IOGIOCOPULITO.IT (Francesco Cavallini) – Compie oggi 54 anni Marco van Basten, il fenomenale quanto sfortunato giocatore olandese che abbiamo avuto l’onore di poter ammirare sui nostri campi con la maglia rossonera. Ecco il nostro tributo al Cigno di Utrecht.
Oggi raccontiamo una fiaba. Che essendo una fiaba, e non una favola, forse un lieto fine non ce l’ha. Le fiabe stanno lì per farci immedesimare nei personaggi, per farci capire com’è che va la vita, per farci la morale. Per dimostrare che non è come dicono le favole, che non vivono sempre tutti felici e contenti, che l’esistenza è fatta di gioia ma anche di dolore.
Già, il dolore, l’eterno compagno. A volte un semplice fastidio, altre una sensazione lancinante, che non ti permette neanche di poggiare i piedi a terra. E per te, che con i piedi ci lavori, ci vivi e ci dipingi calcio, non può essere un problema come un altro. E allora ti fermi, una, due, tre, quattro volte, mesi che sommati fanno anni, giorni che nessuno ridarà mai a te e al calcio. È un punto delicato la caviglia, anche per chi come te è leggiadro, leggero, che quando hai il pallone tra i piedi sembri danzare più che correre. Il tuo fisico dinoccolato trae tutti in inganno, dovresti essere sgraziato come un anatroccolo ed invece sei bello e coordinato come un cigno. Ma il cigno è animale fragile e le cui ali a volte si spezzano. Eppure lotta, non si limita a sopravvivere, ma si staglia nel cielo prima di gettarsi in picchiata e, tra una giravolta e l’altra, dare un’occhiata al mondo mentre lui, lì in alto, vola.
Vola, come quella palla che arriva sul tuo piede quasi senza pretese, in un pomeriggio di giugno di tanti anni fa. Carina Monaco di Baviera, ma non ci vivrei. Questo probabilmente pensi, tu che sei olandese e che come tanti connazionali della Germania non puoi avere una buona opinione, storica o calcistica che sia. Il sogno di quando eri bambino si era infranto lì, in quello stadio. Un sogno nato in un minuto e mezzo e terminato in novanta. Eppure tu, come tutti i tuoi coetanei, te la ricordi quella sequela di passaggi, che aveva portato al rigore dell’uno a zero. La sai a memoria, come le filastrocche che si cantano ai bambini per farli addormentare. E la ripeti a te stesso mentre il pallone dolcemente scende, per darti il coraggio di tentare. Di prendere per i capelli l’incubo di un’altra rimonta e di lasciartelo alle spalle.
Quando impatta con il tuo piede destro, la sfera quasi esplode. Dentro il tuo calcio c’è tutto, c’è la storia calcistica passata, presente e futura di una nazione intera. C’è l’inutile gol di Neeskensdi quattordici anni prima, c’è l’urlo di Resenbrink strozzato da un palo argentino, c’è, non puoi ancora saperlo ma di sicuro c’è, il pianto disperato di Sneijder su un prato verde di Johannesburg. C’è la rabbia degli eterni perdenti, di quelli che per ottenere il minimo devono fare l’impossibile. Come impossibile è la posizione da cui tiri, troppo defilata per combinare davvero qualcosa. Ma tu lo senti che è il momento giusto, l’attimo in cui tutti gli astri possibili si allineano e calci, più forte di quanto tu abbia mai fatto. Ed il pallone ruggisce, proprio come il leone che hai sul petto. Almeno per una volta, NOI. POSSIAMO. VINCERE.
Perché vincere è stato il tuo mestiere. E non da semplice comprimario. Tu sei uno di quelli che i bambini vogliono imitare, quello che anche le nonne che non sanno neanche come è fatto un pallone hanno sentito nominare almeno una volta, sei il calciatore più forte d’Europa. Anzi, forse del mondo intero. In una eterna ed animalesca lotta per la supremazia calcistica, il cigno venuto dalla terra strappata al mare si scontra con il torello della pampa, una, dieci, cento, mille volte. E noi tutti lì intorno a guardare, a chiederci chi dei due stavolta prevarrà sull’altro, chi trascinerà i suoi alla vittoria, chi potrà alzare le braccia al cielo mentre l’altro trattiene le lacrime.
E vengono in mente le tue di lacrime, ma anche le mie, le nostre, le lacrime di tutti quelli che in vita loro hanno messo anche solo un briciolo di cuore nel vedere un pallone rotolare su un campo di calcio, quando ci annunci che è finita. Che la caviglia non regge, che non è possibile neanche provare. Che gli ultimi due anni di calvario sono stati totalmente inutili. Che a trent’anni appena compiuti uno dei migliori calciatori di tutti i tempi deve appendere gli scarpini al chiodo. Che il cigno non volerà più. È così che nasce il vuoto, dalla privazione improvvisa e irreparabile di un principio, dalla coscienza che qualcosa c’era e che ora, di colpo, non tornerà più. La maglia numero nove, le coppe, persino i Palloni d’Oro perdono di significato quando diventano passato. Ogni ricordo ferisce il cuore e lascia lo stomaco sottosopra.
Sottosopra proprio come tu hai visto il mondo una sera di novembre. È il 1992, quella stramaledetta caviglia fa male ormai da tanto, eppure sei in campo. E non si nota che stai soffrendo, non si può neanche immaginare che sia così, perché tra quelle zolle, come al solito, ti muovi leggero ma letale, quasi più come un felino che come un cigno. Ma le ali ce le hai, lo sai tu e lo sappiamo noi, che non ci meravigliamo quindi quando ti stacchi da terra e decidi che l’unico modo possibile per colpire quel pallone arrivato al limite dell’area è proprio quello lì, la rovesciata. E rischi, perché le caviglie malandate sono due. Certo, la sinistra più della destra, ma anche l’altra ti ha fatto soffrire. Come ti ha fatto soffrire il ginocchio. Il tuo corpo te lo ha gridato per tutta la tua carriera, Marco Van Basten, non sei fatto per volare. Ma come il famoso calabrone, tu non lo sai e voli lo stesso.
O forse lo sai, convivi con la coscienza della tua fragilità, ma non per questo ti tiri indietro. E allora salti, contrasti, dribbli, eviti interventi sciagurati, ti getti a capofitto in una selva di gambe, tutto per poter alzare le braccia al cielo e sentire l’urlo della folla, per sapere che anche questa volta ce l’hai fatta, che la tua forza ha avuto di nuovo la meglio sulla sfortuna e sul destino. I tuoi antenati hanno lottato contro la marea per non vedersi portare via il futuro. Tu, nel tuo piccolo, quella lotta la ripeti ogni giorno, per dimostrare a te stesso e agli altri che l’unico limite è nella propria testa.
Con la testa tu ci segni, e tanto. Ma ci giochi anche. E non potrebbe essere altrimenti, dato che il tuo Maestro te lo ha inculcato sin da quando sei arrivato all’Ajax. L’importante non è correre tanto, ma correre bene. Probabilmente te l’ha anche sussurrato quando, nell’ormai lontano 1981, ti ha abbracciato e ti ha lasciato il posto in campo nel giorno del tuo esordio tra i grandi. Chissà quante volte te li sei ripetuti in testa quei piccoli grandi mantra. Il pallone è uno solo, ed è meglio che ce lo abbia tu. Se cominci a correre un attimo prima degli altri sembrerai più veloce. E soprattutto, devi essere in grado di capire in anticipo cosa sta per accadere. Solo così potrai essere sempre al posto giusto nel momento giusto.
Trecento volte più una, ecco quante volte ti sei trovato esattamente dove dovevi essere. Ma è ingeneroso metterla così, perché chissà in quanti casi il momento giusto te lo sei creato tu. L’espressione “fiuto del gol” ti si addice, certo, ma non può spiegare in toto che calciatore eri. L’attaccante totale, dicono. Forse sì, forse no. Per i canoni odierni saresti un nove classico, difficile immaginarti a rincorrere l’avversario nella tua metà campo. Eppure nel tuo modo di intendere il calcio, la giocata non è mai fine a se stessa, ma votata ad un risultato. E se una volta ricevuta la sfera è difficile (ma non impossibile) vederti passarla a un compagno, beh, non è per egoismo, ma semplicemente perché, novantanove volte su cento, quel risultato lo ottieni tu.
E di risultati importanti è costellata la tua carriera. Viene da chiedersi quale altro obiettivo avresti potuto raggiungere se il tuo corpo ti avesse coadiuvato a dovere. Tre Palloni d’Oropossono sembrare pochi nell’era dei Due Alieni, quando quello che ne ha vinti proprio tre (ma potremmo anche contargliene già quattro) ha comunque davanti l’altro, che ne ha in bacheca ben cinque. Ma quei due non sanno cosa sia davvero la competizione. Non hanno idea di cosa significhi dover risplendere in un calcio in cui il più scarso del tuo Milan potrebbe tranquillamente fare il titolare nel Real Madrid di oggi. In cui l’esempio da seguire si chiama Johan e la concorrenza sono Diego e Lothar. Tu un avversario ce l’hai addirittura in casa e fa di cognome Gullit. E assieme a Ruud, e a Frank, a Paolo&Franco, talmente inscindibili da diventare quasi un essere mitologico mezzo Maldini e mezzo Baresi, vinci tutto quello che si può vincere. Più di una volta. Non può essere un caso. E ovviamente non lo è. C’è tanto di te in ogni trionfo di quel Milan, dal colpo di testa in tuffo contro il Real alla doppietta contro la Steaua, dall’assist per l’amico Frank al Prater di Vienna fino alla rete al San Paolo che nel 1988 manda, è proprio il caso di dirlo, il Diavolo in paradiso.
Per te, purtroppo, c’è anche un posticino all’inferno. Un inferno tuo, personalissimo, vissuto con la compostezza del campione e con la tenacia di chi non si vuole arrendere. Tante, troppe operazioni, luminari che non sanno che pesci prendere, stop infiniti e ritorni troppo brevi, fino alla sofferta decisione di smettere. Tra l’ultima partita in maglia rossonera, la sfortunata finale di Coppa Campionicontro il Marsiglia, che tra l’altro giochi in condizioni pessime, e l’addio definitivo passano due anni. E non c’è giorno in cui una fila interminabile di persone non faccia capolino a Milanello a chiedere di te, a cercare di darti forza, mentre tu, davanti allo specchio, probabilmente cominci a renderti conto che la forza da sola non basta più. Come sta Marco?Quando torna Van Basten? Non sono semplici domande, ma piuttosto il grido straziante di una generazione che capisce che il destino gli sta portando via il suo eroe.
Ma anche nel devastante momento del ritiro, nella tristezza dei tanti che come me hanno dovuto ripiegare i poster appesi sui muri e relegare le tue gesta nella gloriosa e malinconica galleria dei ricordi, resta la fortuna di aver potuto ammirare la tua classe immensa. Resta l’amore per questo magnifico gioco che hai saputo instillare in grandi e piccini. E soprattutto resta quella piccola punta di orgoglio che ogni bambino, anche il più scarso di ogni combriccola, ha provato quando, gonfiata la rete, ha potuto alzare le braccia al cielo e sentirsi, anche per un solo istante, Marco Van Basten. Perché se questa è davvero una fiaba, allora Andersen insegna. Non importa che sia nato in un recinto d’anatre: l’importante è essere uscito da un uovo di cigno.