E invece l’Italia lo stregò per tutta la vita. Trascorsa all’insegna del calcio. E di una squadra, in particolare: il Milan. “Ne è sempre stato tifoso, anche quando allenava altri club, perché ci giocò tutta la carriera e ne fu capitano e bandiera. La prima della storia”. 359 partite, 81 gol, quattro scudetti, una Coppa Campioni lasciata al Grande Real, che lo aveva cercato però senza successo, ma soprattutto mai un’ammonizione. Non perché evitasse i contrasti, quanto perché era corretto. Come lo sarà in panchina. “Mai una polemica contro un arbitro, prese con filosofia anche ‘il gol di Turone’, sapeva che con la Juve potevano capitare certe cose” racconta il figlio, nato dal matrimonio tra Nils e una nobildonna piemontese, che ne favorì il soprannome di “Barone”.
Significava classe ed eleganza. In una parola, carisma. Quello che emanava la sua figura, quello che esercitava sui propri giocatori. “Non era un sergente di ferro, non è mai stato punitivo, parlava a bassa voce, ma sapeva farsi ascoltare ed ebbe un ottimo rapporto con tutti i suoi giocatori” ricorda ancora Carlo. Una mentalità forse rivoluzionaria per i tempi (anni Settanta e Ottanta) accompagnata da una visione del calcio altrettanto avanguardista. “Papà era uno svedese anomalo, metteva la tecnica davanti a tutto, stravedeva per i calciatori sudamericani e diceva che senza buoni calciatori un allenatore non va da nessuna parte”. Anche la metodologia d’allenamento era all’insegna del progresso. “Il pallone non mancava mai, se un calciatore doveva migliorare, lui si fermava a fare ripetizioni tecniche a fine seduta. E a Roma le porte del Tre Fontane erano sempre aperte, nessun segreto da nascondere, c’erano solo 3-4000 tifosi da far felici”.
Teorico del possesso palla – “Finché ce l’abbiamo noi, sono gli altri a doversi preoccupare”sarà una delle sue frasi celebri – Liedholm sviluppò la sua filosofia a Verona (dalla C alla A in due stagioni ’66-68), a Varese (’70, promozione in A), a Firenze (’71-‘73) e, soprattutto, al Milane alla Roma. In rossonero realizzò il primo capolavoro con lo scudetto della Stella (1979). “Ottenne il massimo da un organico non da scudetto. Aveva una buona difesa – Albertosi, Maldera III, Collovati, Baresi, promosso titolare giovanissimo al posto di Turone che non la prese tanto bene ma che poi lo seguì subito a Roma – seppe tirar fuori il massimo da Buriani e De Vecchi, e s’inventò Bigon centravanti, forse il primo falso ‘nueve’ della storia del calcio”.
Della sua trilogia in giallorosso, il secondo capitolo è il più esaltante. “Dopo lo scudetto Viola, col quale ebbe sempre uno straordinario rapporto perché erano simili come carattere (formali e rispettosi dei ruoli), gli disse che avrebbe comprato la Roma a condizione che ritornasse. Lui non se lo fece dire due volte. Roma gli era rimasta nel cuore, ne fu innamorato perso per tutta la vita e, anche se conduceva una vita riservata, amava vivere al centro”. Due coppe Italia (’80 e ’81) e un secondo posto prima della proclamazione a “Imperatore”. Genova, 8 maggio 1983. “Una squadra bellissima, rimasta nel cuore dei tifosi per i suoi giocatori fortissimi: Tancredi, Maldera III, Falcao, Bruno Conti, Di Bartolomei, Pruzzo. Lo scudetto fu un impatto emotivo straordinario, quello del ’42 non era mai stato troppo considerato dalla città, doveva venire, la squadra giocava troppo bene e l’entusiasmo era sempre più crescente. Le immagini di Genova sono indimenticabili, la gente ai bordi del campo, l’invasione alla fine, papà portato in trionfo dai tifosi, la festa a Roma…”. L’anno dopo, in Coppa Campioni, solo il Liverpool impedì la divinizzazione del “Barone”. “Partita equilibrata, Liverpool più esperto, ma serata fatale: Pruzzo dovette uscire per un mal di stomaco, si fece male anche Cerezo, erano due rigoristi, Falcao invece non ne aveva praticamente mai battuto uno…“.
Vinse la terza coppa Italia (’84), suggerì Eriksson a Viola, poi ritornò al Milan. Per ragioni di cuore. “Voleva essere più vicino al Piemonte, a casa”. Anni difficili. Il presidente Farina fuggì in Africa indebitato fino al collo, la società rischiava il fallimento, ma Liedholm si tolse comunque la soddisfazione di lanciare un’altra promessa: Paolo Maldini (16 anni).
Se i giovani erano un’altra sua passione – “Ogni anno ne aggregava almeno due-tre alla prima squadra” – la Juve fu l’avversario più sentito – “Anche del derby, che considerava una partita da due punti” – mentre Berlusconi il presidente meno amato. “Soffriva il carisma e la competenza di mio padre, erano due personalità forti e il rapporto non fu il massimo”.
E allora fu ancora Roma. Terzo posto (’88) dietro il Milan di Sacchi e il Napoli di Maradona – “Un gran risultato, buona squadra con Giannini, Voeller, Tancredi, Nela…” – poi l’anno dopo pagò il malore di Manfredonia e le stravaganze di Renato: “Fortissimo, ma senza la testa per il calcio europeo”. Dopo la sconfitta nello spareggio Uefa contro la Fiorentina (1-0, gol di Pruzzo, ironia della sorte), il ritiro. “Decisione automatica, anche se poi tornò nel ’97 con Sella per salvare la Roma e ammirare un giovanissimo Totti”. Dopodiché rientrò definitivamente nelle sue vigne del Monferrato – “Erano di mia mamma, a lui piacevano perché gli ricordavano la campagna di quando era ragazzo” – per godersi la terra e i nipoti fino alla fine del viaggio (5 novembre 2007).
Oggi quel suo calcio basato sul possesso palla è replicato dalle squadre di Guardiola, ma a velocità più elevata. “Sono cambiati i metodi di allenamento” sottolinea Carlo, che lo scorso anno, nella tenuta di famiglia, ha premiato Claudio Ranieri al termine della sesta edizione del “Premio Liedholm”, assegnato ogni anno a quei personaggi del mondo del calcio che si distinguono non solo per i successi, ma per la serietà, la correttezza, l’etica e l’affabilità. “Purtroppo è sempre più difficile trovare qualcuno che incarni questi valori”.
Se la Svezia, alla quale rimase sempre legato, gli ha dedicato un francobollo, un busto nel centro di Vladesmarvik e l’ha eletto miglior giocatore di sempre, in Italia e in Europa di Liedholm, e del suo modo di vedere il calcio, come dice il figlio, forse non c’è davvero quasi più traccia. Però c’è la sua storia. Da valorizzare e tramandare ai posteri. Perché la classe è un po’ come il pallone: meglio sempre averla con noi. Ovunque tu sia, tanti auguri Nils. Och tack för allt. (E grazie di tutto).