Nota a margine intorno a Italia – Brasile del 5 luglio 1982
La partita Italia – Brasile del 5 luglio 1982 è dagli italiani sufficientemente nota nelle linee essenziali. Contrariamente a quanto sostenuto da tutti, quel grande Brasile non era imbattibile. Bearzot aveva intuito perfettamente i suoi punti deboli degli avversari. Comprese che i sudamericani erano molto abili a mascherare le loro lacune, con un gioco elegante, ritmato, quasi danzato. La loro forza era nel centrocampo, che, attaccando in coro, però, esponeva la retroguardia, perché il solo Cerezo proteggeva la difesa. Lo snodo era la boa d’attacco, Serginho, che con la sua stazza fisica (utile per smontare le tradizionalmente munite difese europee – ed è per questo che Santana lo preferiva ad altri giocatori forse più tecnici) si metteva al servizio dei fantasisti come sponda per concludere in area avversaria. Egli era il punto di passaggio quasi obbligato per ogni azione d’attacco. Tutti i fantasisti facevano leva su di lui. E se il gioco riusciva erano dolori. Se, viceversa, si anticipava Serginho quando cercavano di servirlo, il Brasile si ritrovava scoperto mentre diversi suoi giocatori avanzavano: l’Italia avrebbe potuto avviare il più micidiale dei contropiedi. Dunque Collovati doveva anticipare Serginho. I fatti daranno ragione a Bearzot perché l’unica volta in cui loro riuscirono a eseguire perfettamente la sponda fu in occasione del gol del primo pareggio con Socrates. Palla a Serginho, smistamento a Zico in piena corsa e assist rasoterra per Socrates che si sovrappone in velocità da destra, controlla, finta per ingannare Zoff e segna. Questo il punto principale, la base di partenza: ma la tattica impostata da Bearzot non si basava solo nel rendere inattivo Serginho, autentica miccia che faceva esplodere la potenza degli eccelsi giocolieri brasiliani. Per rendere meno pericolose le verticalizzazioni dei verde-oro, Bearzot adottava una zona mista nel contesto della quale le sole marcature a uomo previste erano quella di Collovati su Serginho e quelle di Oriali su Zico e di Gentile su Eder (originariamente doveva essere così, ma all’ultimo minuto Gentile e Oriali si vedranno scambiati gli uomini da seguire). Zico, che era una sorta di rifinitore dietro a Serginho, doveva essere annullato nella stessa maniera di Maradona.
A centrocampo si sarebbe giocato a zona. Ma una zona diversa da quella solita: veniva predisposta una sorta di doppia barriera mobile per ambedue le fasce, al fine di bloccare o quanto meno rallentare il galoppo sia dell’ala sia del terzino verso l’attacco (i due terzini brasiliani Leandro e Junior sovente diventavano mezzali per supportare il centrocampo). A destra Conti, rientrando, e Oriali, trasformato in terzino (come lo era stato in gioventù), avrebbero sorvegliato Junior e Eder. A sinistra Cabrini e Graziani, di ritorno in centrocampo, avrebbero chiuso rispettivamente Socrates, che era particolarmente pericoloso perché capace di imperversare da una parte all’altra del campo, partendo in genere da destra, e Leandro.
I giornali italiani, come pure Helenio Herrera, davano Gentile su Eder, Cabrini su Zico – eventualmente su Paulo Isidoro, qualora Zico, acciaccato, avesse dato forfait-, e a centrocampo Oriali su Falcao, Tardelli su Socrates e Antognoni su Cerezo: evidentemente si immaginavano marcature a uomo dappertutto e non a zona nel centrocampo. Quando i brasiliani si accentravano, Tardelli e Antognoni si sarebbero presi in consegna Falcao e Cerezo e a turno il centrocampista che capitasse per la loro zona, a seconda delle circostanze. Cabrini in caso di bisogno poteva agire su Zico, non essendoci nel Brasile chi fungesse da ala destra.
Dietro Scirea avrebbe vigilato su tutti e quando la palla era in mano italiana avrebbe impostato e rilanciato nella metà campo avversaria (si rammenti che come calciatore egli era “nato” come centrocampista, con un buon piede, molto adatto alla manovra, diventando poi libero alla Juve anche grazie all’opera di persuasione di Guido Capello). Così, si sarebbero lasciati pochi spazi, soffocando i centrocampisti brasiliani, che pativano i controlli stretti. La zona brasiliana entrava in sofferenza di fronte ai controlli stretti: lo aveva dimostrato anche il Mundialito uruguaiano del 1981, quando il Brasile aveva perso l’unica partita in due anni, trovandosi di fronte alle arcigne marcature della squadra di casa; e di questo Bearzot era consapevole (e, in fondo, anche le marcature sovietiche della partita del 16 giugno precedente fra Brasile e URSS durante il primo turno del Mundial avevano messo in difficoltà i brasiliani, che furono aiutati dell’arbitro, quando, sotto di un gol, aveva negato agli europei un rigore sacrosanto).
Quello che era essenziale era evitare che i giocolieri brasiliani iniziassero le loro danze, il loro tourbillon, a base di triangolazioni e sovrapposizioni che quasi sempre permettevano ai carioca una devastante superiorità numerica in fase d’attacco. Ma nello stesso tempo si sarebbero potuti alimentare le ripartenze veloci sia di Antognoni che di Tardelli, quando i brasiliani venivano sorpresi sbilanciati (e l’anticipo nei confronti di Serginho sarebbe stato in questo senso fondamentale, come la stretta sorveglianza del centrocampo): bisognava attaccare con puntate veloci e secche, con pochi passaggi decisivi, in modo da prendere in contropiede e senza protezione i due difensori centrali, che spesso rimanevano soli (in sintesi, Bearzot diceva che i brasiliani giocavano “tutti avanti, tutti indietro”: la velocità doveva servire a evitare che tornassero per tempo tutti indietro, dopo che fossero stati resi innocui quando erano tutti avanti). A questo punto sarebbe toccato a Rossi, esentato da ogni impegno in chiave difensiva, finalizzare (e per lo stesso attaccante si limitava il raggio di azione in modo da non fargli disperdere energie e risultare più efficace). Tutto questo presupponeva una grande velocità (potrei dire che nella “panoplia” calcistica bearzottiana l’eclettismo era lo scudo, ma la velocità era la lancia e ambedue combinate erano un’arma particolarmente efficace) e una condizione atletica invidiabile, da ritenersi acquisita dopo e per mezzo del primo turno nel ritemprante fresco di Vigo, lontano dalle calure che sfiancavano altre squadre. La maggior velocità degli azzurri avrebbe permesso di poter aspettare i brasiliani a metà campo, senza doverli inseguire per ogni dove: essenziale poi vincere i duelli sulla palla. Come capiterà spesso. Infine, non sfuggiva al nostro CT la circostanza che il Brasile non avesse un tornante di destra di ruolo, il che avrebbe potuto facilitare le incursioni alla nostra sinistra da parte di Cabrini. Questo da parte di Bearzot. Praticamente nessuno avrebbe immaginato simili diavolerie tattiche da Annibale del football, questo ideare soluzioni e marchingegni da Ulisse del pallone, questa sorta di polymetis calcistica. La conseguenza di tutto questo è stata la vittoria italiana, che poteva essere ben più ampia, considerati un paio di rigori negati agli azzurri, il gol regolare annullato ad Antognoni e qualche occasione “mangiata” dai nostri. E il Brasile? Vista la partita dalla visuale dei sudamericani, il CT verde-oro Santana, che durante la conferenza stampa venne (direi ingenerosamente) attaccato dai giornalisti brasiliani, appariva corretto e cavalleresco, un gran signor nel riconoscere meriti altrui e demeriti propri. Era sostanzialmente oggettivo. Per Santana il Brasile non aveva commesso errori di tattica generale; solo errori individuali, a fronte di cui gli italiani avevano saputo approfittare, al contrario del Brasile, in rapporto agli sbagli degli avversari. Il Brasile a giudizio del proprio allenatore aveva giocato bene; semplicemente non era invincibile. Aveva giocato pure meglio rispetto alla partita con l’Argentina: l’Italia aveva saputo difendersi. Questo è vero. Aggiungeva che per Rossi non sarebbe stata necessaria una marcatura speciale: Zico, malgrado la guardia di Gentile, aveva comunque giocato bene. Santana aggiungeva qualcosa di personale: adesso in patria sarebbe stato considerato un perdente; ma non bisognava distruggere quanto di buono era stato fatto negli ultimi due anni. Non negava, infine, che la sua squadra prima della partita fosse quasi sicura di raggiungere la finale, concludendo che la sua non voleva essere solo una compagine fiduciosa dei propri mezzi, ma anche impavida in generale. Ebbe il suo applauso meritato. Santana venne difeso dai suoi ragazzi, ma il tecnico si dimise. Sarebbe stato richiamato alla guida tecnica della nazionale verde-oro nel 1985: la squadra rischiava di non qualificarsi per i mondiali del 1986. Della selezione dei mondiali di Spagna mantenne solo Zico, Falcao, Junior e Socrates. Ma neanche nel mondiale messicano del 1986 avrebbe avuto tanta fortuna e nei quarti di finale il Brasile fu eliminato dalla Francia. Quella Francia che negli ottavi aveva eliminato l’Italia, segnando la fine dell’era Bearzot, che forse fece male a non seguire il consiglio di chi, come Italo Cucci, gli aveva suggerito di dimettersi dopo la vittoria nel mondiale spagnolo. Proviamo a vedere la partita dalla visuale dei giocatori del Brasile. Ripartiamo dal finale della partita. In occasione della punizione di Eder all’89’ Oscar decideva di portarsi in area. Eseguito il tiro da parte di Eder, Oscar ne vedeva bene la traiettoria e colpiva come meglio non si potesse fare e con forza. Come si sa, non marcò, e benché la sua squadra e la torcida volessero trarre in inganno Klein, questi non si fece condizionare. In un’intervista data a “La Repubblica” l’8 gennaio 2003 Oscar lo ammette: “la palla era rimasta sulla linea”. Ma cinque centimetri più in là e sarebbe stato gol. Per Zoff era stata la parata della sua vita. Qualche centimetro, un nonnulla: e per Oscar sarebbe stato il gol della sua di vita, e quella generazione di giocatori brasiliani probabilmente avrebbe avuto una storia diversa. Racconta Oscar: “Eravamo bellissimi, mai giocato in una squadra così forte. In panchina Tele Santana, profeta del calcio spettacolo. Ma io glielo dicevo, a Tele, alla vigilia: Tele pensiamoci un po’; non sarà un rischio buttarsi all’attacco contro gli italiani? E Tele mi assicurava: Vinciamo 4-0, nessun problema. Ma i problemi arrivarono subito. Noi danzavamo col pallone, poi gli italiani in contropiede ci facevano del male. E certo: Leandro e Junior attaccavano anche loro, io e Luizinho rimanevamo da soli contro Conti, Rossi e Graziani: un disastro. La sconfitta fu giusta. Dicono: si rigiocasse cento volte, il Brasile vincerebbe sempre. Falso, rivincerebbe l’Italia perché noi non avevamo capito niente”. Dunque, Oscar con il tempo si rendeva conto come la propria squadra avesse un limite di non poco conto e quella generazione fu sconfitta e per sempre. Pensando sempre ad attaccare, il Brasile spesso esponeva troppo la difesa. Soprattutto, non si curava del reparto difensivo in sé e la mediocrità dominava. Socrates, che morirà il 4 dicembre 2011, avrebbe pensato soprattutto a Santana. In una testimonianza raccolta dalla vedova Katia Bagnarelli e pubblicata da Mondofutbol.com, racconta che “quando perdemmo contro l’Italia nel Mondiale ’82, la prima persona che vidi dopo la partita fu lui (Santana). Il suo volto era l’espressione del dolore che tutti noi sentivamo. Ma lui tentava disperatamente di consolarci. Ci aspettò a bordocampo e mostrò affetto a ciascuno di noi. Nello spogliatoio la sofferenza era immensa. Alcuni piangevano a dirotto, mentre altri contemplavano il proprio dolore in silenzio. Lui fissava l’infinito e sembrava calmo, nonostante il duro colpo. Era confortato dal nostro impegno, credo. Ma proprio per questo non smetteva di soffrire. Avrei voluto abbracciarlo, proteggerlo. Non avevo le forze. Una volta di più mi fece pensare a mio padre. Credo che il dolore che sentivamo fosse della stessa intensità. Ho pianto molto di più per loro che per altre cose, ma le lacrime faticavano a scendere. Ero stremato, prosciugato. Realizzai esattamente cosa significasse quel sentimento molto tempo dopo, quando mio padre se ne andò.
Avrei voluto saper compiere un miracolo per riportarlo indietro, così come per consegnare quella Coppa del Mondo a chi la meritava più di tutti: Tele Santana. Tele fu l’esempio di chi comanda partendo dalla conoscenza e dall’osservazione. La sua convinzione partiva dalla fiducia che i giocatori riponevano nelle sue scelte tecniche”. I giocatori brasiliani apprezzavano il gioco del loro CT che dava spazio alla creatività personale, ai tocchi morbidi di piede, alla calcio inteso come gioiosa danza; diffidavano delle tattiche. Queste ultime per i verde-oro sapevano di difensivistico e di organizzazione soffocante: si ricordi che i brasiliani uscivano da una dittatura che aveva regolamentato ferreamente anche le dinamiche calcistiche. Non deve stupire che i giocatori carioca in coro avessero appoggiato convintamente Santana quando respingeva, alla vigilia della partita, l’invito di Falcao a una gara più accorta, più tattica. Il gioco brasiliano era simbolicamente anche una risposta, un calcio al passato, alla dittatura. Zico, invece, avrebbe ricordato quella partita in tono un po’ polemico. Nel novembre del 2012 ha dichiarato che se il Brasile avesse vinto, il calcio sarebbe stato diverso. A suo giudizio, da quel momento in poi si sono create le basi per un calcio fondato sulla distruzione del gioco altrui. Ma con rassegnazione ammise anche che se anche il Brasile avesse segnato in quel 5 luglio 5 gol, avrebbe perso lo stesso perché l’Italia ne avrebbe fatto 6 capitalizzando gli errori carioca.
Non si sarebbe trovato d’accordo con il primo assunto di Zico Rossi. Per Pablito il Brasile dovrebbe ringraziare l’Italia per quella lezione spagnola: avrebbero imparato a giocare più coperti, con una disposizione tattica più equilibrata, con più ragione, migliorando i fondamentali difensivi. Avrebbero così vinto successivamente due mondiali. Ma sostanzialmente d’accordo con Zico si ritroveranno Luizinho (“se avessimo vinto, il nostro calcio non avrebbe abbandonato l’opzione offensiva con il tocco di palla e il calcio-spettacolo, poi riscattato, con successo, dal Barcellona e riconosciuto dal suo allenatore Pep Guardiola”) e Eder, che ribadisce i concetti di Luizinho, or ora riportati. “Giocavamo come gioca oggi il Barcellona, senza seguire posizioni fisse, confondendo gli avversari attraverso un intenso movimento in campo. Io, in teoria, ero un attaccante di sinistra, ma giocavo al centro, mentre a volte facevo l’ala e Junior prendeva la mia posizione. Zico correva per tutto il campo, mentre Cerezo usciva dal centro ed era solito lanciare in gol Falcao o un altro compagno. Era una squadra stupenda!” . E ancora: Rossi riporta come Eder fosse dispiaciuto perché da quel momento gli allenatori iniziarono a giocare con più attenzioni alla difesa.
Ma Eder riconosce come fosse il giorno di Rossi e dell’Italia, che seppe approfittare di ogni occasione, con un Pablito, che sapeva perfettamente posizionarsi in campo, accompagnato dalla dote di “opportunista raro”. In ogni caso, continua Eder, la squadra carioca del 1982 ha lasciato buoni ricordi. Vero. Insieme con quella del 1970, è riconosciuta come la miglior squadra brasiliana di sempre, superiore a quelle che hanno vinto i mondiali nel 1994 e nel 2002. Il più realista appare Falcao che ha ammesso come l’Italia avesse impedito che il Brasile facesse il gioco che gli era congeniale e ponesse in essere i piani che lo avevano sino a quel momento condotto a stritolare ogni avversario. Vero: esattamente ciò che Bearzot aveva progettato.
Un’annotazione finale: il “Time” nel 2010 ha definito quel Brasile-Italia del 5 luglio la più grande partita mai giocata. Ogni commento è superfluo. Ancora oggi l’arbitro Klein, ormai invecchiato, quando accusa qualche acciacco, tira fuori una cassetta con la registrazione di quella partita e la rivede: è la sua migliore medicina.
GLIEROIDELCALCIO.COM (Francesco Zagami)