Dare un nome alle cose serve a riconoscerle ma anche (forse di più) a riconoscersi. Nel caso della toponomastica c’è da dire che l’esigenza di attribuire nomi ai luoghi è una prerogativa arcaica della specie umana, e la sua pratica risale ai tempi più remoti. Un gesto pagano, forse anche apotropaico, che vanta quindi un’origine fortemente antropologica, cominciata quando le comunità hanno sentito l’esigenza di dare un nome ai posti nei quali vivevano per riconoscerli e riconoscersi nel nome di questi. Oltre che “pe capisse mejo tutti quanti”. Per noi che viviamo in città la toponomastica moderna è anche nel nome delle piazze, dei vicoli, delle vie. Ed è bello perché ogni lapide, invece che essere la succursale della tomba di un morto, nasconde invece la possibilità di scoprire una storia, una favola, o addirittura una leggenda; ed è così che ogni nome ci racconta qualcosa.
[…] Oggi invece è in voga una nuova attività, e si tratta di una specie di sciacallaggio, che consiste nel togliere a un luogo della città il proprio nome per dargliene un altro, che non c’entra niente. Una ri-toponomastica. Come nel caso della recente proposta di intestare lo Stadio Olimpico a Paolo Rossi, iniziativa che non tiene in alcun modo conto di ciò che questo luogo rappresenta per la popolazione di Roma, a quali riti e a quali cerimonie ha assistito, quali culti ha ospitato; intestare l’Olimpico a Rossi è sconsacrare un luogo, è ignorare il mito che lo abita, è offendere gli dei delle nostre famiglie. Se proprio non riuscite a sta fermi e volete per forza cambiare le cose, cercate almeno di cambiarle in meglio. Lo stadio si chiama così, e se non trovate un nome più bello, per noi va ancora bene chiamarlo l’Olimpico […]
Repubblica – Sandro Bonvissuto