STORIEDICALCIO.ALTERVISTA.ORG – Estate 1979: Paolo Rossi è il giocatore simbolo della Nazionale di Bearzot che l’anno prima aveva entusiasmato al Mondiale argentino, ma è soprattutto un problema per il Vicenza di Giussy Farina che l’anno prima lo aveva riscattato battendo la Juventus alle buste con un’offerta clamorosa, che aveva dato a Pablito la valutazione di oltre 5 miliardi di lire. Nell’ultima giornata di campionato, domenica 13 maggio, un drammatico alternarsi di risultati manda il Vicenza, battuto 2-0 dall’Atalanta, in serie B insieme proprio ai bergamaschi e al Verona che già era ultimo da tempo.
È subito evidente che uno dei giocatori più forti del mondo non può a 23 anni tornare nella categoria inferiore, di cui due stagioni prima è stato capocannoniere. Problema nel problema: dei due miliardi e mezzo che Farina avrebbe dovuto dare alla Juventus ne sono stati versati nemmeno la metà, quindi bisogna fare cassa subito. Le grandi tradizionali, ma anche il Napoli e la Roma, seguono la vicenda con finto distacco, convinte che il Vicenza con l’acqua alla gola sarà costretto a cedere Rossi per pochissimo.
Ma all’improvviso, nel pieno della calura estiva, esplode la bomba.
Sono le 17,25 di venerdì 13 luglio 1979.Le telescriventi sembrano impazzire quando un comunicato congiunto diramato dall’Agenzia ANSA e attribuito al Lanerossi Vicenza, al Perugia e a Paolo Rossi, ufficializza la notizia. «II giocatore Paolo Rossi», sono le prime parole del comunicato «com’era desiderio della Federazione, degli sportivi, delle società e suo personale, giocherà in serie A il prossimo campionato. Il Vicenza e il Perugia hanno raggiunto oggi a Milano un accordo, con la formula del prestito, in base al quale la società umbra si è assicurata per una stagione sportiva le prestazioni del centravanti della nazionale».
Dopo essersi premurato di ringraziare tutte le società (e in particolare Napoli, Lazio e Bologna) intervenute nella trattativa-Rossi, «il Vicenza», puntualizza il comunicato, «ha ritenuto più idonea la soluzione prospettata dal Perugia: squadra competitiva che lo scorso anno si è classificata al secondo posto; possibilità di tornei europei per il giocatore: città, come Vicenza, non stressante per un uomo che sta pagando in mancata tranquillità un pesante prezzo alla gloria sportiva; prestito per una stagione e quindi apertura massima per il futuro di Paolo Rossi; offerta al Vicenza buona per il presente e interessante per le prospettive in funzione degli obiettivi del Vicenza stesso, che continuano a non prescindere da un rapporto di cordiale collaborazione con Rossi. Queste le clausole del contratto: al Perugia in prestito annuale rinnovabile da parte del Perugia. Al Vicenza 500 milioni, più le prestazioni di Redeghieri e Cacciatori, uno dei quali in comproprietà (entrambi se il Perugia rinnoverà il prestito di Rossi a fine stagione, per l’identica somma di 500 milioni)».
E allora vediamo un poco come andò veramente a finire. Ne vale la pena perché, dopo che la trattativa per la cessione del giocatore sembrava addirittura fosse giunta ad un punto morto (il Vicenza ne aveva già annunciato la riconferma per il campionato si serie B 79-’80), il colpo di scena azzerò il serio rischio di vedere l’uomo di punta del calcio italiano giocare in serie B. Il punto era che il Perugia non voleva il cartellino di Rossi, la trattativa non era impostata su basi patrimoniali. Il giocatore era e doveva restare del Vicenza, ma andava risolta una situazione incresciosa.
Come riuscirci? Il Presidente D’Attoma lo svela. «Il problema era trovare mezzo miliardo senza andare incontro ad un collasso. Non abbiamo mai pensato di spremere milioni dai tifosi, e abbiamo pensato di battere un’altra strada. Ci siamo rivolti alla C.P.A., un’agenzia perugina di pubblicità, chiedendo una consulenza ed un progetto. Se Rossi fosse venuto a Perugia, la società che benefici ne avrebbe tratto? La C.P.A. ha risposto con una previsione seria e confortante. Potevamo finanziare l’operazione con i proventi che certe iniziative ci avrebbero assicurato».
La C.P.A., in altre parole, si sarebbe occupata di gestire (e quindi di sfruttare) l’immagine della squadra a fini esclusivamente economici: ogni amichevole della squadra valutata almeno 50 milioni; tutte le partite del Perugia vendute a TV private con conseguente incremento della pubblicità allo stadio; uno o più sponsor ad invadere il mercato sfruttando il marchio della squadra di calcio e al Perugia, in cambio, arriveranno 300 milioni.
Fu così che il Perugia concluse il primo affare di mercato italiano secondo un’ottica nuova, già proiettato verso lo svincolo. Sotto questo aspetto, si può dire che con l’operazione Rossi il Perugia aprì una strada assolutamente innovativa per l’epoca, anticipando il quasi analogo affare Zico-Udinese del 1983.
Ma perché il protagonista del calcio italiano degli Anni Ottanta finì proprio al Perugia che, secondo posto della stagione precedente a parte, era squadra destinata a recitare un ruolo non obbligatoriamente di primo piano? Perché le big Juventus e Milan non riuscirono a fare altrettanto?
Non potendo obiettivamente esporsi più di tanto per assicurarsi le prestazioni del fuoriclasse (dissestando un bilancio attivo, nel caso della Juventus, o disastrandone uno già in passivo, nel caso del Milan, pagando dai tre miliardi in su per un giocatore la cui quotazione oltretutto sarebbe stata pesantemente ridimensionata a partire dall’anno 1980/81 quando, salvo contrattempi, si presupponeva fossero riaperte le frontiere) le due squadre big del campionato strinsero un patto di non belligeranza, isolando Farina e lasciando che Rossi o rimanesse a Vicenza, o venisse “conteso” dalle “piccole”.
A questo punto coincisero due volontà: quella di Farina, “punire” il Milan e magari anche la Juventus, rafforzando una formazione che, dopo il rendimento del precedente campionato, con un Paolo Rossi in più avrebbe potuto puntare concretamente allo scudetto; e la volontà di Rossi di preferire una destinazione che gli garantisse di vivere secondo sua scelta, senza peraltro rinunciare in partenza alle proprie ambizioni agonistiche.
Il nome del Perugia era peraltro già stato scritto nel libro del destino e nella carriera di Pablito una prima volta il 9 novembre 1975, nel giorno del suo esordio in serie A, Perugia-Como 2-0. A Perugia, una città giovane e moderna, lontana dal chiasso delle turbolente metropoli, Rossi avrebbe dovuto anche ritrovare la pace e la serenità, la gioia di vivere che gli era stata tolta dal momento in cui Farina ebbe la malaugurata idea di scrivere quei 2 miliardi e 650 milioni nella famosa busta durante l’estate del 1978.
Nessuno mai credette tranquillamente alla valutazione data a Rossi da Vicenza e Perugia. Queste le parole rilasciate all’epoca dal presidente vicentino Farina: «Al giorno d’oggi, di affari, nel mondo del calcio, non ne combina più nessuno. Mezzo miliardo non è comunque una cifra da buttare, e in più c’è da considerare la valutazione data a due ottimi giocatori come Redeghieri e Cacciatori. Lei mi chiede se nel calcio agisca oggi una specie di “mafia”: non le so rispondere. Che qualcosa non funzioni più a dovere è fuori di dubbio, ma forse è sempre stato così…».
La chiosa è per Paolo Rossi, la voce del maggiore interessato nel complesso affare. «La mia», disse Pablito in un intervista al compianto Beppe Viola, «è una storia come tante nel mondo del calcio. Certo mi ha dato enormemente fastidio dover cambiare una maglia al giorno a seconda degli umori della stampa, senza considerare le molte inesattezze scritte a proposito del mio asserito rifiuto di trasferirmi al Napoli, che ha un pubblico che ammiro. Se Dio vuole, adesso è proprio finita. E Perugia mi va stupendamente!».
Sappiamo come andò a finire: il Perugia giocò un campionato mediocre, in Coppa UEFA uscì praticamente subito e dulcis in fundo arrivò lo scandalo del calcioscommesse ad azzerare tutte le innovative idee dell’operazione Perugia-Rossi: cinque punti di penalizzazione per gli umbri (con conseguente retrocessione in serie B nel campionato 1980/81) e squalifica per due anni a Pablito.