Bologna.
Italia-Cile 2 a 0. Non cominciamo male. Il primo gol, firmato Grande Inter, lo segna Sandrino Mazzola su assist di Facchetti. Sorriso a denti stretti per Fabbri. Il secondo è un’azione personale di Barison a due minuti dal novantesimo. Nel 1962 perdemmo contro La Roja (perché la nazionale cilena è la sola e unica Roja) in una partita in cui Mario David viene steso da un pugno dell’ex pugile Leonel Sanchez, nella famosa “Battaglia di Santiago”. L’arbitro non vide nulla. Ah, l’arbitro era Ken Aston. Ricordate? Cartellino giallo e cartellino rosso. Nel secondo match perdiamo contro l’Unione Sovietica, 1 a 0 gol di Cislenko. Giochiamo male, senza equilibrio. Nell’altra partita, quella tra Cile e Corea del Nord, al ridosso del novantesimo gli asiatici pareggiano. Finisce 1 a 1. Risultato buono per noi. Contro la Corea basta un pareggio per qualificarsi ai quarti.
I coreani rischiano sino all’ultimo di non partecipare all’ottava Coppa del Mondo. Gli inglesi non riconoscono quello Stato. Ma attraverso escamotage e parecchie telefonate, vengono infine accettati. Viene loro assegnato il peggior campo d’allenamento d’Inghilterra, non potranno giocare a Londra e non potranno sventolare la loro bandiera in giro per il paese. Altro? ah si, vengono mandati nei posti più lontani possibili dalla capitale, Middlesborough e Sunderland, non certo al passo coi tempi come Londra. Eppure dopo lo scetticismo iniziale, i coreani vengono ben accolti dagli inglesi perché rispettosi, educati e bendisposti all’impegno. D’altronde la discrezione e l’osservanza delle regole sono due punti cardine del mondo asiatico.
Il loro allenamento quotidiano rassomiglia più ad un lavoro forzato: mattina ginnastica e sollevamento pesi, pomeriggio individuale, sprint, massaggi e cena. Dopo cena palestra e partitella senza ruoli fissi per novanta minuti di seguito senza pause. Se c’è tempo, prima di coricarsi, sei scatti sui cento metri. Inutile dire che arrivano fisicamente meglio di tutti gli altri. Inizia la partita con l’Italia che sottovaluta di gran lunga la Corea. A metà primo tempo, Bulgarelli esce per un fastidio al ginocchio. L’Italia resta in dieci. Sì, perché l’unico sostituto non è che il secondo portiere, secondo le regole dell’epoca. L’Italia ha tante palle gol, almeno quattro. Ma ad un certo punto, una palla arriva in area di rigore italiana, Guarneri cerca un anticipo ma non è efficace. Arriva Pak Doo-Ik che incrocia e segna. Pak Doo-Ik, un professore di ginnastica con ruolo nell’esercito, e non dentista come nelle leggende. 1 a 0 Corea del Nord. Si distingue un altro giocatore, un difensore, lo stesso che ha firmato il gol del pareggio contro il Cile: tale Shin. È alto 1.73 ma le prende tutte di testa. Secondo i giocatori azzurri, Shin esegue la “cavallina” ovvero fa leva sulle spalle del compagno per issarsi e colpire la palla di testa come nel più classico dei film o cartoni animati asiatici. L’arbitro dovrebbe fischiare, non è un comportamento leale, ma il signor Schwinte, francese, non se ne accorge. La partita con il passare del tempo diviene sempre più un incubo, l’Italia, inebetita, non riesce a reagire. È finita. L’Italia è fuori. Basta il gol di Pak Doo-Ik.
La Corea del Nord si aggiudica i quarti contro il Portogallo. Va in vantaggio e ne fa altri due. Ma quando la “Pantera Nera” si risveglia dal lungo torpore, ne fa quattro. Finirà 5 a 3. “I coreani arrivavano in quattro o in cinque sul pallone” dirà Gigi Riva che assistette alla partita appena ventiduenne “eravamo impotenti, succubi del loro ritmo. Gli inglesi gridavano di gioia. Entrai negli spogliatoi e si stavano già facendo i piani per rientrare di nascosto in Italia”. Edmondo Fabbri voleva tornare di nascosto da solo, ma non gli venne concesso. Mondino aveva cominciato bene la sua carriera azzurra ma nell’imminenza del mondiale fra pressioni giornalistiche e fissazioni personali (l’astio verso Herrera ed i giocatori dell’Inter), perse lucidità e come tutti gli italiani sottovalutò il pericolo Corea. Per molto tempo, il nome di Pak Doo-Ik rimandò alla più grande sconfitta della nazionale e solo un’altra Corea, stavolta del Sud, trentasei anni dopo, riuscì ad eguagliare tale amarezza. Ma in quel caso, non fu colpa nostra.
Classe 1995, laureando in Scienze della Comunicazione. Appassionato di storia e cultura calcistica. Per GliEroidelCalcio.com da lettore a collaboratore...