GLIEROIDELCALCIO.COM (Danilo Comino) – Nel 1978 Edson Arantes do Nascimento, noto a tutti come Pelé, entrò nel novero delle celebrità ritratte dal maestro della pop art Andy Warhol. Il campione brasiliano aveva da pochi mesi concluso una carriera inimitabile, che lo vide segnare la cifra astronomica di 1286 gol in 1351 partite, vincere numerosi titoli nazionali, continentali e intercontinentali con il suo club, il Santos e, soprattutto, sollevare per ben tre volte la coppa del mondo col Brasile. Ancora oggi Pelé è l’unico calciatore della storia ad aver vinto tre volte i mondiali di calcio. Per il suo addio al “soccer” il 1° ottobre 1977 fu organizzata al Giants Stadium di New York un’amichevole tra Santos e Cosmos, gli unici due club in cui giocò in carriera; l’incontro fu disputato in uno stadio gremito di spettatori e fu un evento mediatico trasmesso in trentotto paesi del mondo.
Il ritratto di Pelé fa parte di una serie di dieci ritratti di campioni sportivi commissionata a Warhol in quello stesso 1977 dal collezionista statunitense Richard Weisman. Le opere raffigurano, oltre al calciatore brasiliano, il pugile Muhammad Alì, il cestista Kareem Abdul-Jabbar, il giocatore di football americano O.J. Simpson, il golfista Jack Nicklaus, la tennista Chris Evert, la pattinatrice artistica Dorothy Hamill, il fantino Willie Shoemaker, la stella di hockey su ghiaccio Rod Gilbert e il campione di baseball Tom Seaver. Gli atleti scelti da Weisman erano tutti statunitensi a eccezione del canadese Gilbert e del brasiliano Pelé (che però giocavano entrambi per squadre newyorkesi), ma soprattutto erano tutti delle celebrità. È lo stesso Weisman a spiegare le ragioni di questo ciclo pittorico: «Sentì che mettere insieme la serie fosse naturale, giacché due delle più popolari attività di svago del tempo erano lo sport e l’arte, che a mia conoscenza non avevano ancora una connessione diretta. Pertanto pensai che la serie di Andy avrebbe ispirato chi amava lo sport ad andare nelle gallerie d’arte forse per la prima volta, e coloro cui piaceva l’arte a dare un primo sguardo alle superstar dello sport». Fino allora Warhol non aveva avuto particolare interesse per lo sport sebbene la prima opera in cui sperimentò la stampa serigrafica da fotografia, una delle sue tecniche più tipiche, avesse proprio un tema sportivo: mi riferisco a Baseball del 1962.
Andy Warhol, The athletes series, 1978. (Foto christies.com)
Andy Warhol è il più celebre esponente della pop art, il movimento artistico nato nella Gran Bretagna della seconda metà degli anni Cinquanta, che pose al centro del suo interesse la moderna civiltà dei consumi con le sue merci e le sue tecniche di comunicazione. Le opere d’arte pop si caratterizzavano per le iconografie tratte da ambiti che l’alta cultura definiva “bassi” come la pubblicità, i mass media, o i fumetti: infatti, “pop” è l’abbreviazione di “popular”. In questa scelta di temi e linguaggi popolari e correnti, tipici della nuova società consumistica, gli artisti pop si posero in netto contrasto con la cultura tradizionale. Sebbene fosse nata in Gran Bretagna, la pop art raggiunse la sua massima notorietà internazionale negli Stati Uniti degli anni Sessanta. Gli artisti pop tornarono a un’arte realista, anche se in forme completamente nuove rispetto alle correnti realistiche anteriori. Infatti, crearono immagini facilmente riconoscibili, volutamente “basse” e popolari, utilizzando o imitando tecniche di produzione seriale tipiche della società dei consumi. Ad esempio, Roy Liechtenstein dipinse quadri di grandi dimensioni che riproducevano la colorazione a puntini caratteristica dei fumetti, mentre James Rosenquist realizzò opere di grande formato ispirate all’immaginario tipico dei cartelloni pubblicitari. Dal canto suo, Andy Wahrol accentuò la serialità della produzione artistica e lo fece in due modi diversi. Da un lato, scelse simboli della società dei consumi statunitense e li dipinse in sequenza come, ad esempio, nelle serie dei barattoli di zuppe Campbell’s; dall’altro, fece propria una tecnica tipica dei mass media come la fotografia e, mediante la stampa serigrafica, riprodusse più volte la stessa immagine: si vedano i ritratti di divi del cinema e della musica come Marilyn Monroe ed Elvis Presley o le scene d’incidenti automobilistici. Per Andy Warhol tutto faceva parte della moderna civiltà statunitense ed era divulgato dai mass media allo stesso modo: i prodotti di largo consumo come le zuppe Campbell’s o la Coca Cola, le celebrità del mondo dello spettacolo o le notizie di cronaca nera. L’arte di Warhol non faceva che riflettere questa società come uno specchio. Va evidenziato che, con l’uso di tecniche di riproduzione industriali, Warhol eliminava due caratteristiche tradizionali dell’opera d’arte: la sua unicità inimitabile e il tocco inconfondibile del suo creatore. Non a caso il suo studio newyorkese si chiamava “The Factory”, ossia “La Fabbrica”. La rottura con il concetto di arte tramandato dalla tradizione non poteva essere più netta. Nel 1963 Warhol giunse a dichiarare provocatoriamente “credo che chiunque dovrebbe essere capace di dipingere tutti i miei quadri per me”. La figura di Warhol si identifica a tal punto con la moderna civiltà dei consumi occidentale, da rispecchiarne gli aspetti più caratteristici come il culto per la ricchezza, la fama e la bellezza. Per Warhol, non solo l’arte era alla portata di tutti, ma anche la fama: il catalogo di un’esposizione in suo onore organizzata a Stoccolma nel 1968 conteneva questa frase, che nel tempo è divenuta quasi un simbolo del nostro artista: “in futuro tutti saranno famosi nel mondo per quindici minuti”. Un’affermazione che oggi pare più che mai attuale.
Andy Warhol, Pelé, 1978 (Foto christies.com)
Warhol aveva un debole per le celebrità come dimostrano i ritratti di stelle del cinema e del rock che realizzò a partire dal 1963. Negli anni Settanta si specializzò nella produzione di ritratti di ricchi personaggi, un’attività che gli faceva guadagnare molti soldi. Del resto, la relazione arte/denaro era molto importante per Andy Warhol, che giunse ad affermare quanto segue: “essere bravi negli affari è il tipo di arte più affascinante. Fare soldi è arte, lavorare è arte e i buoni affari sono la migliore arte”. Quando nel 1977 Weisman gli commissionò la serie dei campioni sportivi, Warhol si mise subito all’opera, un po’ per i soldi che avrebbe incassato – 800.000 dollari – un po’ perché le stelle dello sport erano forse le uniche celebrità che non aveva ancora raffigurato. All’epoca la sua tecnica ritrattistica era ormai ben consolidata: iniziava scattando numerose foto del suo modello con la sua Polaroid, in seguito sceglieva l’immagine che più gli piaceva e la trasferiva su una tela mediante la tecnica della serigrafia. A volte la tela era già stata dipinta con pennellate dai colori vivaci; in altri casi le pennellate erano successive alla stampa serigrafica; altre volte i tocchi di colore precedevano e seguivano la stampa. Coerente con la sua filosofia, Warhol produceva le sue opere in serie: è questo il motivo per cui ci sono varie versioni dei suoi ritratti di sportivi. Ovviamente, la serie originale fu collocata nella casa del committente Richard Weisman.
Andy Warhol, Pelé, 1978. College Park, University of Maryland Art Gallery (foto Artribune.com)
I dieci ritratti di sportivi di Warhol hanno caratteristiche comuni: raffigurano gli atleti in primo piano, a distanza ravvicinata, focalizzando l’attenzione tanto sul loro volto quanto su un oggetto che simboleggia il loro sport (un pallone da calcio, da basket, da football americano, una racchetta, una mazza da golf ecc.). Il ritratto di Pelé rappresenta l’asso brasiliano sorridente mentre regge un pallone della linea a lui dedicata dall’azienda statunitense di articoli sportivi Spalding. In sostanza, il volto di Pelé è associato a un prodotto da lui stesso sponsorizzato. Ci sono più varianti del ritratto: in una dominano toni delicati di azzurro, grigio e verde, mentre in un’altra i colori sono così vivaci e intensi da dare all’opera un carattere quasi aggressivo. Si può notare che, in tutte le versioni, le componenti astratte – forme e colori – giocano con quelle figurative – il volto e il pallone – accompagnandone i contorni o sovrapponendosi a essi. In questo modo Warhol creò una tensione dinamica tra le vivaci superfici colorate e il nero della stampa serigrafica.
Andy Warhol, Pelé, 1978. Bloomfield Hills, Cranbrook Art Museum (foto cranbrookartmuseum.org)
Il più grande campione dello sport più seguito nel mondo diventa, quindi, nel quadro di Warhol un’icona pop come Elvis Presley, Marylin Monroe o Elizabeth Taylor. Del resto, proprio per la sua grande popolarità Pelé fu ingaggiato dai New York Cosmos nel 1975. Ritiratosi una prima volta dal calcio nel 1974, fu pochi mesi dopo chiamato dalla Warner Communications, proprietaria dei New York Cosmos, che gli offrì un contratto stellare. Pelé avrebbe dovuto risollevare le sorti del club newyorkese e della North American Soccer League (NASL), il campionato di calcio professionistico statunitense. La Warner si proponeva anche di sfruttare la notorietà dell’asso brasiliano in show e in film da lei prodotti. In effetti, nel corso della sua vita Pelé ha partecipato a vari film; quello più famoso però è successivo agli anni della Warner: mi riferisco, ovviamente, a Fuga per la vittoria di John Huston del 1981, in cui recitò al fianco di Michael Caine, Sylvester Stallone e altri calciatori tra cui Bobby Moore, Osvaldo Ardiles e Werner Roth, già suo compagno nei Cosmos. Uno dei momenti più noti del film è il gol in rovesciata di Pelé, una scena che ha contribuito a estendere ulteriormente la notorietà del campione brasiliano.
Manifesto del film Escape to Victory (Fuga per la vittoria), 1981
Si racconta addirittura che Warhol abbia detto di Pelé che era l’unica celebrità che, invece di quindici minuti di fama, avrebbe avuto quindici secoli.