RIVISTACONTRASTI.IT (Nicola Ventura) – Gennaio 1987: è una stagione difficile per il Torino di Gigi Radice. Alla sedicesima giornata sono solo quindici i punti, contro i ventitré del Napoli capolista. Il 14 dicembre 1986 c’è stato anche il derby perso con gli odiati juventini, il mese prima la sconfitta con l’Inter per 2 a 1, la vittoria della Roma in casa dei granata e quella appunto dei partenopei a ottobre (3 a 1 con gol di Ferrara, Bagni e Giordano). Insomma un campionato di sofferenza – ben lontano dalla stagione 1984-85 terminata col secondo posto dietro il miracolo Verona – poi ulteriormente condito da una lunga striscia senza vittorie, che per i granata si protrae dalla diciottesima (un pareggio per 1 a 1 in casa dell’Ascoli) alla ventinovesima giornata (vittoria per 3 a 1 sull’Udinese): undici partite senza vittorie, una infinità in un campionato a sedici squadre come quello italiano di metà anni Ottanta.
A rendere il tutto più malinconico è anche l’esplosione di una polemica che vede protagonisti l’unico vero fuoriclasse del Torino, il brasiliano Junior, e proprio Gigi Radice, storico tecnico dei granata. Il pretesto è la sostituzione sistematica del brasiliano nelle gare in trasferta. “Radice mi sostituisce sempre quando giochiamo fuori casa”, dice uno stizzito Junior davanti ai taccuini dei cronisti, “perché forse non ha il coraggio di farlo davanti al nostro pubblico”; il riferimento è al fatto che il numero 5 del Toro sia particolarmente amato dai tifosi granata.
Uno sfogo sintomatico di ruggini antiche che risalgono alla stagione precedente, quella 1986-87: nei sedicesimi di coppa Uefa contro l’Hajduk Spalato, il Toro perde 3 a 1 in casa dei croati con tanto di esordio del giovane Franco Lerda in sostituzione proprio di Junior che da quel momento in poi sembrerà quasi preso di mira dal “sergente di ferro” monzese. “Non dico che Radice non sia un buon allenatore”, proseguirà ancora il centrocampista brasiliano nella sua polemica col tecnico di Cesano Maderno, “ma è totalmente privo di sensibilità: è come quelle persone che non sanno quando parlare e quando stare zitte. Vuole sempre avere ragione: lui non sbaglia mai e gli altri quasi sempre. Non ascolta consigli e quando le cose vanno male fa ricadere sempre la colpa su me e Dossena”.
Dichiarazioni di fuoco abbastanza usuali nei rapporti tra giocatori e tecnici nel calcio italiano degli anni Ottanta: l’altro “leader” del Torino, “Beppe” Dossena – raffinato centrocampista protagonista di una seconda giovinezza nella Samp di Vialli e Mancini – spalleggerà il prestigioso collega nella fronda contro Radice: “Io sono dalla parte di Leo”, dirà l’azzurro, uno dei reduci del Mundial ’82, “anche se il suo unico sbaglio è quello di lamentarsi per le sostituzioni. Siamo professionisti e dobbiamo accettarle”. E Radice? In realtà la replica del tecnico brianzolo non si era fatta attendere: “Faccio l’allenatore, non l’assistente sociale”, fu la sbrigativa reazione dell’allenatore dagli occhi di ghiaccio, con conseguente ennesima replica di Junior: “Se io ho bisogno dell’assistente sociale, a qualcun altro serve lo psichiatra”.
Basterebbe questo piccolo episodio per tratteggiare il carattere e la personalità di Radice. Un allenatore vero, non un “gestore”. Lo si è descritto anche come un innovatore: lo è stato, soprattutto sul piano della preparazione atletica e del pressing. Le sue squadre, anche quelle con i maggiori limiti sotto il profilo tecnico, hanno quasi sempre mostrato in campo una “garra” agonistica capace di calamitare la simpatia dei tifosi. Ne sanno qualcosa i supporters della Roma di fine anni Ottanta: è la stagione 1989-90 e il presidente Viola avrebbe voluto sulla panchina della “Magica” quell’Ottavio Bianchi che con Maradona in campo era stato uno degli artefici del primo storico scudetto dei partenopei. Pastoie burocratiche avevano rallentato l’arrivo dell’allenatore bresciano a Roma, costringendo Viola a una soluzione tampone: un “traghettatore” – come si dice nel mondo del calcio per definire l’ingrato ruolo di tecnico a tempo – che di fatto deve preparare il terreno all’arrivo di un collega più fortunato o potente. Radice non fa una piega: prende una Roma operaia, ben lontana dai fasti di Falcao e Cerezo, e la conduce fino al sesto posto. I protagonisti di quella stagione, giocata al Flaminio, sono Rizzitelli, Berthold, Voller, Giannini, Comi, Nela, Di Mauro, Tempestilli, Desideri. Una squadra gagliarda, carica di furore agonistico, pregna dello spirito di un allenatore a fine anno acclamato da quegli stessi tifosi che inizialmente ne avevano accolto con estremo scetticismo l’arrivo nella capitale.
I non sempre facili rapporti di Radice con i presidenti, causati da un carattere fiero e poco propenso ai compromessi, rappresentano uno degli elementi caratteristici di una carriera trentennale. Si pensi alla bella Fiorentina della stagione 1973/74: una squadra giovane – dove inizia a imporsi un ventenne Giancarlo Antognoni – che nel girone d’andata si permette di battere Inter, Juventus, Milan e Cagliari. Alla fine sarà un sesto posto: niente male, ma non abbastanza secondo la dirigenza viola che per la stagione successiva opterà per il duo Rocco-Mazzoni. Erano stati, infatti, non tanto i risultati sportivi, comunque buoni, a decretare l’uscita di scena di Radice quanto il rifiuto, da parte del tecnico lombardo, di vedersi affiancare Nereo Rocco, mitico ex allenatore rossonero ormai piuttosto avanti con gli anni, nella conduzione tecnica della squadra. Il remake sulla panchina viola di vent’anni più tardi sarà, se possibile, ancora più scioccante.
Stagione 1992/93: Radice guida una Fiorentina bella e vincente. Alla tredicesima giornata i viola sono al secondo posto alle spalle degli alieni del Milan, ma, dopo una sconfitta contro l’Atalanta, Radice viene esonerato in tv da Vittorio Cecchi Gori: “Ritengo che la Fiorentina è mal schierata”, bofonchierà il dirigente viola di fronte agli increduli cronisti. Al posto del tecnico lombardo verranno chiamati Agroppi, Chiarugi e lo stesso Antognoni che si avvicenderanno in una discesa libera verso la serie B nonostante la presenza in squadra di giocatori del calibro di Batistuta, Effemberg, Brian Laudrup (fratellino terribile del più noto Michael), Baiano e Massimo Orlando.
Radice dovrà conoscere anche l’amaro di un altro esonero shock, all’esordio in campionato alla guida del Cagliari, nella stagione 1993/94, dopo una sconfitta per 5 a 2 contro l’Atalanta. Aveva voluto imporre la zona, contro il parere dei giocatori che invece volevano restare ancorati alla marcatura a uomo; era stato scelto per il suo calcio propositivo, ma non aveva fatto i conti con gli umori variabili di un giovane presidente che negli anni saprà costruirsi una consolidata fama di “mangia-allenatori”: Massimo Cellino. D’altronde i ritorni portano decisamente male a Radice, già reduce da un miracoloso salvataggio del Cagliari nella stagione 1974/75: con un Riva perennemente infortunato il tecnico lombardo reinventa con successo Bobo Gori nel ruolo di bomber, nonostante il numero 9 rossoblù di gol ne avesse sempre fatti pochi.
Altra costante della vita di Radice è la sofferenza. Il futuro tecnico del Torino scudettato è stato un ottimo giocatore, uno dei primi terzini “fluidificanti” abili nella marcatura dell’ala avversaria e negli sganciamenti in avanti. Un difensore dallo stile pulito, dalla buona tecnica individuale, che in quel Milan a cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta trova molti riferimenti tattici, tecnici e umani: Liedholm (il “barone”, leader della Svezia finalista al mondiale del 1958 e poi allenatore scudettato con Milan e Roma, uno dei primi a imporre la “zona” nel calcio italiano), Dino Sani (regista brasiliano che aveva sostituito il folle fuoriclasse britannico Jimmy Graves) e Juan Alberto Schiaffino (semplicemente “el dios del futbol” come veniva definito in Uruguay), senza contare Gipo Viano e Nereo Rocco dai quali trarrà spunto per la successiva carriera da allenatore. Nel marzo 1963 a Radice salta però il ginocchio in uno scontro di gioco: gli tocca assistere alla vittoria del Milan in Coppa Campioni, a Wembley.
Sono gli anni Sessanta: la scienza medica non può ancora far miracoli per sistemare le ginocchia di un calciatore. Radice non riesce a guarire. Gli trovano un altro “pezzo” di menisco: nuova operazione con conseguente convalescenza. Ormai sono due gli anni di inattività per il terzino milanista che nel frattempo aveva addirittura tentato un reinserimento nel mondo del lavoro, prima come ragioniere (il padre aveva insistito per fargli ottenere il diploma), poi con una attività in proprio nel settore edilizio. “Se non gioco, sono finito” aveva detto tra sé, ma ormai la sorte si era dimostrata più forte di qualsiasi volontà di ripresa: al “Gigi” salta pure l’altro ginocchio. E’ tempo di cambiare: ritiro a trent’anni, ma a trentuno c’è già la panchina del Monza utile per provare idee e principi appresi in una decennale carriera da giocatore professionista.
Nell’aprile 1979, Radice resta coinvolto in uno spaventoso incidente stradaleassieme a Paolo Barison, ex compagno del Milan. La fortuna di “Gigi” è quella di essere sbalzato fuori dalla vettura, a causa dell’impatto, al contrario di Barison che rimane incastrato nelle lamiere e muore tra le fiamme. L’anno dopo, a febbraio, avverrà il primo traumatico esonero della carriera: il Torino lo caccia, dopo una sconfitta in casa della Fiorentina. “Pensavo ormai di essere in famiglia”, dirà poco tempo dopo con amarezza, “poi ai primi accenni di burrasca mi cacciano via e mi fanno sentire un allenatore qualunque: cinque anni di affettuosa collaborazione spazzati via perché si erano perdute un paio di partite in più”.
E’ il 2005. Radice è ormai da dieci anni fuori dai giochi, dopo aver portato il “suo” Monza dalla C alla B. Arrivano le prime amnesie. E’ giornata di jogging con gli amici, una delle tante, tra battute e risate. “Gigi” tira il gruppo con la solita grinta: il “tedesco” non fa prigionieri, gli amici annaspano dietro di lui. A un tratto, invece di svoltare a destra come sempre, gira a sinistra: “Perché hai cambiato la solita direzione di marcia?”, gli chiedono. Radice si ferma e per la prima volta appare impaurito: “Non lo so, non mi ricordavo la strada”, confessa atterrito. Quando gli fanno i necessari accertamenti medici, la diagnosi è raggelante: morbo di Alzheimer. Il fisico è sempre lo stesso, una roccia, ma è la testa a non andare più. Una operazione all’anca, con conseguente anestesia, peggiora ulteriormente la situazione. Gli ultimi tempi li passa in un istituto, quando la malattia si fa più severa. Il figlio Ruggero, anni prima, si era lamentato del fatto che il padre fosse stato dimenticato dal mondo del calcio: quando ancora era in grado di riconoscere, di capire. Ciao Gigi, noi non ti dimenticheremo.
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