GLIEROIDELCALCIO.COM (Riccardo Balloi) – Quest’oggi torniamo a parlare di Sardegna e del Cagliari. Abbiamo rivolto alcune domande a Raffaele Paolino, classe 1969, attaccante, uno dei volti simbolo della rinascita del Cagliari alla fine degli anni ottanta. Una società che si era salvata da un fallimento praticamente decretato, che fu scongiurato in extremis da una cordata di piccoli imprenditori capitanati da Gigi Riva. Nel 1989 era di proprietà dei fratelli Orrù. Arrivato a Cagliari in serie B poco più che ragazzino, a “Lele” bastarono poche apparizioni per diventare l’idolo della curva, e chi non lo conosce, chi non lo ha vissuto, potrà capirne il motivo dalle sue parole e dai suoi brevi racconti.
- Raffaele Paolino, partiamo dalle origini. Prodotto del vivaio dell’Inter. Che genere di giocatore eri quando ancora calcavi i campi delle categorie giovanili?
Ai miei tempi, per poter anche solo pensare di giocare in società importanti, la tecnica di base era un fattore fondamentale, ed io ne ero dotato in buona misura. Però erano il temperamento e la forza di volontà le mie caratteristiche principali. Avevo uno spirito agonistico immenso e non mollavo mai.
- Cosa doveva avere un ragazzo per emergere in questo sport?
Intanto era necessario non deprimersi mai, cercare di andare avanti con entusiasmo e dedizione. Inoltre non avevamo nessun tipo di mezzo di comunicazione che non fosse quello interpersonale. Al campo, negli spogliatoi, si doveva parlare ed interagire. E non è una cosa così scontata, al giorno d’oggi.
- E’ cambiato il modo di insegnare calcio nei vivai, da trent’anni a questa parte?
Sì, in peggio, direi. Come dicevo, in passato era la tecnica di base il primo fattore che contava per un giovane calciatore, e su quella si lavorava. Oramai nei settori giovanili non si insegna più lo stop, il passaggio, la coordinazione. Gli allenatori, troppo spesso, utilizzano i giovani per conseguire risultati personali ed avanzare in carriera.
- Nella stagione ‘88/89 l’Inter vinse il campionato Primavera, l’anno dopo uno dei giovani più promettenti venne preso in prestito dal Cagliari, ci vuoi raccontare come andò?
Il Cagliari, negli anni della rinascita, non era una società ricca, e costruiva le sue squadre puntando sui giovani, i fratelli Orrù erano dei piccoli imprenditori.
Nel 1988 giocai la Coppa Carnevale di Viareggio con l’Inter, e sugli spalti, oltre a genitori, parenti e appassionati viareggini col cappellino, c’erano gli osservatori di un po’ tutte le squadre professionistiche. Io piacqui ad una società che non mandò un semplice esperto a vedere le nostre partite, mandò l’allenatore della prima squadra. Fui scelto personalmente da un giovanissimo Claudio Ranieri e l’anno dopo avrei traslocato in Sardegna.
- Approdasti in un Cagliari neo promosso in cadetteria, alla corte di Claudio Ranieri. Cosa ricordi di quella squadra?
Eravamo per lo più dei ragazzi. I veterani erano De Paola, Firicano, Valentini. Erano loro l’ossatura e noi dei giovanotti rampanti, un po’ spaesati ma con una carica e determinazione che era palpabile. Era come se sapessimo che in qualche modo, anche se partivamo in sordina, avevamo una marcia in più.
- Claudio Ranieri. Sappiamo tutti che carriera ha fatto. Ma quel giovane allenatore, trent’anni fa, com’era?
Certamente lui fu il migliore che io abbia mai avuto. Era un uomo onesto, che, pur essendo ancora giovane sapeva già come trattare con la particolare rosa che aveva a disposizione. Bastone e carota, come si suole dire. C’era qualcosa in lui che ci faceva perennemente trovare motivazioni, qualcosa che ci gasava anche nei momenti più difficili.
- Dimmi una curiosità su di lui.
Il Cagliari affittò una casa per noi giovani “continentali”, nel quartiere vicino al vecchio e glorioso Stadio Amsicora. I miei coinquilini erano Cappioli, Pisicchio, Greco, Rocco e Provitali. Una sorta di casa per studenti universitari. Ecco, ogni tanto suonavano al campanello, noi aprivamo e alla porta c’era Ranieri. Ci salutava, chiedeva come stavamo. Come un padre che andava a trovare suo figlio, controllava in ogni angolo che non ci fossero segni di malsana alimentazione, alcool, sigarette e soprattutto ragazze, poi si girava e se ne andava. Sempre salutando con la sua educazione e quel sorriso bonario e gentile.
- Si dice che una cosa su tutte lo mandava in bestia: chi si lamentava per le sostituzioni. E’ vero?
Verissimo. Una volta fu sostituito Cappioli, che percorse il tragitto verso la panchina bofonchiando qualcosa. Quando fu nei pressi del mister, lui lo chiamò per cognome e gli disse “qualcosa da dire?”. Ovviamente la risposta fu “no, Mister”.
- Ritrovarsi a vent’anni in una squadra di giovanotti ed essere promossi in Serie A. Cosa ha significato per te?
Questa è una cosa che ho realizzato solo maturando. Sarà per l’agonismo, per l’inconsapevolezza di un giovane quale all’epoca ero io. Però ci ripensai parecchio tempo dopo.
Fu una cosa apparentemente graduale, ma che vide una vera e propria esplosione, con l’invasione sarda di Pisa e i cinquantamila spettatori nella partita dopo. La città, ad un certo punto, si era fatta festosa, anche se la promozione sarebbe arrivata solo svariate settimane dopo.
- Al ritorno in serie A il Cagliari concluse il girone d’andata ultimo in classifica. Poi una cavalcata trionfale verso la salvezza. E tu c’eri. Quale fu il punto di rottura per il cambio di passo?
Arrivammo a Dicembre con una sola vittoria, conquistata nella trasferta di Napoli. Giocavamo bene e soprattutto correvamo, ma non riuscivamo a fare punti, e così sotto Natale eravamo ultimi. Poi successe che facemmo un pazzo 2-2 contro la Juventus a Torino. Segnarono Cornacchia e Cappioli. Io entrai allo scadere al posto di Fonseca. E lì cominciammo a crederci. Tornammo ad essere quell’armata di cavalli pazzi che eravamo stati in serie B l’anno prima. Lo stesso Fonseca poi cominciò a segnare, in tanti ricorderanno la rimonta a Marassi con la Sampdoria dall’iniziale due a zero, con una sua doppietta. Un pallonetto bellissimo e una rovesciata.
- Chi ti conosce sa quanto tu ami il Cagliari e ne sia un grande sostenitore. Come è nato questo amore?
Io sono nato interista, e fino alla Primavera ero nella squadra che avevo sempre sognato. Poi conobbi Cagliari. La gente che mi fermava sotto casa, quell’enorme stadio colmo di gente, la Curva Nord. In una partita in cui ero squalificato, il direttivo degli Ultras mi invitò ad assistere alla gara in curva con loro. Mi vennero a prendere a casa alcuni ragazzi. Uno di questi si chiamava Albino. Mi accompagnarono allo stadio ed entrai con loro che mi facevano da guardie del corpo: centinaia di tifosi pieni d’amore volevano abbracciarmi e stringermi la mano, non avrei mai concluso la giornata tutto intero. Mi fecero salire sulla balconata del secondo anello, che nel loro gergo si chiama “il Muretto”. Da qualche parte ho le foto, era Cagliari- Avellino.
Ecco, dopo che andai via dal Cagliari, per tutta la carriera fino ad oggi che faccio l’allenatore, a fine partita il primo pensiero è “quanto ha fatto il Cagliari?”. Come progetto di vita ho di stabilirmi in Sardegna, ed appena potrò lo farò.
- “Gonfia la rete, Paolino gonfia la rete” (sulle note di Guantanamera). La curva Nord del Cagliari saranno vent’anni che non riserva un coro ad un giocatore. A te invece nel 1989 ne riservarono diversi. Ne sei consapevole?
E come no. I cagliaritani furono tra i primi in Italia ad abolire i cori verso il singolo giocatore. Per fortuna io giocai al Sant’Elia qualche tempo prima della loro decisione. Ricordo tre cori dove veniva pronunciato il mio nome. Anche questa è una cosa su cui ho riflettuto a posteriori, e credo che la fortuna di essere tanto amato da quella gente derivi dal mio modo di stare in campo. Sempre in scatto, sempre a rincorrere, sempre affamato.
- Cosa si prova a ricevere palla o dettare un passaggio mentre mille persone cantano il tuo nome?
Calore, un senso di protezione che credo sia impossibile spiegare. Ricordo a Febbraio 1990, vincevamo 3-1 contro il Catanzaro in cui peraltro segnò il grande Massimo Palanca. Io da alcuni mesi non riuscivo a trovare la via del gol. La Curva Nord decise che quella doveva essere la partita in cui il digiuno sarebbe finito. Per trenta minuti cantarono un coro per me: “Forza Lele, forza Paolino alé”. Trenta minuti, senza smettere mai. Un luogo comune dice che i sardi siano cocciuti, ed in quel caso la cocciutaggine portò la mia felicità. Guadagnammo un rigore e Bernardini, il nostro rigorista, me lo cedette. Segnai e nonostante fosse il quattro a uno, vidi la curva venire letteralmente giù. Corsi verso di loro e fui pervaso da un’onda di voci e di espressioni sarde di quelle che fanno piccare il cuore.
- Hai giocato col Principe Enzo Francescoli, e avevi ventuno anni. Vuoi raccontarci qualcosa al riguardo?
Quando seppi che il Cagliari aveva acquistato El Principe ero a Milano, e non ci volevo credere. Ricordo che tornai dalle vacanze e mi ritrovai in ritiro con lui, Matteoli, Fonseca ed Herrera. Da un mese all’altro la nostra squadra neopromossa aveva acquistato giocatori di livello internazionale. E Francescoli era un leader con tutti i crismi. Allenamenti al massimo, sempre il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarsene. E poi, palla al piede, era qualcosa di impossibile da raccontare.
- Il difensore più forte che ti ha marcato?
A parte Costacurta e Maldini, che erano difensori che ti facevano passare novanta minuti di pressione, ricordo Pasquale Bruno. Duro e cattivo negli interventi. Lui sì che picchiava!
- La tua partita memorabile?
Brescia- Cagliari dell’Ottobre 1989. Segnai il mio promo gol nei professionisti. Nel settore ospiti c’erano diecimila tifosi rossoblù. Segnai il pareggio e poi vincemmo con gol di Provitali. L’urlo dei sardi al mio gol sembrò una bomba.
- Paolino dopo il biennio al Cagliari.
La mia carriera fu rallentata da un infortunio alla schiena che mi tenne lontano dal campo per un anno, e dal quale subii degli strascichi per molto tempo a venire. Giocai a Modena cinque anni e poi nel Venezia, con Zaccheroni.
Mah, ne avrei tanti. Però voglio raccontarvi il giorno in cui arrivai. Non sono passati cento anni, ma anche ai miei tempi la Sardegna era “più lontana” rispetto ad oggi. Io vi arrivai a diciannove anni. Scesi dall’aereo e scoppiai in lacrime: la nostalgia di casa, l’idea di essere in un luogo così lontano e diviso dal resto del mondo dal mare. Insomma, un po’ tutto.
Fuori dall’aeroporto mi aspettava un uomo della dirigenza. I tifosi del Cagliari se lo ricorderanno, perché aveva una gamba sola. Mi fece salire sulla Fiat Tipo che lui stesso guidava e mi guardò, poi mi sorrise e mi disse “a Cagliari è sempre così: piangi ora che sei arrivato e piangerai di nuovo alla partenza”.
Oggi sono il responsabile tecnico del settore giovanile del Cantù, che a sua volta è affiliato all’Atalanta. Sono anche una sorta di doppio allenatore, perché mi occupo di due categorie differenti.
Noto oramai che i giovani sono cambiati com’è cambiata la società, non hanno spirito di sacrificio ed è sempre più difficile trovare loro degli stimoli.
Salutiamo Lele Paolino, e chi scrive ricorda i tempi in cui il Cagliari tornava alla ribalta del calcio che conta. Paolino e Provitali, De Paola e Firicano, “l’amico” Mario Ielpo (come recitava un simpatico coro dei tifosi), Gianluca Festa, Bernardini e Coppola, dopo quasi trent’anni più che ricordi sono una sorta di figura retorica. L’immagine di undici ragazzi con i capelli bagnati di sudore, una palla che triangola dal centrocampista al centravanti per poi finire all’ala che s’inserisce ed insacca, uno stadio gigantesco e traboccante di affamati di sport e di gloria. Una città col fiatone, il respiro corto per emozioni e sensazioni che solo chi ama una squadra che vince una volta ogni tanto può provare. Ed è vero: Paolino aveva qualcosa di appiccicoso su di sé, Paolino attirava gli sguardi e vederlo in campo, come si dice a Cagliari, era un infogo.