Manlio Scopigno: Filosofia e Pallone
Al giorno d’oggi è lecito affermare che il gioco del calcio sia lo sport nazionale per eccellenza nella maggior parte dei paesi del mondo.
In questa sua ecumenicità esso è coinvolgente in tutti i suoi aspetti, sia meramente sportivi, sia ingenerando tutto un indotto di pensiero, a formarsi quasi delle correnti filosofiche ispirate a questo o quel principio di gioco.
Manlio Scopigno giocatore
Del resto, se la filosofia si pone domande sul mondo, indagando il senso dell’esistenza umana, a maggior ragione può comprendere un campo di studi come il calcio, che è metafora stessa della vita.
Messa in questo modo, sembra abbastanza evidente anche che tra i depositari di queste “correnti filosofiche” ci siano gli allenatori, coloro che sono chiamati a dirigere gruppi di uomini, a far loro esprimere idee di calcio.
La Storia può portarci molteplici esempi di quelli che sono diventati i “guru delle panchine”, per non andare troppo indietro nel tempo basta citare Sepp Guardiola e il suo modo di intendere calcio partendo dal tiki – taka, o Jürgen Klopp e il suo gegenpressing, avendo entrambi come matrice comune sempre l’Ajax di Amsterdam degli anni Settanta, guidato da un altro “santone”, Rinus Michels.
C’è stato, però, in passato, chi filosofo si è dimostrato veramente, non tanto e non solo per quanto fatto vedere in campo dalle sue squadre, quanto proprio per il suo modo di vivere, tanto da essere passato alla storia proprio con il soprannome di filosofo: Manlio Scopigno.
Nato a Paularo, un paese di vallata nel friulano, si trasferì con la famiglia a Rieti dove originava il padre, e la se vogliamo strana mistura di indole friulana e laziale generò in lui una natura scanzonata, al limite dell’indolenza, ma solo in apparenza, improntata più che altro sull’estrosità, come si evidenziò nel suo modo di giocare.
Iniziò nella sua Rieti a calcare i campi professionistici giocando terzino, passando poi per Salernitana, Napoli e Catanzaro, dove chiuse anzitempo la carriera a causa di un infortunio, ma distinguendosi per l’interpretazione del ruolo: non i rudi e arcigni difensori che presidiavano, anche a suon di botte, l’area di rigore, ma giocando con tratto elegante, cercando l’anticipo più che lo scontro, giocare la palla più che spazzare l’area.
L’inizio della carriera di allenatore è ancora a Rieti e prospetta un onesto barcamenarsi nelle serie minori, da buon mestierante.
La prima svolta avvenne quando subentrò alla guida del Lanerossi Vicenza prendendo il posto dell’amico Roberto Lerici di cui era secondo e che ne caldeggiò l’investitura, con buoni risultati nelle quattro stagioni della sua gestione che gli valsero poi il passaggio fugace a Bologna e infine l’approdo a Cagliari.
È nell’isola che il Destino decide di scrivere il nome di Scopigno nei libri di storia.
Il feeling con gli isolani scatta subito, probabilmente favorito dall’indole “montanara” viva in lui per le sue origini e che ben si accomunava a quella dei sardi, il suo modo scanzonato di gestire la squadra, tra bevute, lunghe partite a carte e fumo a volontà, fece presa sui giocatori, un po’ meno sulla società, presieduta da Enrico Rocca, irritata per quei suoi atteggiamenti al limite dell’irriverenza.
Capitò, infatti, che dopo il buon sesto posto della prima stagione, il Cagliari andò a giocare negli Stati Uniti, ma non per la classica tournée di inizio stagione, come capita ora.
Il calcio statunitense in quel periodo era in una fase meno che embrionale, interessava soprattutto gli immigrati.
Nel 1967 organizzò una parvenza di campionato la U. S. A. (United Soccer Association) che, non trovando la disponibilità delle squadre locali causa problematiche di sigle e di diritti televisivi, ingaggiò intere squadre europee e sudamericane, che avrebbero gareggiato con i colori delle franchigie locali.
Il Cagliari, invitato, divenne perciò Chicago Mustangs, si comportò anche bene arrivando terzo, ma non si concluse bene per Scopigno: a un ricevimento ufficiale all’ambasciata a Washington, non riuscendo a contenere un impellente bisogno fisiologico, in barba a protocollo, educazione e buone maniere, pensò bene di espletarlo nel cortile dell’ambasciata stessa, gesto dissacrante che però gli valse l’esonero.
La separazione, però, non durò a lungo anche per le indecisioni dell’Inter, che lo aveva ingaggiato e lo pagava in attesa di metterlo al posto del “Mago” Helenio Herrera, stanca a sua volta dei capricci di questo, ma che alla fine si tenne il secondo: la “magia” vinse sulla “filosofia”.
Poco male, però, perché nella stagione 1968/1969 Scopigno era di nuovo alla guida degli isolani, e compì il suo capolavoro.
Ormai la squadra era formata, Enrico Albertosi, Pierluigi Cera, Nené, Roberto Boninsegna ma, soprattutto, Gigi Riva costituivano l’ossatura dell’undici che avrebbe conteso il titolo alla Fiorentina in un inedito duello che per una volta non vide protagonisti gli squadroni del Nord, con la vittoria che avrebbe arriso alla Viola allenata da Bruno Pesaola.
Chi pensava che quella situazione sarebbe stata solo casuale, dovette ricredersi la stagione successiva: il gruppo sardo era cementato proprio intorno a Scopigno che per i suoi giocatori più che l’allenatore era un compagno con cui condividere tutto, cicchetti e partite a poker compresi, tirando tardi, ma andando poi in campo a vincere.
Non solo questo, però, perché oltre che le prestazioni dei giocatori e i gol di Riva, ci furono anche le intuizioni tattiche dello stesso Scopigno che, apportando qualche modifica al “catenaccio” in voga all’epoca, rese ancora più efficace il gioco sardo fino a mettere in riga tutte le concorrenti, nell’ordine di classifica Inter, Juventus e Milan, e cucendo per la prima e finora unica volta nella storia il triangolo tricolore al fianco dei quattro mori.
Fu il punto più alto della carriera di Scopigno, mai più ripetuto, che si dipanò per altre due buone stagioni a Cagliari, un passaggio sfortunato alla Roma, la chiusura del cerchio a Vicenza, dimissionario a seguito di una malattia e mai più chiamato ad allenare, quasi a voler chiudere in un’ampolla perenne quell’unico, accecante, lampo che era valso uno scudetto incredibile.
Emblematico quello che ha rappresentato la parabola di Manlio Scopigno: nel corso di un’esistenza umana ci sono momenti, attimi, istantanee che si fissano indelebili sulla pellicola della vita. In quella di uno sportivo, ovviamente, i momenti topici sono legati alle vittorie e alle grandi imprese, ma talvolta gli uomini che ne sono protagonisti non cercano la gloria, sono trovati da essa, quasi la sbeffeggiano vivendola con leggerezza, inconsapevolezza, mantenendosi distaccati, esterni a sé stessi, come un Diogene di Sinope che con la sua lanterna va alla ricerca della verità, trovandola senza compiacersene.
Questo era Manlio Scopigno, il Filosofo.