Un Mundial dimenticato? La storia di Patagonia ’42
La storia del calcio è fatta di uomini che giocano partite, che a loro volta segnano piccole e grandi storie di questo sport.
E di competizioni, che per l’importanza assunta nel tempo permettono massimi momenti di esaltazione.
Una di queste, la più affascinante se non la più importante, è il campionato mondiale, quella tenzone che mette di fronte, ogni quattro anni, le rappresentanti di tutto il globo calcistico, melting pot di popoli e di idee calcistiche che si sfidano per primeggiare, per confrontarsi o anche, semplicemente, per partecipare.
Una storia, quella dei mondiali, ricca, appunto di campioni duraturi o momentanei, di partite che sono diventate epopea, rimaste nell’immaginario di chi le ha vissute e di chi ne ha sentito il racconto.
È dal 1930 che ogni quattro anni si svolge questo torneo senza interruzioni se non quella dovuta alla guerra, o almeno si pensava così, perché la storia che andiamo a raccontare potrebbe riscrivere quel periodo.
C’è da aggiungere, prima di riprendere il discorso, che una tale concentrazione di partite, un così grande coacervo di vicende umane, finisce per generare anche qualche leggenda, ed in effetti è di una leggenda che vogliamo narrare, talmente improbabile da poter essere anche verosimile.
Per questo nostro racconto dobbiamo risalire al 1942, nel pieno della seconda guerra mondiale.
L’ultimo campionato del mondo di calcio, nel 1938 in Francia, aveva visto trionfare per la seconda volta consecutiva l’Italia di Vittorio Pozzo, poi le cannonate avevano sostituito le urla di gioia dei tifosi, in un baratro di orrori e follie che, in quel momento, sembrava senza fine.
O quasi, stando al grande scrittore e giornalista argentino Osvaldo Soriano, che scrisse: “I Mondiali del 1942 non figurano in nessun libro di storia, ma si giocarono nella Patagonia argentina”, frase tratta da un suo racconto, “Il figlio di Butch Cassidy”, che ritornerà in questa storia.
Improbabile già il luogo: passi per l’Argentina, ma la Patagonia?
Divisa a metà tra Argentina, appunto, e Cile, fu questa l’impervia regione scelta dal conte Vladimir Otz per organizzare questo mondiale.
Questi era un mecenate di origini balcaniche trasferitosi in Patagonia, tanto stravagante quanto inverosimile, innamorato del calcio al punto di organizzare proprio un mondiale anche in nome della pace che in quel momento non c’era in Europa e nel mondo, pure in quel paradisiaco, ma sperduto, angolo del mondo, anche se per la verità forse l’unico possibile in quel momento di follia e di guerra totale.
Partita l’idea, con tanto di richiesta ufficiale alla Fifa, aderirono dodici nazioni: c’erano l’Italia e la Germania, naturalmente, il Brasile, la Francia, l’Uruguay, la Polonia, l’Unione Sovietica, la Spagna, ma anche la prima volta dell’Inghilterra, aventiniana in quel periodo a livello ufficiale, con Argentina e Cile, paesi ospitanti ma non partecipanti, che furono sostituiti, rispettivamente, dalla tribù dei Mapuche e dai rappresentanti del Regno di Patagonia.
Se, a parte gli ultimi due, i nomi delle nazionali partecipanti possono far pensare ad un buon livello tecnico, diverso il discorso per quel che riguarda la composizione delle stesse: bisogna, infatti, scordarsi i grandi nomi dell’epoca, perché quelle squadre erano composte da minatori, operai, delinquenti, ladri, avventurieri in genere.
Poco a che fare con il calcio vero, così come approssimativa era l’organizzazione, con l’arbitraggio delle gare affidate ad un unico personaggio, tale nel vero senso della parola, William Brett Cassidy, figlio di quel Butch Cassidy che fu uno dei più famosi criminali del West, raccontato da Soriano come detto, un arbitro molto sui generis, che prendeva a pistolettate i giocatori che non concordavano con le sue decisioni, e che non lesinava le bustarelle per addomesticare i risultati.
Con queste premesse, il torneo si sviluppò non senza intemperanze e sospetti di imbrogli sull’arbitraggio di Cassidy, soprattutto a favore della Germania, che probabilmente non lesinò qualsiasi soluzione per arrivare a diventare campione del mondo, visto il delirio di onnipotenza loro e di chi li guidava.
Dalla fase a gironi alle semifinali arrivarono la Germania che avrebbe affrontato l’Italia, e i Mapuche che si sarebbero trovati di fronte l’Inghilterra.
Quasi a voler anticipare quella che sarebbe stata la storia vera poco meno di trent’anni dopo, più o meno a quelle latitudini, i tedeschi si imposero sull’Italia per quattro a tre dopo i tempi supplementari, e in finale avrebbero affrontato i Mapuche che superarono l’Inghilterra due a uno, anticipando anche in questo caso quanto sarebbe accaduto a Mexico 1986, qui senza la “mano de Dios”.
Come si può leggere, anni dopo la realtà avrebbe anche superato la fantasia, qui continua a regnare, alla fine vinsero i locali del Mapuche in un match funestato dalla pioggia, due a uno, e non concluso per lo straripamento di un fiume, forse allegoria dell’acqua che arriva a purificare i mali umani.
Alla fine, di tutta questa bella storia che ha il calcio come sfondo, è stato tratto anche un film, “Il Mondiale dimenticato”, di Lorenzo Garzella e Filippo Macelloni, a noi interessa rimarcare la suggestione ulteriore del pallone, talmente forte dal suggerire di costruire storie dove si può perdere il senso tra finzione e realtà, ma forse è il calcio stesso un sogno reale vissuto novanta minuti alla volta, su qualsiasi campo dove rotola un pallone.
GLIEROIDELCALCIO.COM (Raffaele Ciccarelli)