RIVISTACONTRASTI.IT (Vito Alberto Amendolara) – 11 Luglio 1982. È un pomeriggio torrido anche nella mite Torino. Nella zona sud della città, allo Stadio Comunale, la Fender Telecaster infuocata di Keith Richards sta gracchiando i riff più celebri dei Rolling Stones e un tarantolato Mick Jagger salta e canta inni generazionali sotto il sole incandescente di un’estate italiana. Hanno deciso di suonare presto, gli Stones. Alle 20 esatte infatti la Nazionale Italiana giocherà la finale dei Mondiali di Spagna e per poter permettere a tutti di godersi entrambi gli spettacoli, i Glitter Twins hanno deciso per una volta di sfuggire al fascino delle tenebre.
Con mirabile colpo scenico Mick si fa issare sulla folla, per mezzo di una piattaforma aerea meccanica avvolta dal tricolore. Quando finalmente le 60 mila persone presenti riescono a mettere a fuoco la figura di Jagger, stagliata contro il celeste compatto del cielo, un coro di euforia si leva unanime. Il leader degli Stones indossa la maglia azzurra della Nazionale, sulla schiena cucito di bianco il dorsale numero 20.
Paolo Rossi, nato a Prato, ma calcisticamente cresciuto con la casacca bianconera nelle giovanili della Juventus, iniziò la propria carriera professionistica senza le fanfare del predestinato tra le fila del Como. Con la squadra lariana, alla sua prima stagione di Serie A, raccolse solo manciate di minuti che evidenziarono più che particolari doti tecniche, un fisico esile che faceva risaltare la zazzera mora e disordinata dando un tocco decisamente naif al suo incedere.
Le scarse rassicurazioni tecniche ostentate alla prima stagione di A, fecero orientare la bussola del suo destino lontano da Torino, e così nell’estate del ’76 il ventiduenne Paolo Rossi approdò alla Lanerossi Vicenza in comproprietà, ripartendo dalla serie cadetta per rilanciare i propri sogni di gloria. Nella città del Palladio si materializzò l’incontro che cambiò la carriera di Rossi. L’innovativo Gibì Fabbri, allenatore iconico dei biancorossi, intuì le doti celate nel codice genetico del giocatore pratese e decise, con grande lungimiranza, di schierare il calciatore nel ruolo di attaccante.
Centravanti di guizzo, intuito e grande senso del goal, Fabbri estinse così una volta per tutte il tremendo equivoco tattico che aveva costretto Rossi, nei primi anni di carriera, a giocare ala e pestare linee di gesso invece che inquadrare le porte avversarie. L’esperimento evidenziò risultati dirompenti sin dalla prima stagione, e con oltre 20 reti Paolo Rossi contribuì in maniera decisiva alla promozione della Lane in Serie A. La stagione seguente fu un tripudio di exploit che contribuirono a forgiare la leggenda di Paolo Rossi. Capocannoniere del torneo con 24 reti, Rossi si erse a buon diritto come emblema lucente della neonata stella Vicenza. Grazie alle sue reti e allo splendido gioco imbastito da Fabbri, la Lane scalò la classifica fino a consolidare un secondo posto storico a fine stagione, ma soprattutto imprimendo un sigillo indelebile nella coscienza popolare della città, immortalando per sempre quel gruppo eccezionale come ‘Real Vicenza’.
Le prestazioni consistenti del giovane pratese non passarono inosservate nemmeno agli occhi esperti di Enzo Bearzot, che inserì presto Rossi nelle rotazioni di nuovi giocatori che stava passando al vaglio nel suo percorso di rifondazione della generazione di Messico ’70. In Argentina al Mundial della Vergogna del 1978, giocato in un clima politico surreale, avvolto dai tragici misteri della dittatura militare di Videla, un’Italia frizzante e ordinata giocò un Mondiale splendido e incosciente. L’estro ispirato di Paolo Rossi, diventato Pablito durante la rassegna per merito della penna ispirata di Giorgio Lago, e i tre gol siglati lo consacrarono presto a buon diritto centravanti di riferimento del panorama Azzurro.
I sogni di gloria dei ragazzi di Bearzot si fermeranno alla soglia del jackpot, ma la sconfitta in semifinale con l’Olanda lascerà più il sapore della rinascita che l’amaro della delusione. Tuttavia, inatteso come un brutto incubo, la carriera di Pablito si arresta bruscamente non appena il giudice Arnaldo Bracci, nelle grigie stanze della Procura di Stato di Roma, firma di proprio pugno i mandati di cattura per calciatori e dirigenti di spicco del panorama calcistico professionistico italiano.
Così il giorno seguente, domenica 23 marzo 1980, l’azione, coordinata dalla Guardia di Finanza, esemplare e roboante, notificò il mandato di cattura direttamente negli stadi, durante un’uggiosa domenica di campionato, che avrebbe cambiato il calcio italiano per sempre. Quando l’Alfetta del colonnello Nanula si arrestò sulla pista di atletica dell’Adriatico di Pescara e l’infiltrazione del maggiore Pedone bussò alle porte degli spogliatoi dello Stadio Olimpico di Roma, le immagini dei calciatori scortati a Regina Coeli rimbalzarono ben presto nelle case degli appassionati e un coro di sdegno unanime si levò compatto come quello di chi, tradito nel cuore, non può che condannare il gesto e ferito provare rancore per il sistema.
Lo scandalo del primo episodio di calcio-scommesse in Italia era ormai in onda e gli attori principali erano proprio gli eroi brillantinati dello sport nazionale, infausti araldi di un sistema reo di aver contribuito alla creazione di un circolo clandestino di scommesse, dove i giocatori imputati sarebbero stati i sommi demiurghi in grado, con le loro prestazioni orientate, di cambiare le sorti degli incontri e favorire le combine ordite. La domenica in cui il calcio italiano si fermò, Paolo Rossi – trasferitosi a Perugia dopo la retrocessione in Serie B della Lanerossi nella stagione 78/79 -, ignaro del suo destino, vide sfilare in custodia i compagni di squadra Della Martira e Zecchini e si chiedeva frastornato cosa stesse succedendo. Nei giorni successivi, chiamato alla sbarra, urlò sempre la sua innocenza, che verrà sfortunatamente accertata solo 5 anni dopo la conclusione del processo.
Rimase invischiato nella vicenda ‘Totonero’ a causa di un episodio avvenuto qualche mese prima nel ritiro del Perugia, proprio alla vigilia di Avellino-Perugia, una delle partite ‘truccate’ individuate dagli inquirenti. Fu reso noto che Paolo Rossi aveva scambiato, ingenuo, qualche parola con un losco figuro presentatogli dal compagno di squadra Della Martira, proprio quel Cruciani, principale esecutore materiale delle scommesse per conto dei calciatori, che nei pochi minuti a disposizione provò a convincere Pablito della bontà di un pareggio nel match del giorno seguente. Rossi non capì, e si congedò in fretta da una chiacchierata che stava diventando scomoda e strana con un sibillino: ‘un uomo da solo non può fare nulla, nemmeno con i miracoli’.
Sebbene quel colloquio non fosse sufficiente a determinare un coinvolgimento nella vicenda e altre prove a supporto non siano mai state prodotte, quelle parole furono per lui fatali e la condanna a due anni, inflitta dalla giustizia sportiva, una spada di Damocle sulla carriera dell’astro nascente del calcio azzurro. La battaglia legale che ne seguì comminò con l’assoluzione da parte della giustizia ordinaria di Paolo Rossi, ma la giustizia sportiva non ritrattò la propria sentenza e rimase l’illecito, dunque la squalifica. I mesi che seguirono furono puro delirio per il movimento intero, sfiduciato dagli appassionati e bersagliato dalla critica: si creò una totale disaffezione al Gioco che nemmeno gli Europei domestici del 1980 riuscirono ad arginare.
Dal canto suo, Paolo Rossi si chiuse in un silenzio comprensibile, trascorrendo un periodo di disagio e cattivi pensieri. Sentitosi bersagliato dalla giustizia e maturata la convinzione di essere stato immolato sull’altare dell’estremo sacrificio, in modo da poter fregiarsi di uno scalpo nobile nell’indagine, pensò addirittura di chiudere con tutto quel mondo. Ripartire da una vita normale, fatta di momenti privati e cose semplici. Fu la chiamata di Giampiero Boniperti, nel marzo del 1981, a riaccendere un barlume di speranza nell’animo sopito di Paolo Rossi. Manca più di un anno al suo rientro in campo, ma Il Presidente gli offre un ingaggio tuonando: “Verrai con noi in ritiro, ti allenerai con gli altri, anzi più degli altri”. Frasi lapidarie che accesero un fuoco in Pablito, il quale, all’improvviso, si sentì di nuovo calciatore, di nuovo utile.
Un anno ancora di calvario a seguire ovunque la squadra, ad allenarsi follemente senza però quella tensione che catalizza, che smuove e fa sentire vivi, senza l’ardore della competizione, senza le notti del sabato, prima di una partita importante, in cui la mente corre già sul campo e lo stomaco tiene sveglio, il corpo si prepara, l’adrenalina carica ogni centimetro di carne per essere pronta ad esplodere il giorno seguente. L’attesa estenuante finisce il 2 maggio 1982 allo stadio Friuli di Udine, dove la Juve si gioca
una fetta di scudetto. In tribuna, oltre agli sguardi di migliaia di curiosi che si chiedono come sarà il ritorno di Paolo Rossi, scrutano il campo anche le lenti scure e interessate degli occhiali di Bearzot. Il Vecio non dimentica Pablito, punta di diamante della sua Nazionale sul Rio De La Plata quattro anni prima, e con i mondiali di Spagna alle porte cerca di capire le condizioni del pupillo.
Trapattoni sentenziando ‘è quello di sempre’ lo lancia subito nella mischia dal primo minuto. Il numero 9 trova il ritmo con il passare del tempo e al 49’ infila di testa un gol fondamentale, non tanto e non solo per la conquista della seconda stella bianconera, quanto perché in quel momento gli applausi enfatici del Vecio Bearzot maturano l’azzardo che cambierà la storia del nostro calcio. Bastarono tre altre partite al CT per convincersi che Paolo Rossi sarebbe stato il terminale della sua nazionale alla spedizione mondiale dell’82. La scelta fu accolta con molto scetticismo e non mancarono le critiche, comprensibili, per aver convocato un giocatore inattivo da due anni, invece di chiamare a rapporto il bomber della Roma Roberto Pruzzo, capocannoniere della stagione ‘81/’82.
Le critiche diventarono accuse ed invettive, quando, dopo le prime 3 partite della rassegna iridata gli azzurri steccarono ogni acuto, qualificandosi per la fase finale del Mundial dopo aver raccolto il misero bottino di 3 punti in altrettanti match. Oggetto preferito del fuoco incrociato mediatico, era evidentemente un abulico Pablito, che fino ad allora aveva solo esibito un’aria spaesata e confusa in Galizia, dove Bearzot l’aveva schierato in ogni singola partita giocata da una nazionale in palese difficoltà. Sull’aereo che da Vigo portava a Barcellona, gli Azzurri si estraniarono quasi misticamente indicendo il primo silenzio stampa della storia del calcio italiano. Trincerati dietro i propri pensieri, il gruppo si coese e non appena sbarcati in Catalogna l’aria mediterranea restituì fiducia ed entusiasmo.
La prima partita del secondo gironcino contro l’Argentina campione in carica celebrò il pragmatismo azzurro, che grazie al Catenaccio e alle violenze fisiche di Gentile su Maradona, spinse la nazionale alla prima vittoria in terra Iberica. La seconda partita contro il Brasile di Zico, Socrates e Flacao è La Nona di Pablito. Paolo Rossi, già in netta ripresa contro l’Albiceleste, dopo soli 5 minuti incoccia di testa il perfetto traversone dell’amico Cabrini, incrociando sul secondo palo un gol elementare e perfetto, nel teatro dello stadio Sarrià. Esplode di gioia Pablito e con le sue braccia distese in segno di gloria, idealmente si libera dei fardelli che gli appesantiscono le gambe. Sarà il trionfo dell’attaccante azzurro che busserà ben tre volte alla porta della selezione più forte di sempre. Una tripletta storica che segnerà per sempre la fine del futebol bailado verdeoro e che ancora oggi viene ricordata nel continente australe come la tregedia del Sarrià.
Cancellato il 23 marzo 1980, cancellate le malelingue e i pettegolezzi, annientate le critiche con una prestazione sontuosa che entra di diritto negli annali del calcio alla voce ‘perfezione’. La naturale evoluzione dell’epifania di Pablito è storia: la Nazionale del Vecio conquista la terza stella, trascinata dalle sei reti di Rossi, capocannoniere del torneo e prossimo Pallone d’Oro. È la riaffermazione del calcio come motore del popolo: l’Italia si riconcilia finalmente con il suo preferito diletto dopo lo scandalo ‘Totonero’ e sembra riabbracciarlo nel momento di maggiore necessità. Un paese che si identifica nell’urlo violento di Tardelli, come a voler liberarsi del peso di un lustro buio e sanguinario, dove il terrore lo aveva trascinato nello scoramento più totale: i corpi detonati nella Stazione Centrale di Bologna, le manifestazioni di piazza costanti e gli scontri con le autorità, i rapimenti, i governi instabili e impotenti.
Ecco che allora dietro la voce equilibrata ma euforica di Nando Martellini sembra di udire un intero paese pronto ad alzare la testa per ripartire, lasciarsi alle spalle il sangue per entrare nel progresso e nella prosperità, con un nuovo feticcio: un ragazzo risorto dalle ceneri e diventato eroe e simbolo di un paese, una notte a Madrid. Con la maglia azzurra della Nazionale, sulla schiena cucito di bianco il dorsale numero 20. ‘Campioni del mondo’, ‘Campioni del mondo’, ‘Campioni del mondo’.
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