«Dicen los muchachos del oeste Argentino que tengo más tiro que el gran Bernabé». Basterebbero questi pochi versi de El Sueño del Pibe, il tango scritto e musicato dal maestro italo-argentino Osvaldo Pugliese, per descrivere quanto Bernabé Ferreyra, il prolifico cannoniere del River Plate, negli anni Trenta fosse entrato a far parte dell’immaginario collettivo della nazione e persino delle cronache anteguerra, tanto da aver procurato un immortale soprannome alla squadra di Buenos Aires con la banda rossa trasversale («i milionari») e cambiato per sempre i parametri del calciomercato in Argentina. Quella di Bernabé Ferreyra, meglio conosciuto come «la fiera», la belva, è una storia che ha fatto epoca e che contribuì enormemente a traghettare il fútbol argentino dalla sfera amatoriale a quella professionistica.
Il decennio infame
La crisi economica del 1929, dovuta al crollo della borsa di Wall Street, colpì anche l’America Latina. Da Rio de Janeiro al Rìo de la Plata crollarono per primi i prezzi e il valore delle materie prime da esportare in Europa, su cui si basava gran parte dell’economia sudamericana. Conseguentemente toccò agli introiti provenienti d’oltreoceano, che calarono del 50%, causando una vasta disoccupazione e diverse agitazioni sociali.
L’effetto immediato del dissesto economico tracimò nella sfera politica. La democrazia cominciò a capitolare in tutto il mondo, e in Paesi come Brasile e Argentina, dove aveva appena iniziato a muovere i primi passi, il crollo apparve più repentino. Il decennio degli anni Trenta fu un drammatico periodo che ancora oggi viene ricordato dai libri di storia con il nome di «Década Infame», una fase turbolenta contraddistinta soprattutto da numerosi colpi di Stato.
Il primo si consumò a Buenos Aires, dove il generale José Uriburu e Agustín Justo avrebbero mantenuto il potere manu militari per oltre sette anni, trincerando il Paese dietro il nucleo ideologico del populismo sudamericano.
Come spesso accaduto nella storia dell’umanità, il calcio offrì alla politica un assist perfetto per fortificare le proprie posizioni autoritarie. Al teatro Kroll di Berlino, durante il 23° congresso della Fifa, gli argentini avevano avanzato la propria candidatura a ospitare il Mondiale del 1938 forte della capacità dei propri stadi, idonei a ospitare oltre quarantamila tifosi ciascuno. Inoltre, nella relazione sul tavolo della Fifa, stilata dai funzionari della Federazione calcistica nazionale (Afa), il Paese veniva descritto come «il più cosmopolita e libero del mondo. Qui si trovano riuniti un’immensa quantità di uomini e di donne di tutte le nazionalità, che godono di benessere e frequentano gli spettacoli sportivi».
Effettivamente, da quando nel 1931 era nata la Primera División, il primo campionato professionistico, il fútbol rioplatense aveva dato avvio a quell’impennata decisiva che presto avrebbe portato le proprie squadre a giocarsela ad armi pari con quelle del Vecchio continente.
Tuttavia, all’Argentina venne negato il diritto di ospitare la Coppa Rimet del 1938, come prevedeva la regola (non scritta) dell’alternanza tra Europa e America Latina. Lo sgarbo di Jules Rimet, che regalò l’organizzazione della kermesse alla ‘sua’ Francia, incontrò le energiche proteste del governo argentino. Justo sfruttò “l’affronto” per ergersi ancor di più a strenuo difensore della volontà dei cittadini, e serrare sempre più le fila in funzione autoritaria, antiliberale e populista.
Bernabé, la fiera
Nel frattempo, il primo campionato professionistico della storia argentina si era contraddistinto non solo per il gran numero di gol messi a segno (1099), ma anche per la quantità e la qualità dei suoi interpreti.
Il Boca Juniors, che si aggiudicò il torneo, fu trascinato dal «Cañoncito» Francisco Varallo. L’agile cannoniere di La Plata, è tuttora il secondo goleador di sempre degli «xeneizes», alle spalle di Martín Palermo. Dopo il ritiro sarebbe diventato allenatore e militante peronista. Ma il giorno del suo funerale, al quale avrebbero partecipato numerose stelle del calcio argentino, il quotidiano «Crónica» sul suo necrologio scrisse: «Fu Pancho Varallo. Era storia vivente. E ora sarà leggenda».
Il terzo posto della classifica fu occupato dall’Estudiantes, lanciato dalla famosa linea d’attacco formata da «Los Profesores» Alberto Zozaya, Alejandro Scopelli e Guaita. Gli ultimi due, qualche anno dopo, sarebbero stati aggettivati dalla stampa fascista «spregevoli disertori e traditori», rei di aver abbandonato la Roma e l’Italia temendo la coscrizione obbligatoria nell’esercito in partenza per la Guerra in Etiopia.
Ventidue gol per Herminio Masantonio dell’Huracán. Figlio di immigrati italiani, la prolifica punta argentina segnerà in tutta la sua carriera 254 gol, un record che ancora oggi gli consente di occupare il terzo scalino sul podio dei maggiori cannonieri nella storia del calcio argentino.
Ma a finire nella lista della spesa di molti presidenti fu invece il giovane Bernabé Ferreyra, il quale realizzò la bellezza di venti gol con il Tigre, squadra mediocre giunta terz’ultima in classifica. L’attaccante santafesino era dotato di un tiro talmente potente da indurre molti giornalisti increduli a chiedergli di mostrare che nella punta delle scarpe non nascondesse apposite imbottiture di ferro. I tifosi, per questo motivo, lo chiamavano «la fiera», perché rimanevano impressionati dalla sua incredibile forza animalesca.
La statistica che impressionò maggiormente gli osservatori dell’epoca fu la strepitosa media-gol realizzata da Ferreyra: venti gol in sole tredici partite giocate. Il dato non passò inosservato neanche agli occhi del nuovo presidente del River Plate, Antonio Vespucio Liberti. Il primogenito dei due immigrati genovesi che avevano fatto fortuna in Argentina, da qualche tempo si era messo alla ricerca febbrile di una punta che potesse assicurare tanti gol alla sua squadra, la quale non coglieva la vittoria in campionato dal lontano 1920.
Quelli del Tigre avrebbero voluto trattenere la promettente punta, dunque risposero a Liberti che, in mancanza di un’offerta consistente, Bernabé sarebbe rimasto a giocare ancora nella piccola cittadina di Victoria.
A quel punto Liberti si presentò con una grossa borsa in pelle e, poggiandola sul tavolo, ne estrasse un lingotto d’oro massiccio. Davanti a questo sensazionale quanto inaspettato coup de théâtre, al rappresentante del Tigre per poco non venne un colpo.
Bernabé Ferreyra divenne così il protagonista di una pittoresca trattativa, e la notizia del suo dispendioso ingaggio viaggiò per tutto il Paese alla velocità del vento. Da quel momento in poi quelli del River Plate sarebbero stati conosciuti come «los millonarios». Talmente ricchi da potersi poi permettere anche la costruzione di uno stadio di proprietà, su un appezzamento di terreno acquistato ancora dal facoltoso presidente. Grazie a Liberti, ogni settimana circa settantamila tifosi avrebbero potuto assistere alle prodezze di Ferreyra all’interno dell’Estadio Monumental, che dalla fine degli anni Settanta avrebbe preso il nome del suo proprietario.
Sul campo da gioco, il dispendioso attaccante si rivelò un ottimo investimento, diventando in soli sette anni il numero uno di ogni epoca per media gol nel River Plate: 185 gol in 187 partite. Nei sette anni giocati a Buenos Aires, oltre a contribuire alla vittoria di quattro campionati, divenne anche una vera e propria leggenda vivente, scandendo le sue giocate al ritmo avvolgente di un tango di Carlos Gardel.
Difatti, anche l’immenso compositore ne sarebbe diventato un grande ammiratore. Prima di morire in un incidente aereo in Colombia, il maestro del tango fece in tempo a godere delle giocate de «la fiera» e a incontrarlo tra il pubblico durante una delle sue tante e gremite esibizioni. Secondo la ricostruzione di Carlo Pizzigoni nel suo Locos por el fútbol, Gardel si avvicinò un giorno al giocatore dicendo: «Así que usted es la Fiera?» («così lei sarebbe la “belva’?»). «No, maestro» gli rispose il timido Bernabé. «La vera fiera è lei quando canta».
Già, perché il cantante franco-argentino che a detta di molti giorno dopo giorno migliorava le proprie esibizioni canore, («cada día canta mejor»), in quello stesso periodo imperversava con i suoi successi nelle milonghe dei tanti barrios popolari. Gli argentini in suo onore suonavano il flauto e il bandoneón, la fisarmonica, mentre gli italiani ci mettevano las letras, le parole, creando così spettacoli musicali avvolgenti, melanconici e spesso violenti.
Quando Osvaldo Pugliese, uno dei tanti eredi di Gardel, dedicò il successo musicale di cui sopra a Bernabé Ferreyra, in occasione del suo precoce abbandono dalle scene calcistiche, a chi gli domandava il motivo del ritiro, pare che il campione rispondesse: «Preferisco ritirarmi dal calcio prima che lui si ritiri da me».