SSLAZIOFANS.IT (Stefano Greco) – Oggi Luciano Re Cecconi avrebbe compiuto 70 anni. E oggi fa ancora più impressione pensare che quel sorriso che lo ha sempre contraddistinto si sia spento più di 40 anni fa. Raccontare che cosa era per quelli della mia generazione Luciano Re Cecconi è quasi impossibile. O meglio, per come la vedo io è impossibile farlo meglio di come l’ha fatto Carlo D’Amicis in quel magnifico libro “Ho visto un re”, uscito alla fine del 1998, in occasione di quello che sarebbe stato il cinquantesimo compleanno di quell’angelo biondo, di “quell’eroe biancoceleste che giocava alla morte ed è morto per gioco”, come ha scritto D’Amicis nel sottotitolo di quel libro. Già, perché Luciano era esattamente come ci hanno sempre descritto gli angeli: vestito di bianco e di celeste, con in testa un casco di capelli biondi che somigliavano ad una corona tutta d’oro. A quel RE che portava nel cognome e che ha una strana origine, ma di questo parlerò dopo.
Mi è difficile parlare di Luciano Re Cecconi e della sua carriera, come si dovrebbe fare in occasione di un compleanno narrando vita e opere del personaggio. E’ difficile perché pensando alla storia di Cecco mi torna subito in mente la fine del breve libro su una vita straordinaria, l’ultimo capitolo. Perché ci sono episodi nella vita che restano per sempre fissati nella mente, momenti in cui il tempo sembra fermarsi e con lui anche il tuo respiro. E per me, uno di questi episodi è legato al 18 gennaio del 1977, il giorno della morte di Luciano Re Cecconi. Sono appena tornato a casa dagli allenamenti infangato e infreddolito e dopo una rapida doccia aspetto di andare a cena. Sono contento, perché quel pomeriggio prima di andare ad allenarmi all’Acqua Acetosa, ho fatto un salto con il motorino a Tor di Quinto e ho visto Luciano Re Cecconi giocare tutta la partitella. “A Cesena gioca” ci siamo detti tra amici, felici, con in tasca già la prenotazione per quella trasferta in programma il 30 gennaio. “Cecco” è reduce da un brutto infortunio rimediato il 24 ottobre all’Olimpico contro il Bologna. Un infortunio che a detta di Renato Ziaco (che ama esagerare sui tempi di recupero, per poi far passare come miracolosi i rientri in campo a tempo di record dei suoi ragazzi), doveva tenerlo fuori almeno fino a marzo. A metà gennaio, invece, “Cecco” è già pronto, il suo ginocchio è perfettamente guarito, lui è in forma e ha il sorriso stampato sulle labbra. Il sorriso di chi torna alla vita. Ad un certo punto, a casa arriva una telefonata. Sento mio padre che risponde e dopo una lunga pausa dice: “Ma sei sicuro?”… poi, il silenzio. Sento dei passi quasi trascinati in corridoio, poi vedo la porta della mia camera che si spalanca e dietro compare mio padre a testa bassa, che con gli occhi gonfi mi sussurra: “Stefano, è successa una brutta cosa, hanno sparato a Re Cecconi”.
E’ l’alba degli Anni di Piombo, quelli che ho appena raccontato in “Faccetta biancoceleste”. Roma è una città in cui si spara tutti i giorni, ma a cadere sono soprattutto ragazzi di destra e di sinistra, oppure poliziotti e carabinieri, non “eroi invincibili”. Perché ai miei occhi, Luciano Re Cecconi è come il “Mitico Thor” dei fumetti della Marvel, il biondo vichingo “Dio del tuono” creato dal genio di Jack Kirby e Stan Lee. Si può ferire, ma poi si rialza sempre e vince. Quella sera, invece, Luciano Re Cecconi è rimasto a terra, non si è rialzato più. E con lui, è morta una buona parte del ragazzo spensierato che c’è in me. Ricordo quei minuti di speranza davanti al televisore, a pregare che non fosse nulla di grave, poi, proprio quando stanno per partire i titoli di coda del Telegiornale, arriva come una mazzata l’annuncio: “Luciano Re Cecconi è morto”. Ascolto ma mi rifiuto di accettare quello che ho appena sentito. Ma sento quella fitta dentro, impossibile da dimenticare anche a quasi 39 anni di distanza.
Il giorno dopo a Roma il cielo è nero e piove. Scuola è a 400 metri da casa, ma quel giorno il tragitto sembra lungo come quello di una maratona. Le gambe sono pesanti come il cuore e nella testa rimbombano quelle parole: “Luciano Re Cecconi è morto”, la stessa frase sparata sulle locandine dell’edicola di piazza Gentile da Fabriano a metà strada tra casa e Villa Flaminia. Quel giorno ho compito in classe di italiano e il tema di cronaca è: “Luciano Recconi, pensieri e riflessioni su una morte assurda”. Scrivo più di sei pagine protocollo fitte, fitte. Le scrivo di getto, direttamente in bella, trasferisco con l’inchiostro in quelle righe tutto il mio dolore per la perdita del mio idolo d’infanzia. Prendo 9. Avrei preferito prendere 8, come il suo numero di maglia.
In quegli anni d’oro, Chinaglia è un simbolo per tutti, è il leader, ma quel gigante biondo dal fisico massiccio e dai grandi polmoni, colpisce subito la mia fantasia. Come la sua storia. Nato il 1° dicembre del 1948 a Nerviano, figlio di una modesta famiglia brianzola, Re Cecconi lascia ben presto la scuola per lavorare in una carrozzeria insieme al cugino. Per hobby, gioca a calcio. Poi, quando Carlo Regalia lo scova nel polveroso campo dell’Aurora Cantalupo e lo porta alla Pro Patria, l’hobby diventa un lavoro vero e proprio. Dopo due stagioni va a Foggia, tra i professionisti, dove incrocia l’uomo più importante della sua vita: Tommaso Maestrelli. Sotto le abili mani del “maestro”, quel ragazzone dai polmoni d’acciaio ma dai piedi un po’ ruvidi, si sgrezza. Diventa uno dei punti fermi del Foggia, poi quando Maestrelli arriva a Roma chiede e ottiene di averlo con sé nella Lazio, facendo spendere a Lenzini 300 milioni di lire. Che all’epoca sono una cifra, l’incasso di un Lazio-Juventus da tutto esaurito. Ricordo un’immagine, una foto pubblicata da Paese Sera di lui con la valigia in mano alla stazione Termini, appena arrivato da Foggia. Quella testa bionda in mezzo a tante teste nere, colpisce immediatamente la mia immaginazione. In anni di frontiere chiuse, quel numero 8 in maglia biancoceleste è il nostro Günter Netzer, o come lo ha soprannominato Franco Melli, “Cecconetzer”. Ricordo come fosse ieri il suo primo gol in serie A con la maglia della Lazio, quella bomba con cui piega l’Atalanta allo stadio Olimpico il 25 marzo del 1973. Nell’anno dello scudetto, segna all’esordio al Vicenza, poi realizza quel gol incredibile al Milan all’ultimo minuto a cui fa seguito un boato che nella mia memoria è secondo solo a quello del gol di Fiorini a Lazio-Vicenza. Ma il gol che ho scolpito nella mente, è l’ultimo. Prima giornata di campionato, il 3 ottobre del 1976 all’Olimpico è di scena la Juventus. La Lazio domina, ma va sotto, Re Cecconi come al solito è l’ultimo ad arrendersi: sotto la Curva Sud, salta di forza un giocatore della Juventus, vince un contrasto, poi sull’uscita di Zoff lo batte con un tocco di esterno destro, con il pallone che bacia il palo lontano prima di finire la sua corsa in rete. Alla “Domenica Sportiva”, viene votato come il più bel gol della giornata. Un gol di forza e di classe, un gol alla Re Cecconi.
In quella stagione maledetta, s’infortuna il 24 ottobre, all’Olimpico, al 20’ minuto della sfida stravinta con il Bologna: lesione al menisco. Quella, resta l’ultima delle sue 109 partite di campionato giocate con la maglia della Lazio. L’ultima partita di una carriera che gli ha regalato la gioia di uno scudetto che lo ha reso immortale e l’esordio con la maglia azzurra, il 28 settembre del 1974 a Zagabria contro la Jugoslavia. L’ultima partita del RE. Ma sulla strana storia di quel cognome è Franco Melli a fare chiarezza, in un’intervista che mi è rimasta impressa.
“Quel Re davanti al mio cognome, è proprio un regalo del re. Vittorio Emanuele II° passò per Busto Arsizio e per Nerviano e gradì la buona cucina, l’accoglienza ricevuta. Allora volle beneficiare la gente delle nostre campagna lombarde con un dono simbolico ma indelebile. Così, i Cecconi diventarono pomposamente Re Cecconi, i David Re David, in base al riconoscimento stampato. Il regalo di Vittorio Emanuele II°, trasmesso di generazione in generazione, l’ho accolto con orgoglio. E’ una ricchezza che il mondo non potrà mai portarmi via. Ho il cognome ornato. E suona bene”.
Quel Re non glielo porta via nessuno, quel sorriso che riempiva il cuore, glielo hanno portato via il 18 gennaio. Dopo mesi passati ad allenarsi in solitudine al Flaminio, dopo aver versato le lacrime che può versare un figlio per la morte di un padre il giorno in cui Tommaso Maestrelli ci ha lasciato, quel martedì 18 gennaio del 1977 “Cecco” ha giocato per intero la partitella di allenamento, affondando i contrasti per provare la resistenza del ginocchio operato. Felice per non aver sentito nessun dolore, prima di lasciare il campo, incrociando Renato Ziaco, gli dice sorridendo: “Va bene dottore, il ginocchio è a posto, non ho sentito nessun dolore, sono pronto. Domenica a Cesena gioco e lascio tutti a bocca aperta”.
“Cecco”, felice, lascia il campo di Tor di Quinto in compagnia di Pietro Ghedin e Renzo Rossi. I tre incrociano Renzo Garlaschelli e lo invitano ad unirsi a loro per una serata a cena fuori, per festeggiare. Ma Renzo ha altri impegni, ringrazia e va via, seguito poco dopo anche dall’altro Renzo, Rossi. Re Cecconi e Ghedin, rimasti da soli, vanno da un loro amico comune, Giorgio Fraticcioli, per fare due chiacchiere e tirare fino all’ora di cena. Fraticcioli, proprietario di una profumeria, li invita ad accompagnarlo da un cliente a cui deve consegnare dei flaconi in una gioielleria di via Nitti, al Fleming, il quartiere dove abitano quasi tutti i giocatori della Lazio, situato sulla collina che domina dall’alto il campo di allenamento di Tor di Quinto.
I tre entrano poco prima dell’orario di chiusura, intorno alle 19,30. Luciano, abituato a fare scherzi, ne suggerisce uno a Fraticcioli e a Ghedin. Uno scherzo che, in una Roma sconvolta da rapimenti, rapine, sparatorie a colpi di P38 tra forze dell’ordine ed estremisti di destra e di sinistra, purtroppo gli sarà fatale.
Fraticcioli e Ghedin entrano per primi, Re Cecconi alle loro spalle e con il bavero del cappotto alzato esclama: “Fermi tutti questa è una rapina”. Il gioielliere, Bruno Tabocchini, già vittima in quel periodo di un paio di rapine, agisce di riflesso e scambiando Re Cecconi per un vero rapinatore quasi senza guardare estrae la pistola che tiene sotto il bancone del negozio e spara. Re Cecconi, colpito in pieno petto, con il volto pietrificato dallo stupore e dal dolore cade mormorando: “Era uno scherzo, era solo uno scherzo”. Ghedin fa appena in tempo ad alzare le mani e farsi riconoscere. Poi si gira verso il compagno dicendogli di alzarsi che lo scherzo è terminato, ma si accorge che dal torace di Re Cecconi esce sangue a fiotti. Il proiettile, infatti, ha reciso in modo letale l’aorta. “Ghedo, resta con me, non mi lasciare”. È questa l’ultima frase pronunciata da Luciano Re Cecconi. Aveva compiuto da poco più di un mese 29 anni il “Cecco”, mentre stava disteso a terra in una pozza di sangue nella gioielleria di Bruno Tabocchini, al Fleming, nel quartiere che all’epoca era il regno incontrastato dei giocatori della Lazio. “Ghedo”, oggi allenatore di Malta, è l’unico che conosce la verità, quella vera, sulla morte di Luciano Re Cecconi. Questa è la versione ufficiale, ma cosa sia successo realmente dentro quella gioielleria a distanza di più di 40 anni è ancora un mistero. “Hanno descritto Luciano come un idiota, un povero scemo che andava in giro a fare scherzi cretini. Io so che non è così”, ha sempre ripetuto Gigi Martini, il gemello diverso di “Cecco”.
Udendo lo sparo e le grida, i clienti del bar d’angolo che dà su via Flaminia escono di corsa, qualcuno ferma una pattuglia della polizia che, a sirene spiegate, porta “Cecco” al San Giacomo dove arriva ormai in fin di vita. Mezz’ora dopo quello sparo, alle 20 circa, Luciano Re Cecconi muore, a 28 anni appena compiuti, facendo sprofondare nel dramma la sua famiglia, l’ambiente laziale e tutto il mondo del calcio. La notizia a Roma si sparge in pochi minuti, con un invisibile telefono senza fili. Tutti si preoccupano di proteggere la moglie di “Cecco”, Cesarina, ma anche i figli: Stefano, di due anni e Francesca, nata da pochi mesi. In ospedale arrivano Lenzini e Pulici, poi alla spicciolata gli altri compagni, tutti pietrificati dal dolore. Ghedin, è sotto shock e riesce a malapena a rilasciare una deposizione ai magistrati incaricati dell’inchiesta.
A meno di 50 giorni dall’addio a Tommaso Maestrelli, Roma si ferma nuovamente per dare l’ultimo saluto ad un altro dei protagonisti dello scudetto. Al funerale, celebrato nella basilica di San Pietro e Paolo, è presente una folla immensa e silenziosa. Il silenzio si rompe solo quando la bara di Luciano Re Cecconi viene portata a spalla dai compagni dentro la basilica. In prima fila c’è Giorgio Chinaglia, il grande rivale di “Cecco”, che vive a New York, ma che appena appresa la notizia della morte dell’ex compagno ha preso il primo volo diretto a Roma. Processato per direttissima, Tabocchini viene assolto dall’accusa di “eccesso colposo di legittima difesa”, poiché secondo i giudici ha sparato per “legittima difesa putativa”. Quella sentenza scatena un accesissimo dibattito, commentato così sulle pagine de Il Corriere dello Sport dall’allora direttore Giorgio Tosatti.
“La morte di Re Cecconi rappresenta un dramma cui nessuno può sentirsi estraneo: è la folgorante testimonianza della nevrosi nella quale viviamo. Di queste nevrosi si trovano prove anche nei commenti della tragedia: il cinismo si sostituisce alla pietà e la riprovazione per la stupidità dello scherzo è superiore allo sdegno per il modo in cui è stata stroncata la vita di un uomo”.
Il 30 gennaio, a Cesena, si ripete la scena straziante vissuta un mese e mezzo prima a San Siro, con i giocatori della Lazio con il lutto al braccio che sembrano quasi pietrificati dal dolore, con i tifosi che sugli spalti piangono, con quel silenzio rotto dalle note strazianti di una tromba che intona Il silenzio. La salma di “Cecco”, viene portata in quel cimitero di Nerviano che, a distanza di più di 40 anni dalla morte di Luciano è ancora meta costante di pellegrinaggio da parte di tanti tifosi laziali.
Auguri “Cecco”. E oggi voglio ricordarti così, con quella poesia che ti ha dedicato il tuo amici Gigi Martini, il “comandante”, al quale eri legato da un’amicizia così profonda che vi rendeva ai nostri occhi quasi dei fratelli:
“Nella città eterna trova un amico
corrono insieme
soffrono insieme
vincono insieme
Una palla di piombo
ferma il suo cuore
il suo sogno dove sarà”
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