IOGIOCOPULITO.IT (Francesco Gallo) – E’ iniziata ieri l’edizione 2018 della Champions League, la vecchia Coppa dei Campioni. La storia di questo glorioso trofeo ha origini lontanissime. Ve le raccontiamo.
Se le partite della Champions League sono le vostre preferite, e siete convinti che le sfide del martedì e del mercoledì hanno un altro passo e un’altra atmosfera, allora forse conviene che sappiate di chi è figlia la competizione più bella del mondo.
“Certo!”, direte voi, “la Champions League è figlia della Coppa dei Campioni”. Sì, ma la stessa Coppa dei Campioni bisogna che qualcuno l’abbia inventata. E per farlo c’era bisogno di un contesto e anche di alcune fortunate circostanze.
Un continente sul piede di guerra
Prima della Seconda Guerra mondiale l’Europa calcistica non aveva sempre favorito il riavvicinamento dei Paesi del vecchio continente. Ad esempio nel 1937 una partita della Mitropa Cup — che nel 1939 L’Enciclopedia illustrata del calcio italiano definiva come «Il più singolare e combattivo dei tornei a squadre che spesso e per diverse ragioni ha dato luogo ad incidenti deplorevoli» —, quella tra Admira Vienna e Genoa, degenerò in un incidente diplomatico. Durante la gara di andata scoppiò in campo una rissa dopo che l’arbitro aveva fischiato un rigore dubbio per gli austriaci. Partita sospesa e tripla frattura della mandibola per il centrocampista rossoblù Arrigo Morselli. Anche per questo motivo, Benito Mussolini vietò l’organizzazione del match di ritorno e i giocatori viennesi furono respinti alla frontiera.
Pochi mesi dopo, un episodio simile. Si giocava la quarta edizione della Coppa Internazionale, la madre dei futuri Europei. Di fronte, ancora una volta, italiani e austriaci. Sul 2-0 per l’Austria, però, l’arbitro sospende la partita perché ha completamente perso di mano la situazione. In pratica c’è una rissa ogni tre minuti. Lo scontro continuerà fuori dallo stadio tra fascisti italiani e antifascisti austriaci. Sputi, insulti e saluti a pugno chiuso che precedono lo scontro militare di qualche settimana dopo sul campo di battaglia spagnolo a Guadalajara.
Il mondo diviso unito dal calcio
La Spagna del Generalísimo Francisco Franco, insieme all’Italia ancora in ricostruzione e soprattutto alla Germania divisa, è tra le nazioni che dopo la Seconda guerra mondiale l’Europa vuole simbolicamente riconciliare con le altre nazioni che hanno da poco riposto le armi. E direttamente da Madrid, nella persona di Santiago Bernabéu, arriva una proposta assai interessante: la Coppa Latina, una competizione che ogni quattro anni avrebbe riunito i campioni di Spagna, Francia, Italia e Portogallo. Il torneo ha un discreto successo, ma più che altro serve a ribadire la volontà collettiva di ridisegnare attraverso il pallone la cartina geografica europea, scavalcare la cortina di ferro e riavvicinare i vari Paesi. L’idea piace. E comincia a conquistare l’attenzione di dirigenti e giornalisti in tutto il continente. Su tutti, se ne interessa L’Équipe.
In quel momento il quotidiano francese stava cominciando a rafforzare il proprio interesse attorno al calcio. Anche se ancora le principali pagine parlavano di ciclismo, era il pallone a far vendere copie quando non si gareggiava per il Tour de France. Proprio per questo il direttore dell’epoca nel 1946 ha la felice idea di creare un inserto, da far uscire il martedì, e arricchirlo di reportage, fotografie ed analisi tecniche. Diventerà presto una vera e propria bibbia del calcio, si chiamaFrance football.
Ma il pretesto che servirà da detonatore per l’intero movimento arriva nel 1954. Per inaugurare il sistema d’illuminazione al Molineux Stadium, il Wolverhampton organizza una serie di amichevoli. Invitano lo Spartak Moskva e la Honvéd, la più forte squadra ungherese dell’epoca. Quelli di Budapest hanno la meglio, soprattutto grazie ai gol di Ferenc Puskás. Battono prima i sovietici, poi gli inglesi.
Quella partita la vede in televisione anche il piccolo George Best, che non avendone una propria in casa sua andava da un vicino che gli diceva: “Dai George, vediamola insieme”. E lui se li mangiava con gli occhi i giocatori del Wolverhampton, quelli con la maglia gialla. E dirà al vicino di casa: «un giorno anch’io sarò su quella televisione, perché giocherò delle grandi partite». E il piccolo George aveva ragione.
La nascita della Coppa
Poi, però, succede che nella partita di ritorno contro la Honvéd, gli inglesi tirano fuori dal fango una partita epica: sotto di due reti, rimontano e vincono 3-2. E di quella partita se ne parlerà per molto tempo in Inghilterra, tanto che i giornali cominciano a parlare del Wolverhampton come «Grandiosi!», «Mai vista una partita così», «Fantastici!». Però il Daily Mail va oltre e, visto che hanno battuto le squadre più forti, proclama il Wolverhampton campione d’Europa. «Eh no» rispondono da Parigi «non è proprio così».
Ha alzato il dito un certo Gabriel Hanot. È il caporedattore della rubrica calcio dell’Équipe e il15 dicembre 1954 scrive un’editoriale in cui spiega perché gli inglesi non possono essere considerati i veri campioni. Propone quindi di creare una competizione ad hoc per dimostrarlo:un campionato d’Europa tra club. O meglio, una coppa. E in quest’articolo c’è la genesi della futura Coppa dei Campioni.
La martellante campagna stampa dei mesi successivi lancia la proposta che prevede la partecipazione dei campioni di ciascuna federazione. Partite di andata e ritorno, da giocarsi il mercoledì. Non a caso il giorno in cui il giornale accusava di solito un calo notizie e quindi di vendite. Arrivano subito i sì di Jules Rimet, il padre dei Mondiali di calcio, e di Henry Delaunay, futuro padre degli Europei. Non potendo utilizzare il nome “Europa” per veto della FIFA, la competizione si sarebbe quindi chiamata Coppa dei Campioni. In più L’Équipe di Hanot si offre di realizzare il trofeo per la squadra vincitrice, mentre il famoso inserto France Football un premio per il miglior giocatore europeo: il Pallone d’oro.
Ai vertici dell’Uefa si stabilisce, però, che la nuova Europa del calcio non avrebbe dovuto badare alle fratture della Guerra fredda. Bisognava invece riunire tutti: i calciatori delle democrazie popolari, le squadre delle dittature iberiche e anche quelle del blocco sovietico. E accade. Accade durante i primi Quarti di finale, quando il Real Madrid si ritrova di fronte il Partizan Belgrado. Dopo il 4-0 di Madrid, gli spagnoli rischiano la più incredibile delle rimonte perdendo 3-0 in Jugoslavia. Passa la squadra di Bernabéu, ma i giocatori in campo alla fine della partita fraternizzano sotto la neve di Belgrado.
Real campeón
La prima finale è subito un successo di pubblico che rende già popolare la competizione. Il 13 giugno 1956, il Parco dei Principi è colmo di parigini attirati dalle stelle madrilene e da quelle dello Stade de Reims. Le due squadre consegnano ai tifosi una partita quasi irreale, ricca di prodezze tecniche e di continui capovolgimenti di fronte. Le merengues sono una squadra irripetibile, frutto però di una corsia privilegiata per l’acquisto di autentici campioni. Il netto dominio degli anni successivi è spiegato dal fatto che il Real, la squadra di Francisco Franco, può naturalizzare spagnoli tutti giocatori che lo chiedono. E sono in molti a chiederlo.
Nei primi dieci minuti di gioco, però, la squadra di José Villalonga si ritrova sotto di due reti, ma nel giro di quindici minuti pareggia grazie proprio alle reti di due argentini naturalizzati spagnoli, simboli della politica dispendiosa di Santiago Bernabéu: Héctor Rial e Alfredo Di Stefano. Sono loro i protagonisti della rimonta e della vittoria per 4-3.
Finisce così la prima edizione di una Coppa che all’epoca ha reso l’Europa più vicina. Che ha avuto un enorme peso sociale dopo anni di guerra e odio, e che è andata al di là del semplice gioco del calcio. Oggi, dopo tanti anni di distanza, e con l’Europa in pace, guardare le partite di Champions League è un piacere. Ma allora significò anche qualcos’altro.