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26 aprile 1981: la delusione del Napoli e relative conseguenze

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26 aprile 1981: la delusione del Napoli e relative conseguenze

Il Napoli è l’anima di Napoli, la voce, il suo termometro, l’essenza nella quale la città si specchia e gioisce o si tormenta. Non potrebbero esistere due squadre a Napoli, il derby cittadino non sarebbe affatto concepibile, non si può mica scindere l’anima. Non è come a Roma, Milano, Torino o Genova, dove due squadre cittadine esprimono modi di operare, atteggiamenti, sensazioni, talvolta anche inclinazioni politico-culturali diverse. E nel corso della sua storia il Napoli inteso come club calcistico ha avuto il destino di assumere, di riflettere quello che è la caratura ontologica del popolo napoletano. 

Semmai, durante l’ultimo quindicennio del “regno” di Achille Lauro, che al di là del periodo formale in cui è stato ufficialmente presidente della società partenopea, di fatto ha retto la squadra cittadina dal 1936 al 1968, la relazione tra il Napoli e Napoli ha assunto qualche sfaccettatura differente rispetto a quella che poi gli anni ottanta ci hanno abituato a constatare, ovvero di totale e completa compenetrazione di essenze e sentimenti. 

In un certo senso l’era azzurra del Comandante è stata macchiata da una frattura, quella tra una parte colta, radicale di sinistra della città, che avversava politicamente Lauro (che, non si dimentichi, era precedentemente stato sindaco, deputato e senatore rigorosamente di destra, dopo essere stato iscritto nel PNF ed essere stato consigliere della Camera dei Fascisti e delle Corporazioni durante il ventennio), che accusava lo stesso armatore di essere il maggiore responsabile di quello che era stato classificato come il sacco edilizio di Napoli (fenomeno descritto soprattutto nel film di Rosi Le mani sulla città di metà anni sessanta)  e che non poteva accettare che lo stesso potesse fare sfoggio propagandistico attraverso il controllo della società di calcio rappresentativa della città. 

Una vittoria che sarebbe stata storica

Per le élites cittadine di estrazione genericamente “aristocratica” e colte di sinistra, ideali “discendenti” di Vincenzo Cuoco, eventuali grosse vittorie del Napoli (che, peraltro, durante l’epopea calcistica napoletana “laurina” tutto sommato non ci sono state, fatta eccezione per la conquista della Coppa Italia nel 1962 e un buon triennio in serie “A” caratterizzato da piazzamenti comunque importanti come il terzo posto nella stagione 1966-66, il quarto nel campionato 1966-67 e la seconda piazza conseguita al termine della massima competizione nazionale del 1967-68, a fronte, tuttavia, di acquisti spesso roboanti e di forte impatto mediatico, ma anche con due precedenti amare retrocessioni in cadetteria) sarebbero state sgradite perché poi facilmente strumentalizzabili per scopi elettorali. 

Per approdare a una vittoria storica degna di nota questa frattura doveva essere pur sanata. Sulla base delle vicende succedutesi nel tempo, l’impressione è che paradossalmente la “quota anti laurina” dei tifosi del Napoli sia stata riassorbita nella maggioranza della tifoseria napoletana in ragione di due aspetti di carattere generale, il primo facente capo agli eventi strettamente sportivi e l’altro concernente le disgrazie e le calamità naturali abbattutesi sulla città partenopea negli anni settanta e nei primi anni ottanta. 

Dunque, da una parte gli accadimenti storico-sociali legati al colera del ’73, al male oscuro che uccise decine di bambini a Napoli a fine anni ’70 per un virus poi scoperto dal professor Tarro, e al terremoto di novembre ‘80 con le relative infauste conseguenze derivate dall’avanzare di malaffare e delinquenza organizzata. 

I piazzamenti del Napoli nei campionati precedenti 

Sul fronte più squisitamente sportivo, invece, il terzo posto del campionato 1970-71 (con lo scontro diretto perso in casa dell’Inter nel momento cruciale della stagione e caratterizzato, nella seconda frazione di gioco, da decisioni arbitrali apparse quantomeno discutibili anche agli spettatori neutrali, con l’ormai famosa incursione di Mazzola e compagni negli spogliatoi dell’arbitro alla fine di un primo tempo chiusosi con gli azzurri in vantaggio per 0 a 1). 

Il secondo posto e lo scudetto perso per un nonnulla a vantaggio della Juventus al termine della stagione 1974-75 (nonostante il gioco spettacolare espresso dalla compagine allora guidata da Luis Vinicio), ma soprattutto il terzo posto arrivato nella stagione 1980-81, in cui sembrò che la squadra di Rino Marchesi avesse letteralmente gettato al vento un’occasione d’oro per giungere finalmente al titolo per causa della sconfitta-suicidio patita tra le mura amiche del San Paolo a opera di un Perugia avviato ormai verso la retrocessione in cadetteria, ricevendone per contro da addetti ai lavori e dai tifosi dell’Italia intera le stigmate di “perdente patentato”. Di quest’ultimo episodio mi sia consentito di spender parola. 

Napoli ed i programmi ambiziosi

A principio degli anni ottanta i programmi del Napoli sembrano ancora piuttosto ambiziosi, malgrado certe delusioni patite antecedentemente. Per questo, nella sessione estiva del mercato in vista della stagione 1980-81, i vertici del club campano convincono il forte ed esperto difensore olandese Ruud Krol a vestire d’azzurro. Le titubanze del campione olandese vengono demolite con l’assicurazione dei dirigenti partenopei che una possente squadra sia in cantiere. 

Ma nonostante la presenza in organico del vice-capitano della nazionale orange, i partenopei non partono certamente con i favori del pronostico per vincere il titolo. La compagine più accreditata alla vittoria del campionato è certamente la Juventus, che, almeno sulla carta, possiede il miglior organico (Zoff, Cuccureddu, Cabrini, Furino, Gentile, Scirea, Causio, Tardelli, Bettega, Brady, Fanna). Poi segue l’Inter, campione uscente. Non è cattiva la squadra della Roma con Tancredi, Turone, Spinosi, Falcao, Benetti, Rocca, Di Bartolomei, Conti e Pruzzo. Il Napoli sulla carta non sembra migliore del Torino (Terraneo, Salvadori, Pecci, Zaccarelli, D’Amico, Pulici, Graziani, tra gli altri). 

Ai nastri di partenza, la squadra partenopea non parte tra le favorite

Dal canto suo, infatti, la compagine azzurra si presenta ai nastri di partenza del campionato con Castellini, Bruscolotti, Marangon, Guidetti, Ferrario, Krol, Damiani, Vinazzani, Musella, Nicolini e Pellegrini III. Valutando il tasso tecnico di ciascuno dei giocatori, la squadra partenopea parrebbe non essere proprio eccezionale e, del resto, certi progetti di mercato (si era inizialmente paventata l’ipotesi di arrivare a Pecci o addirittura a Falcao) sembra non sia stato possibile concretizzarli per tutta una serie di motivazioni, con i cosiddetti ben informati che danno maggiore credito alle voci che riferiscono di ripicche e contro-ripicche con qualche club intenzionato a raggiungere i medesimi obbiettivi. 

La campagna acquisti-cessioni, così, è quella che è, e gli addetti ai lavori non accreditano la rosa azzurra per le prime posizioni. Partiti Filippi, Volpecina, Bellugi, Tesser, Improta e Agostinelli, sono arrivati Krol, Marangon, Pellegrini III e Nicolini. A occhio la squadra sembra carente di un attaccante, per quanto ci fosse in rosa Speggiorin (un Savoldi sarebbe servito), e di un regista. Marchesi, l’ex allenatore dell’Avellino dei miracoli, voluto fortissimamente dal presidente Ferlaino, riesce a fare di necessità virtù, puntando su Krol nel ruolo di regista arretrato e su Musella in quello di centravanti di sponda. Con una buona difesa (Krol determinante) e un discreto centrocampo (supportato dal predetto fuoriclasse olandese, che quasi costituisce mezza squadra) il Napoli in qualche modo sopperisce alle mancanze in attacco. Iniziato il campionato, la compagine partenopea non è protagonista di una partenza eccezionale, anzi, si potrebbe dire, piuttosto incerta. 

Le ultime sfide del Napoli in quella stagione

Ma alla fine del girone d’andata conduce la Roma, con l’Inter dietro a un punto, mentre Napoli e Juve rincorrono distanziate di due punti. Il 12 aprile 1981, alla venticinquesima giornata, Juventus, Napoli e Roma si ritrovano in testa insieme, sommando 35 punti ciascuno. Mancano 5 giornate alla fine e il Napoli sembra godere del calendario più agevole, quantomeno sulla carta: in casa a seguire Perugia e Fiorentina, trasferta a Como, il confronto con la Juve al San Paolo e trasferta all’ultima giornata in quel di Udine. 

Non sarebbe pazzia poter pensare di totalizzare 9 punti, preventivando il pareggio nel match clou con i bianconeri, il che avrebbe significato scudetto. E in effetti in città si ha la percezione che sia finalmente la volta buona: una chance così neanche nel 1975 era capitata, perché, se è vero che in quell’occasione il Napoli aveva conquistato il secondo posto, è anche vero che la Juve non era mai stata impensierita più di tanto nella gestione del primato e a 5 gare dalla fine poteva vantare un buon margine di vantaggio. 

Le antagoniste della Juventus danneggiate dalla sosta per le Nazionali

Il 19 aprile 1981 non si gioca perché la nazionale sostiene un’amichevole a Udine con la Germania Est (con gli esordi di Selvaggi e Dossena e la seconda partita in azzurro di Vierchowod, e tutti faranno parte della spedizione vincente di Spagna ’82). Già la sosta avrebbe potuto lasciar presagire che le cose sarebbero andate per il verso giusto per la Juve.

In quegli anni, infatti, soprattutto nel caso che vede suo malgrado protagonista sfortunata la Roma, le interruzioni di campionato al fine di dare spazio alle partite della nazionale si sono rivelate una sorta di freno a mano per le antagoniste della Vecchia Signora, quasi come se ne sentissero il peso psicologico, foriero di cali di concentrazione decisivi, in senso negativo, per le loro sorti. Sta di fatto che quando riprende il campionato la Juve vince a Udine per 2-0, la Roma pareggia ad Ascoli (campo in quegli anni osticissimo per i colori giallorossi) e il Napoli perde inaspettatamente in casa con il Perugia per 1-0. 

Il balzo importante dei bianconeri

La Juventus compie il balzo che si rivelerà decisivo (per quanto si possa discutere circa la questione dello scontro diretto il successivo 10 maggio tra Juventus e Roma con il gol annullato a Turone, ma questo è altro discorso). Ciò che colpisce è il passo falso casalingo del Napoli contro un Perugia ormai inesorabilmente condannato alla “B”. Sconfitta maturata per causa di un’autorete di Ferrario al primo minuto di gioco, dopo un cross di Di Gennaro. Il Napoli parte decisamente all’attacco, ma 3 pali e le parate di Malizia diranno di “no” alla squadra azzurra, malgrado 12 calci d’angolo.

Il Perugia si rivela la pietra d’intoppo del team napoletano. Quel Perugia che peraltro, alcune settimane prima, in quel di Torino si era ritrovato inaspettatamente in vantaggio sulla Juve grazie a una rete realizzata all’80’, subendo poi la rimonta bianconera negli ultimi 9 minuti, vittoria che costò, tuttavia, la squalifica per un mese ai danni di Bettega che pare si fosse rivolto ai giocatori umbri chiedendo perché si battessero allo spasimo sapendo di essere ormai destinati a retrocedere in cadetteria. 

Una sconfitta devastante

Mai sconfitta così devastante per uno stordito Napoli che la giornata seguente accusa un altro mezzo passo falso nel secondo match consecutivo disputato tra le mura amiche e non va oltre il pareggio per 1-1 con la Fiorentina. Non cambia il corso degli eventi il successo esterno agguantato la settimana successiva sul campo del Como, reso vano dalla cocente batosta ricevuta nello scontro diretto disputato al San Paolo con la Juventus, che s’impone di misura a Fuorigrotta con il punteggio di 1-0. 

La stagione si chiude poi nel peggiore dei modi con un’ulteriore sconfitta in quel di Udine, con i friulani che infliggono un amarissimo 2-1 agli azzurri. Un crollo inaspettato quello accusato dalla compagine guidata da Marchesi; e qualcuno malignamente si lascia andare a una profezia poco gradevole per le aspirazioni di successo della tifoseria azzurra, secondo cui il Napoli non avrebbe mai vinto lo scudetto. L’ennesima umiliazione per una città sognatrice – svegliata ancora una volta, così come accaduto nel ’75, dai rivali storici della Juventus – ma in quel frangente devastata dalle conseguenze umane e sociali del recente terremoto. 

Penalizzato da una rosa di giocatori inferiore in quanto a cifra tecnica rispetto agli avversari bianconeri, nonostante l’encomiabile impegno profuso dalla squadra, il Napoli prima sconta un altalenante girone d’andata, in cui perde tanti punti almeno sulla carta facili da conquistare e poi, una volta raggiunte Roma e Juve in vetta alla classifica, paga dazio soprattutto in termini di mentalità vincente, denunciando un impressionante crollo psicologico prima ancora che fisico.

Un crollo psicologico prima che fisico

Circostanza forse generata dal fatto di essersi i partenopei ritrovati in testa alla graduatoria, per molti versi, quasi “casualmente”, senza che nulla fosse stato programmato in fase di progettazione della stagione, anche perché le altre due antagoniste non si erano realmente imposte e non erano riuscite a fare il vuoto, procedendo con una tabella di marcia sufficiente ma non certo eccezionale, nel contesto di un campionato se non mediocre ma appena accettabile, in cui anche la Fiorentina, se non avesse condotto un girone d’andata con una media-punti da retrocessione e non avesse “steccato” in almeno due match della seconda tornata del campionato, avrebbe potuto lottare per il titolo. 

Non avendo la tradizione della Juve e dei club più titolati, l’unico modo possibile per consentire al team partenopeo di compiere finalmente il decisivo salto di qualità è quello di affidarsi allo strapotere tecnico e carismatico di qualche giocatore eccezionale, con qualità balistiche sopra la norma, capace di trascinare l’intero ambiente verso i massimi traguardi, attorniato da una squadra credibile e da una società consistente. 

I tifosi e la città, seppur stanchi di subire delusioni e di vedere tradite le loro legittime aspettative, attendono con la solita pazienza, ma anche impazienti per l’attesa. Ferlaino non è soltanto il presidente del Napoli, ne è anche il suo primo innamorato e accanito tifoso, tanto da pagarne dazio in qualche circostanza. Il buon ingegnere non demorde, con il tempo cerca di colmare le lacune societarie e di organico e comprende l’importanza nonché la necessità di attorniarsi dei migliori dirigenti per tentare di accorciare le distanze dalle squadre di vertice del campionato italiano. 

L’amore per il Napoli come rifugio dai problemi della quotidianità

Ebbene, tutte queste vicende, sportive e non, hanno a un certo punto spinto ulteriormente i già caldissimi tifosi partenopei, senza se e senza ma, anche al di là degli orientamenti politici di “origine”, a trovare sollievo e rifugio dai numerosi aspetti problematici della loro quotidianità nell’amore per il loro Napoli, a cui non sembrava arridere alcuna fortuna calcistica, abbracciandolo simbioticamente e incondizionatamente in un moto di passione vicendevole senza confini. 

Si tratta di due esseri feriti, fra i quali scattano solidarietà e aiuto reciproci. Identità e appartenenza. Il Napoli vuole vincere per Napoli e i suoi milioni di tifosi sparsi per il mondo, Napoli si danna l’anima per accompagnare la propria squadra e i propri beniamini verso traguardi storici ed entrare così nel mito.  E ad accentuare ancor di più questo spirito simbiotico tra la città partenopea e la sua squadra del cuore, nonché quella commistione tutta napoletana tra il terreno e il celestiale è, il 5 luglio 1984, l’avvento alle pendici del Vesuvio di quello che sarebbe diventato il Messia di tutti i tifosi azzurri, ovvero Diego Armando Maradona. 

Solo un Messia proveniente dalla povertà e di estrazione popolare, quella argentina, poteva riuscire a riunificare in un’anima sola il popolo napoletano, a sanare quella frattura che qualche decennio prima ne aveva frenato le ambizioni di rivincita. Il Napoli non è la Juve, sua rivale sportiva storica per eccellenza, che può tralasciare il mito e per la quale i campioni passano così come dirigenti e presidenti, perché resta sempre, pesa e dà i suoi frutti la tradizione dell’organizzazione e delle vittorie già conseguite, in numero tale da non alimentare neanche più di tanto l’entusiasmo dei tifosi bianconeri sparsi per lo stivale. 

Il primo grande presidente: Giorgio Ascarelli

E a ben riflettere, sotto questo profilo, una tradizione e una strategia di azione più spiccatamente imprenditoriali, per così dire “distaccate” da motivazioni di carattere esclusivamente emozionali e inquadrate in un discorso di obiettivi a lungo termine, il club azzurro avrebbe potuto maturarle e svilupparle molto prima, se ci fossero state le condizioni politiche-culturali giuste per assecondare le mire e le ambizioni di successo del primo grande presidente della sua storia, Giorgio Ascarelli, il cui ricordo pare ormai ingiustamente caduto nell’oblio degli amanti del calcio e, nello specifico, dei supporter del Napoli, compresi di quelli (probabilmente pochi) che vogliono coltivare memorie storiche. 

Industriale di origine ebrea e amministratore di un fatturato considerevole, proiettato a incrementarlo ulteriormente con l’estensione delle attività della sua Manifattura di Villadosia anche in Lombardia in quel di Busto Arsizio, nell’estate del 1926, a seguito dell’entrata in vigore della Carta di Viareggio con cui il CONI fascista consentiva alle squadre di Roma e Napoli di partecipare alla divisione nazionale con quelle del Nord, fu il promotore principale del cambio di denominazione sociale del Napoli Calcio, da Internaples F.B.C. ad A.C. Napoli, in modo da compiacere al regime dittatoriale che mal tollerava nomi e termini in lingua inglese. 

Grazie ai suoi notevoli sforzi economici e alle sue ambiziose idee di mercato, la nuova formazione divenne in breve tempo competitiva a livello nazionale tanto da riuscire a convincere la FIGC, al termine della stagione 1928/29, ad allargare a diciotto partecipanti, anziché a sedici, il primo campionato nazionale a girone unico, facendovi rientrare anche la propria squadra e dimostrandosi influente dirigente sportivo finanche a livello federale.

Lo stadio di proprietà

Nel solco di questa sua mentalità imprenditoriale di ampio respiro, quasi come precursore e antesignano della moderna tendenza delle società calcistiche ad avere nel proprio patrimonio immobiliare gli stadi di proprietà, nel 1929 Ascarelli decise di commissionare, completamente a proprie spese, la costruzione di un nuovo campo sportivo, di proprietà privata del club, al Rione Luzzatti, nei pressi della Stazione Ferroviaria di Napoli. 

Lo stadio, inaugurato il 23 febbraio 1930 col nome di “Vesuvio” (gli sarebbe stato successivamente dedicato a furor di popolo, in conseguenza della sua scomparsa, avvenuta, purtroppo, appena diciassette giorni dopo l’inaugurazione dell’impianto da lui voluto e commissionato). In seguito, sotto il regime fascista, lo stadio, proprio a causa delle origini ebraiche di Ascarelli, fu ribattezzato “Stadio Partenopeo” in quanto si ritenne inopportuno intitolare a un israelita quello che era il maggiore impianto sportivo cittadino.

Lo stadio ospitò due partite dei mondiali del 1934, tra cui la finale per il terzo posto (giocata per ironia della storia da Germania e Austria, ovvero dalle rappresentative di due nazioni, poi rese unite dall’Anschluss del 1938, da cui provenivano i maggiori esponenti dell’antisemitismo dell’epoca, fautori di quella che sarebbe stata la Shoah), prima di finire distrutto dai bombardamenti abbattutisi sulla città nel corso della seconda guerra mondiale. In mancanza di una mentalità calcistica di ampie vedute aziendali della medesima portata di Ascarelli, le successive vicende storiche del club partenopeo hanno confermato come a Napoli – almeno fino all’avvento alle pendici del Vesuvio di Corrado Ferlaino e, ancor più,  di Aurelio De Laurentiis, il tutto fosse legato ad aspetti emozionali più che a progetti societari di carattere autenticamente imprenditoriali. 

Gli Eroi campani: Maradona e gli altri

Nel capoluogo campano si ha bisogno di eroi e in Maradona i napoletani trovano finalmente il loro vero e proprio Masaniello del calcio (ruolo che – con tutto il rispetto per le loro qualità tecniche e carismatiche – non avrebbero potuto incarnare, in successione cronologica, né di Jeppson, né di Sivori, né di Altafini, né di Savoldi), colui che può consentir loro di presentarsi in tutti gli stadi d’Italia con il petto in fuori e con notevoli chance di vittoria. Due stagioni di ambientamento e poi, grazie alla sapiente campagna acquisti condotta da Italo Allodi e con l’approdo in panchina di Ottavio Bianchi, a cui viene concesso di avere in rosa giocatori del calibro di Garella, De Napoli, Bagni, Giordano, Renica e Carnevale, la realtà delle cose calcistiche sancisce l’ingresso ufficiale del Napoli nel gotha del calcio nazionale, nella élite di chi può pretendere realmente di appuntare sul petto il tricolore. 

GLIEROIDELCALCIO.COM (Francesco Zagami)

 

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