GLIEROIDELCALCIO.COM (Rocco Nicita) –
Vi ho parlato nello scorso articolo del libro “Uomini, fatti aneddoti (1950 – 1994)“, scritto da Mauro Grimaldi.
Il libro in questione mi ha offerto parecchi spunti di riflessione, uno di questi riguarda i giocatori “oriundi” (Chi, nato e residente in una città o nazione -di cui ha anche acquistato la cittadinanza- discende da genitori o antenati là trasferitisi dal paese d’origine).
Ovviamente, gli oriundi non sono un problema. E ciò va ribadito al fine di allontanare completamente qualunque ombra di razzismo perché – ahimè – nel 2022 d.C. ci tocca ancora sentire discorsi abietti. Se un giocatore, seppur nato a migliaia di chilometri di distanza, sente di poter difendere i colori della Nazionale italiana e lo merita (in virtù delle sue prestazioni sportive, così come gli altri componenti della Nazionale), è da accogliere a braccia aperte.
Diverso è il caso in cui si faccia ricorso ai giocatori oriundi per ragioni di opportunità, quindi per colmare una sorta di gap generazionale. In questo caso, c’è un problema strutturale.
Una situazione del genere si verificò dopo il Mondiale del 1954, a cavallo degli anni ’50 e ’60, quando, al fine di rilanciare il movimento calcistico italiano, si concesse ai giocatori oriundi di partecipare alle attività della Nazionale. Si trattava di giocatori di un certo calibro: Schiaffino, Angelillo, Sívori, José Altafini (già campione del Mondo con la Seleção nel 1958), Maschio, Da Costa ecc.
Grimaldi, nel libro di cui sopra, sostiene che: “questa sorta di invasione – che tra l’altro aveva costretto l’Argentina a rinunciare al Mondiale del 1954 in conseguenza dell’assenza dei loro migliori talenti – provocò danni irreversibili nel sistema calcistico italiano. […] Le difficoltà di Foni (CT della Nazionale tra il 1954 e il 1958, ndr), in realtà erano quelle di un calcio privo di talenti dove i ruoli migliori erano occupati da stranieri o da oriundi a fine carriera“. Si può senz’altro dire che il ricorso massiccio a giocatori stranieri, seppur legittimati a giocare con la nostra Nazionale, non è storicamente un segnale di buona salute del calcio nostrano.
Il periodo buio della Nazionale italiana fu poi superato grazie ad alcune riforme che permisero lo sviluppo di una generazione d’oro. Tra i tanti: Rivera, Burgnich, Mazzola, Riva ecc.
Ritornando ai nostri giorni, le convocazioni per lo stage della Nazionale tenutosi in gennaio hanno visto l’ingresso nel giro della Nazionale di due nuovi innesti “oriundi”: João Pedro e Luiz Felipe. Il primo dei due, in particolare, è stato convocato (ovviamente a seguito delle sue ottime annate) per risollevare le sorti dell’attacco azzurro, che attualmente non gode di prolificità. La convocazione degli atleti è stata poi confermata per le prossime gare di qualificazione al Mondiale Qatar 2022.
Il problema non è certo João Pedro o qualunque altro giocatore “oriundo” che abbia scelto di vestire la casacca azzurra, i quali comunque hanno dato lustro alla nostra Nazionale. Il problema è più radicato: cercare di ovviare a delle carenze strutturali con rimedi “pronti all’uso” non è sintomo di lungimiranza. Storicamente lo si è dimostrato.
Cosa si può auspicare, quindi? Una riforma solida, che mini alle basi del calcio, volta a premiare i settori giovanili meritevoli e le realtà associative sane.
Ciò, ovviamente, non impedisce il ricorso ai giocatori “oriundi”, con l’augurio che la loro convocazione sia una scelta tecnica e non dettata da mancanze del sistema calcistico italiano.