Una delle caratteristiche dei campioni del calcio che più colpiscono l’immaginario collettivo sono le grandi giocate, i cosiddetti “colpi da maestro”, gesti o gol così straordinari da suscitare un’ammirazione pari a quella che si prova davanti a una scultura o a un quadro, a una poesia.
Una sorta di “Sindrome di Stendhal” calcistica.
Ogni appassionato arricchisce il suo museo secondo il gusto personale, ma ci sono capolavori, vere e proprie opere di genio, che non possono non essere ammirate da tutti: nella memoria collettiva, in un virtuale museo del calcio costruito sulla storia e non sul gusto di parte, possiamo mettere sicuramente il gol di Pelé nella finale mondiale contro la Svezia nel 1958; il gol di Marco Van Basten nella finale europea contro l’Urss nel 1988; il gol dei “tredici tocchi” di Diego Armando Maradona contro l’Inghilterra al mondiale messicano del 1986, più altri di cui sarebbe lungo l’elenco.
Se proviamo ad analizzarli, una cosa è subito evidente: la coordinazione e l’eleganza con le quali è stato eseguito il gesto tecnico, l’armonia di movimenti che ha portato alla traiettoria perfetta della palla per trovare la rete, la visione di sentieri invisibili verso la gloria, pennellate d’artista che creano il capolavoro.
A dare origine alla leggenda c’è un altro particolare: la capacità di creare questi colpi da fuoriclasse contribuisce all’attribuzione di un soprannome all’autore, per rendere ancora più magica la sua figura nel tempo.
La storia del calcio è piena di giocatori che sono diventati famosi grazie a soprannomi legati a qualche loro caratteristica tecnica o caratteriale, alla fantasia dei tifosi o all’intuito di qualche giornalista.
Quasi una storia nella storia è quella di Gianni Brera, sommo giornalista che oltre ad inventare un vero e proprio lessico del giornalismo sportivo, era maestro nell’individuare caratteristiche dei campioni che poi riportava nei nomi: dall’”abatino” Gianni Rivera a “rombo di tuono” Gigi Riva, dal “bisiaco” Fabio Capello a “bonimba” Roberto Boninsegna, anche se questa è una tradizione tipicamente sudamericana.
Alcuni di questi soprannomi prendono spunto da titoli nobiliari, uno su tutti O’ Rey Pelé, in Italia è stato lo svedese Nils Liedholm a restare nella memoria collettiva con il titolo di “barone”, dovuto alla grande eleganze tecnica e personalità con cui si muoveva in campo e fuori.
Nato nella fredda e lontana Svezia, Liedholm interpretava il suo ruolo di centrocampista di manovra con freddezza quasi scientifica, dimostrando doti superiori, ma soprattutto una tranquillità che gli permetteva di effettuare sempre le giocate migliori e più efficaci per la propria squadra.
Il suo fisico asciutto e alto, quasi allampanato, la sua naturale eleganza, la sua serafica calma furono i tratti distintivi fin dagli esordi nelle giovanili del Valdemarsvik, squadra del suo paese natale.
Il suo successivo passaggio fu a Norrköping, prima allo Sleipner poi all’IFK, dove vinse due titoli svedesi che gli valsero anche la convocazione in nazionale.
Con i colori giallo e blu contribuì a vincere l’oro ai Giochi Olimpici di Londra del 1948, superando la Jugoslavia in finale.
Questo successo gli valse le attenzioni internazionali e soprattutto del Milan, dove si sarebbe trasferito e avrebbe scritto la sua leggenda.
Appena arrivato in Italia, in rossonero si affiancò ad altri due svedesi, Gunnar Gren e Gunnar Nordhal, formando un trio che sarebbe diventato leggenda: il Gre-No-Li.
Dei tre, Liedholm incarnava il genio, il giocatore dall’intuito fenomenale, mentre Gren era la sagacia tattica, soprannominato il “Professore”, Nordhal, conosciuto come il “Pompierone”, così chiamato per i suoi trascorsi tra i pompieri, rappresentava la potenza fatta uomo, creando insieme un mix che si sarebbe rivelato micidiale per gli avversari e che portò allo scudetto del Milan nel 1951.
Liedholm avrebbe vinto altri tre titoli in rossonero anche dopo lo scioglimento del trio, il suo passaggio in Italia, però, bloccò la sua carriera in nazionale: probabilmente avrebbe potuto vincere molto di più, ma la sua carriera con la maglia giallo blu fu frenata dalle severe leggi che regolavano il professionismo calcistico in Svezia.
Per questo motivo, dopo la vittoria olimpica di Londra, fu escluso dalla nazionale per quasi dieci anni, salvo essere richiamato in tempo per il mondiale che si svolse in quella terra nel 1958, portando la Svezia a raggiungere il secondo posto, dietro solo al Brasile del debuttante Pelé, con i verde oro che rompevano finalmente la maledizione e riuscivano a diventare per la prima volta campioni del mondo.
Terminata l’attività agonistica, fu naturale il passaggio in panchina, intraprendendo una carriera di allenatore altrettanto fulgida, caso raro per chi è stato un grande in campo.
Da tecnico, praticando tra i primi il gioco a zona, vinse due campionati italiani, e anche in questo caso furono vittorie significative: il primo scudetto lo vinse con gli amati colori rosso neri del Milan, e fu quello della stella, nella stagione 1978/1979; il secondo fu in una piazza complicata come quella di Roma, guidando campioni come Agostino Di Bartolomei, Paulo Roberto Falcão, Bruno Conti, Carlo Ancelotti, che tanto avrebbe imparato da lui per la sua futura, vincente, carriera di allenatore.
Questo fu il secondo titolo anche per i giallo rossi, colori con i quali Liedholm vinse anche tre Coppe Italia e raggiunse la finale di Coppa dei Campioni nel 1984, poi persa ai rigori all’”Olimpico” di Roma contro il Liverpool.
Poi, ancora la spola tra Milan e Roma, con una parentesi a Verona, fino a chiudere una luminosa carriera e a concludere l’avventura terrena nella sua tenuta di Cuccaro Monferrato, nel 2007.
Sia in campo, sia in panca, Nils Liedholm si distinse sempre per l’eleganza e la pacatezza, mai coinvolto in eccessi dialettici o comportamentali, da vero nobile della pedata, meritandosi il titolo di Barone del calcio italiano.