Storie di Calcio

12 maggio 1974: la prima volta della Lazio -seconda parte-

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Lo storico Scudetto della Lazio: seconda parte

Poi Lazio arrembante e D’Amico pareggia. I rovesciamenti di fronte sono continui. Cordova prende il palo. Dopo fallo di Morini su Nanni, rigore per la Lazio. Chinaglia segna. Poi palo di Frustalupi dopo gran tiro da fuori. Nanni prende la traversa. Finita la partita “ufficiale”, si apre un’altra sfida: quella tra Chinaglia e i tifosi della Roma. Mentre tutti i giocatori della Lazio corrono negli spogliatoi anche per evitare i lanci di oggetti vari da parte dei supporter romanisti, Giorgio Chinaglia con il braccio alzato e il dito indice puntato in segno di sfida corre in direzione della curva giallorosso. Non ha paura l’attaccante laziale; tutt’altro. Il gesto è sfrontato, coraggioso, guascone, spavaldo, persino istrionico.

Ma coglie pienamente nel segno sotto vari aspetti. Intanto, Chinaglia, nel contesto della lotta tra bande intestine contrapposte laziali, si impone come il numero uno. Il più forte e nello stesso tempo si pone come esempio “per tutto osare” anche agonisticamente.

Del resto, Chinaglia vuole dimostrare ai giallorossi che il nuovo padrone è lui. Cavaliere senza macchia e senza paura. Da oggi in poi i tifosi laziali hanno un eroe da imitare. Il suo nome è un grido di battaglia. Non dovranno sentirsi secondi a nessuno. Questa è una circostanza fondamentale nella storia della lazialità. Ma se per i laziali Chinaglia è “Long John” e assurge a idolo, a mito, a bandiera e a inno in carne e ossa, per i romanisti diviene la persona più odiata e insultata o da insultare. Diviene spregiativamente “il gobbo” per via della sua andatura con la testa che pare come incassata nel robusto tronco.

Il capo popolo: Giorgio Chinaglia

Dato che a Roma sono più numerosi i giallorossi che i laziali (all’incirca il rapporto è di 3 a 1). Per Chinaglia è complicato mettere piede per strada e viene presa di mira anche la compagna.

A quel punto Maestrelli lo ospita a casa propria. E, così con Chinaglia e con la Lazio dello scudetto i rapporti di forza tra le squadre di Roma vengono messi in discussione. Per la Lazio è come rinascere a nuova vita, più dinamica e intraprendente. Tutto questo mentre la Juve perde un altro punto dalla capolista, pareggiando nel derby casalingo dopo essere passata in vantaggio. Qualcosa non va tra i bianconeri. Ventiquattresima giornata, 7 aprile 1974. Per la Lazio lo scoglio Napoli. Partita delicata. Nel campionato passato la partita dei laziali a Napoli era stata un passaggio in un campo minato, tanto la cornice ambientale, come si è già visto, era avversa. Adesso il Napoli è, almeno in teoria, addirittura in lotta per lo scudetto, quindi la partita non è di quelle semplici.

Ma la Lazio ha più esperienza rispetto alla stagione passata nel gestire certe situazioni. Così si produrrà un Napoli – Lazio 3 a 3, combattuto, giocato a viso aperto e senza, da parte delle due compagini, risparmiarsi agonisticamente in tatticismi esasperati, con squadre che pensano a fronteggiarsi gagliardamente e non a chiudersi con marcature asfissianti, limitandosi a distruggere il gioco altrui. Del resto, Vinicio e Maestrelli sono allenatori innovatori, moderni e prediligono il bel calcio. Gran Chinaglia che mette a segno una tripletta. Al 17’ il Napoli passa con Clerici. Ma la Lazio non si impressiona e suona la carica con un gran collettivo. Attacco sulla fascia di Petrelli, cross dello stesso e Chinaglia di testa fa 1 a 1.

Le emozioni della sfida con il Napoli

Dopo angolo di Cané, Juliano segna. Garlaschelli coglie un palo dopo spunto di Frustalupi. Al 40’ Re Cecconi lancia, Carmignani sbaglia l’uscita e Chinaglia, con molto opportunismo e fiuto della rete, segna. Nella ripresa dopo 7 minuti passa il Napoli grazie a un rigore concesso per fallo di Petrelli su Braglia. Clerici segna, ma Pulici aveva intuito. Dopo 10 minuti 3 a 3 di Chinaglia su rigore. Nanni subisce fallo da Landini e Orlandini. Penalty. Il Napoli potrebbe ancora segnare, ma una traversa e Pulici lo impediscono.

Partita vera, che la Lazio ha saputo interpretare con lo spirito giusto, da squadra matura per certi obiettivi. Partita da squadra all’avanguardia, soprattutto per l’aspetto caratteriale, da parte di tutti i suoi componenti, che riescono a recuperare tre svantaggi. Non proprio impresa da tutti. Non si tratta, dunque, di scalmanati, buoni solo per distruggere le bottiglie al tiro a segno.

Altro passo verso lo scudetto. Nella stessa giornata la Juve passa a Cesena con gol di Anastasi e Altafini, che quando coesistono senza problemi e sono in giornata dimostrano un potenziale devastante. Inter e Fiorentina 1 a 1. Ormai nella stagione negativa dei milanesi quello che conta è favorire Boninsegna a segnare il più possibile al fine di vincere la classifica cannonieri. Per la stessa, Bonimba è in lotta con Chinaglia, il quale, ma sul punto non potrebbero esserci dubbi, in tutti i modi cerca di insaccare. Questa particolare gara in un certo qual modo aiuta la Lazio a spingersi verso il titolo, perché Chinaglia ha sempre più “fame” di gol. Roma e Vicenza impattano a reti inviolate.

L’andamento delle altre squadre

Il Torino regola il Bologna con doppietta di Pulici e il Milan il giorno prima, il 6 aprile, subisce la quinta sconfitta di seguito a Verona per 2 a 1, il che comporta un cambio nella conduzione della panchina rossonera perché per le 6 ultime partite di campionato alla guida del Milan viene chiamato un certo… Giovanni Trapattoni.

Lazio 35 punti, Juventus 32, Napoli 30, Fiorentina e Inter 29, Torino 25, Milan 24. Il 14 aprile 1974, venticinquesima giornata, si gioca Lazio – Verona. Partita che è da riconoscere come basilare, si potrebbe dire decisiva. La Lazio, infatti, riesce a vincere la partita con il solo carattere. 90 minuti che sanno di poetico, di epico e insieme di romantico per le dinamiche che si producono. La Lazio inizia attaccando e segna con un’autorete di Bet dopo tiro di Frustalupi. Essa continua nei propri attacchi, imperterriti, che chiamano di volta in volta attaccanti e centrocampisti, i quali si alternano in azioni corali che vedono come vero attore protagonista un collettivo in continuo movimento. Ma al 26’ il Verona effettua il suo primo e vero tiro in porta laziale e segna: da Franzot a Zigoni, che marca un bel gol.

Il colpo è duro, ma riparte la Lazio e di testa Chinaglia ha una buona occasione, come pure Garlaschelli, più avanti. Ma la Lazio con il passare dei minuti appare complessivamente meno tonica ed efficace di altre occasioni, più stanca, anche mentalmente, e qualche scintilla tra i giocatori (che, non si dimentichi, sono ferocemente divisi in due clan quasi in odio reciproco) scoppia, e un osservatore attento e abituato alla complessità laziale come Maestrelli lo nota. Alla fine del primo tempo il Verona passa: Luppi dà a Zigoni, che rimette in centro, Oddi fa autogol nel tentativo di evitare minacce avversarie.

Le difficoltà della partita con l’Hellas Verona

Maestrelli a quel punto impedisce ai propri giocatori di rientrare negli spogliatoio, facendo muro davanti alla porta dello stesso. Il momento è particolare, delicato e forse il tecnico teme o paventa che i propri giocatori si scontrino nell’intervallo accusandosi di questo o di quello, dato che la partita ha preso per la propria compagine una brutta piega anche per minore lucidità di altre occasioni.

Sarebbe il suicidio: la loro ferocia reciproca essi la devono dimostrare negli allenamenti infrasettimanali, circostanza che serve poi da benzina per far scoppiettare la loro energia in campo la domenica, ma in verso univoco, contro l’avversario, non in senso intestino e divisivo, come potrebbe avvenire in quei frangenti dopo il primo tempo contro il Verona.

Maestrelli li fa rientrare in campo per evitare ogni brutta e sconsiderata occasione, insomma. Rimanendo in campo, gli stessi possono sbollire le tossine “cattive” e caricarsi di quel propellente che, come per miracolo, ogni domenica li induce a sfogare la propria rabbia agonistica contro il contendente di turno.

E dagli spalti gli spettatori inizialmente rimangono sorpresi, dubbiosi, probabilmente contrariati alla visione dei propri beniamini ritornati stranamente in campo. I giocatori della Lazio, vedendo quel pubblico che sta lì più numeroso di altri anni esclusivamente per loro, che fa sacrifici per loro già per il solo fatto di essere venuto, malgrado l’austerity per causa della crisi petrolifera, che soffre per loro, che si si identifica in loro, ebbene, quei giocatori si possono mettere una mano nella coscienza.

È come se gli undici della Lazio si specchiassero e si fronteggiassero non con i propri tifosi nel rettangolo di gioco, nell’arena, ma con se stessi. Abbiamo dato il meglio di noi stessi e pure di più? Non stiamo deludendo questa gente? Possiamo congedarci da loro a fine partita a testa alta?

Il cambio di atteggiamento del secondo tempo

Questi concetti possono brulicare nella testa dei laziali, inducendo a riflettere e ad agire. E questa è la prima carica che Maestrelli attende dal proprio gesto. E a quel punto avviene dell’altro, anche questo probabilmente da parte di Maestrelli sottilmente calcolato e previsto: il pubblico, lo stadio pieno, resosi conto che qualcosa non aveva girato a dovere e che i giocatori hanno attraversato o stanno ancora attraversando momenti di tensione, li incita.

Anche il pubblico di casa comprende che quella tensione da sempre pulsante nella carne e nei nervi dei giocatori biancocelesti deve essere indirizzata in senso positivo. E a questo contribuisce con i propri applausi. Anche in questo caso tutti i fattori, endogeni o esogeni che siano, si ingravidano favorevolmente a vicenda. La Lazio durante l’intervallo così non si lacera, come sarebbe potuto benissimo accedere; la Lazio si distende, si ritempra doppiamente, grazie all’azione etica della coscienza dei giocatori che li spinge a non deludere i tifosi e grazie a questi ultimi, i quali ancor con più impeto accompagnano e sostengono gli undici in biancazzurro.

Che si arma di nuove, nascoste e incredibili energie e di forze da rovesciare addosso al Verona. Nei confronti dei giocatori della Lazio Maestrelli, da psicologo e da padre di famiglia, vede ancora e sempre giusto ed escogita la soluzione più semplice, forse la più bizzarra e impensabile, ma anche la più azzeccata, quella perfetta, logicamente perfetta per i medesimi, ché gli stessi riconoscono una logica magari particolarissima e non sono allo stato brado della violenza cieca, come qualcuno ha voluto inquadrarli e dipingerli.

Ripreso il gioco si avverte da subito che i laziali vogliono sbranare gli avversari. Dopo quattro minuti la Lazio pareggia: punizione di Frustalupi, il portiere del Verona non abbranca il pallone, Garlaschelli segna. La Lazio è dirompente; il portiere ospite Giacomi cerca di arginare i vari Chinaglia e Garlaschelli che imperversano inarrestabili. Dopo un quarto d’ora nel Verona Zigoni deve abbandonare ed entra Bruno Pace.

La forza del gruppo

La Lazio è in pressing frequente e dopo 31 minuti dalla ripresa passa: Frustalupi lancia e Nanni batte Giacomi. Dopo 3 minuti D’Amico supera due avversari, si porta sulla linea di fondo, mette al centro e ispira Chinaglia che segna. Missione compiuta: ancora una volta Maestrelli ha indovinato la cura giusta per esaltare la propria armata. La coesione della squadra è ancor più importante dell’intrinseco valore tecnico della stessa. Lo dimostra Maestrelli con la Lazio nel 1974, lo dimostrerà Bearzot con la nazionale nel 1982, quando deciderà di non convocare elementi validi, validissimi, ma non ritenuti tatticamente o caratterialmente amalgamabili e forse anche “deleteri” con il proposito in quel momento urgentissimo di “recuperare” Paolo Rossi.

Così vengono immagazzinati due punti d’oro, anzi di diamante. Nella stessa giornata, e questo dà ancor più peso specifico alla vittoria laziale, la Juve a Torino non riesce a vincere contro un ordinato Cagliari, che se non fosse per un gol di Causio, il quale a sei minuti dal termine pareggia un centro di Riva, sbancherebbe clamorosamente lo stadio Comunale della città lambita dal Po. Ancora, per l’ennesima volta durante la presente stagione, la Juve delude: altro pareggio interno che in altre annate sarebbe stato quasi con sicurezza vittoria. Che la Juve non fosse nell’anno giusto lo si può rilevare considerando un particolare, che spiega tutto: dei nove pareggi conseguiti dalla Vecchia Signora nel campionato 1973 – 74, ben 5 sono casalinghi. Non proprio da Juve.

Penultima di campionato, 12 maggio 1974. In un Olimpico pieno come non lo sarebbe stato mai più va di scena Lazio – Foggia. I tifosi della squadra di casa sono in coda per entrare nello stadio già dalle 6 del mattino. Alle 10 lo stadio è quasi tutto esaurito. Ma i giocatori laziali sentono la partita che può concedere loro lo scudetto. Hanno le gambe appesantite, avvertono l’emozione di stare per concludere un’impresa storica. Il Foggia fa quel che può. La partita finisce 1 a 0. Segna Chinaglia al 60’ di rigore concesso da Panzino dopo fallo di Scorsa. Un rigore che, peraltro, Chinaglia non tira benissimo.

Un tiro centrale che il portiere ospite avrebbe potuto neutralizzare se non si fosse lanciato in un angolo precipitosamente. Wilson ha rivelato che si girava quando tirava i rigori Chinaglia per non guardare, non ritenendolo un gran cecchino. Per il capitano della Lazio i rigori del collega centravanti erano per lo più centrali e i tiri, seppur forti, non era eccelsi, anzi quasi “zappati” per quanto rudi. Infatti non se la prendeva tanto con Chinaglia, quanto con l’allenatore che glieli permetteva di calciare. Per fortuna della Lazio che i portieri avversari il più delle volte si buttavano da una parte o dall’altra anzitempo.

E, in ogni caso, Chinaglia era Chinaglia e voleva essere il numero uno; soprattutto voleva sempre segnare. . La Lazio, dunque è nella storia. Ci entra in un giorno storico per tutti gli italiani. Il giorno in cui questi passano da una società ottocentesca, da salotto di Nonna Speranza di gozziniana memoria, alla modernità. Una rivoluzione.

Peraltro, il periodo che vive l’Italia nel 1974 è contraddittorio. Esso porta con sé la ventata del nuovo dei diritti civili mai sperimentati prima, né immaginabili, insieme con il baratro del salto di qualità del violenza politica e non. In un certo senso la Lazio è lo specchio o una sfaccettatura di quelle contraddizioni umane. Ma quando sparano le pistole dei giocatori laziali non colpiscono uomini. Non sono “fascisti” solo perché hanno le armi o perché qualcuno di loro si presenta agli allenamenti con il paracadute; alcuni di loro non erano neanche di destra.

E, del resto, ci sono paracadutisti e militari in genere anche di sinistra. E gli allenamenti e le partitelle ai limiti del codice penale sono propedeutici a partite vere in cui si vedono uomini che seguono una precisa bussola morale, quella di dare il meglio di sé per il bene collettivo della squadra. La Lazio opera una rivoluzione dimostrando che dal nulla o dal peggio di certe situazioni si possono ottenere risultati stupefacenti. Basta volerli.

Basta che ci sia una guida vera, razionale, umanamente vicina, che sappia comprendere, donare e trasmettere valori, e un obiettivo grande, il che ha tanto di etico. Purtroppo, l’Italia dell’epoca, come nazione, non aveva una bussola vera e non sempre il bene collettivo veniva inseguito. Mai uno scudetto era stato vinto o sarebbe stato vinto in futuro da una squadra i cui giocatori quasi si odiavano e, nello stesso tempo, il cui tasso tecnico complessivo era minore di quello di due o tre squadre.

Questi due particolari fattori, che già singolarmente considerati normalmente non conducono a primeggiare, nella Lazio dello scudetto sono addirittura coesistiti; eppure, è stato scudetto. La sola e unica volta in Italia. In qualche altro, seppur raro caso, ha trionfato la squadra teoricamente meno forte di tante altre, come nel caso del Verona nel 1985, ma i giocatori gialloblù certamente non si odiavano e non si massacravano gli uni e gli altri negli allenamenti.

Comunque, sicuramente Juventus e Milan erano superiori ai biancocelesti romani. Non mentiva, né diceva una frase di circostanza Maestrelli quando alla vigilia del campionato 1973 – 74 ribadiva che le due antagoniste principali della propria compagine durante l’anno prima erano pur sempre migliori dello proprio team. Ci si potrebbe aggiungere anche l’Inter come organico teoricamente migliore di quello biancoceleste.

Ma capita l’anno che Inter e Milan deludono eccessivamente e che la Juve stecca tante partite. Sia ancora una volta chiaro un concetto: in Italia per ragioni svariate è difficile che il titolo vada oltre il circuito della triade degli squadroni del Nord.

E, peraltro, si potrebbe anche sostenere che a Roma vincere sia ancor più difficile che a Napoli, perché nella città partenopea non vi è l’ulteriore dispersione di forze fisiche e psichiche rappresentato dall’eterno confronto stracittadino, che non si sviluppa solo con gli scontri diretti tra le due squadre. Ogni titolo vinto dalle “provinciali” (il titolo, ripeto, non ha nulla di insultante e serve solo per comodità, ovvero per indicare le altre squadre rispetto alle tre maggiori del Nord, e, comunque, realtà come le romane non possono essere associate a dimensioni provinciali) è prima di tutto un titolo perso da Juve, Inter o Milan.

Fatta questa premessa, è da ribadire che lo scudetto laziale del 1974 è un unicum storico per tutto il contesto particolare che ha accompagnato il fenomeno Lazio in quel frangente. E di questa peculiarità il merito è di Maestrelli. Tutti i giocatori laziali protagonisti di quello scudetto, intervistati sul punto duranti i vari anni, hanno detto, ripetuto, confermato e ribadito in tutte le salse che senza Maestrelli quello scudetto non era lontanamente immaginabile.

Nessun altro tecnico avrebbe trattato come padre due ciurme composte da individualità, ancorché al di sopra della norma, dai caratteri poco comprimibili a certe forme di disciplina sportiva all’epoca considerata come standard da un punto di vista assiologico, e per giunta riuniti in due clan contrapposti e in litigio reciproco permanente e costante; nessun tecnico avrebbe ospitato a casa propria e avrebbe protetto e considerato alla stregua di reale figlio (Chinaglia) quello che era uno dei due capi banda della Lazio, quello che voleva comandare e imporsi su tutti e che quasi considerava la squadra come un gruppo al proprio servizio.

Nessuno avrebbe saputo dosare e calibrare quella cornice di guerra intestina per rendere la squadra ancor più motivata e, all’atto delle partite domenicali, unita; nessun tecnico avrebbe potuto applicare a una squadra con quei particolari individui un sistema di gioco realmente “totale”, senza sguarnire la difesa o snaturare le caratteristiche dei singoli, anzi direttamente o indirettamente migliorandoli, tanto da permettere la chiamata in nazionale di giocatori che, escluso Chinaglia, difficilmente avrebbero potuto aspirare alla maglia azzurra; nessun tecnico avrebbe vinto lo scudetto con mezza squadra che sino a due o tre anni militava in compagini di serie “B”.

Nessun tecnico avrebbe puntato su Frustalupi come uomo cardine della squadra e valorizzarlo in maniera tale da farlo diventare decisivo e determinante, quando ormai lo davano per finito o quasi come giocatore; nessun tecnico avrebbe e gettato nella mischia Vincenzo D’Amico, ancora così giovane; e nessuno, per altro aspetto, lo avrebbe potuto migliorare e responsabilizzare con il grado di maturità di cui il giocatore avrebbe potuto farsi vanto.

Quello della Lazio del 1974 è indubbiamente uno scudetto dell’allenatore prima che dei giocatori. Certo, anche gli scudetti della Fiorentina del 1969, del Cagliari del 1970, della Roma del 1983 e del Verona del 1985 sono scudetti principalmente dell’allenatore. Rispetto a questi, comparativamente parlando, sarebbero da evidenziare delle differenze. Lo scudetto della Lazio è più compatibile con quelli di Fiorentina e Verona, meno con quelli di Cagliari e Roma. Questi ultimi senz’altro sono fiori all’occhiello dei rispettivi tecnici, ovvero Scopigno e Liedholm (riguardo al Cagliari il merito del titolo per certi versi sarebbe da spartire tra Silvestri e Scopigno).

Ma i titoli di queste due ultime formazioni, seppur di valore eccezionale, sono in qualche modo figli di una programmazione a tavolino, di un processo di crescita delle due squadre studiato e ponderato, con giocatori nuovi che sono stati di anno in anno selezionati attentamente e cooptati con razionalità nella speranza e con l’obiettivo che gli stessi consentissero nuovi step da raggiungere, nuovi e più alti traguardi da scalare. Invece gli scudetti di Fiorentina del 1969, di Lazio, 1974, e di Verona 1985 risultano più casuali, più improvvisati, più da riferire e da incorniciare nel momento magico di un exploit eccezionale di una stagione.

Questo vale in maniera piena per la Fiorentina che prima di vincere lo scudetto navigava anche in cattive acque finanziarie e dopo averlo fatto proprio non riesce a difenderlo più di tanto o a tentare di riportarlo a casa. Lazio e Verona prima di vestirsi di tricolore possono vantare uno o due anni di ottimi piazzamenti e aspettano l’occasione dell’anno di crisi delle tre grandi per piazzare il colpaccio.

La Fiorentina scudettata deve ringraziare Bruno Pesaola per essere riuscito nell’anno di grazia 1968 – 69 a miscelare adeguatamente giocatori di esperienza con giovani e per aver valorizzato in pieno Amarildo e Chiarugi, il Verona sedici anni dopo deve ringraziare Osvaldo Bagnoli per essere riuscito a vincere lo scudetto con una squadra di “scarti” opportunamente assemblati e motivati (per i giocatori del Verona, lo si è accennato, ovviamente non c’era il bisogno di partitelle infuocate come per quelli laziali), Maestrelli deve essere onorato dai laziali per aver valorizzato e motivato gente che in altri con contesti si sarebbero lacerati o atomizzati in liti continue.

E avrebbero quasi sicuramente fallito, altro che lo scudetto. Per altro verso, il terzo posto del 1973 e la vittoria dello scudetto nel 1974, la Lazio in un certo senso rinasce, almeno come fenomeno calcistico visibile; aumenta autostima e auto orgoglio; accresce presso il pubblico la valutazione di cui la stessa era oggetto. Prima era considerata come la seconda squadra di Roma, dopo le imprese di quei primi anni settanta, prende quota e se la può giocare ad armi pari con i giallorossi. Di più: non ci sarebbe stato più alcun timore reverenziale verso le grandi squadre. La Lazio realmente diventa adulta, compie il decisivo balzo in avanti verso una reale dimensione di grandezza. L’anno successivo la Lazio spera di fare il bis.

Ma a questo punto ci sarebbe da fare una considerazione: anche se il Cielo avesse deciso diversamente quanto al destino di Maestrelli (magari fosse stato), è da dire, con sufficiente probabilità di non sbagliare, che difficilmente la Lazio avrebbe potuto rivincere lo scudetto, e perché Juventus e Napoli (e Roma) si rivelano robuste realtà, molto migliori del precedente campionato e, soprattutto, perché i biancocelesti appaiono leggermente inferiori, sempre rispetto all’anno prima.

Un po’ l’usura dopo 3 o 4 anni intensi, duranti i quali dall’inferno della “B” si era approdati al paradiso dello scudetto. Le vicissitudini ambientali in trasferta, se cosi ci si può esprimere, di Chinaglia. Nelle gare di trasferta veniva spesso fischiato. I tifosi delle altre squadre lo ritenevano responsabile della cattiva figura della nazionale italiana ai mondiali di Germania Ovest del ’74 per causa delle polemiche nei confronti di Valcareggi, lasciano il segno. Del resto, non si sarebbe neanche potuto operare tanti cambiamenti di mercato: altri giocatori più forti sarebbero costati cifre che la Lazio non si sarebbe potuto permettere e non è detto che si sarebbero potuti integrare in quella logica dei clan, che era il vero segreto del successo della Lazio del 1974. Così, in fondo, quello che era il punto di forza dei biancocelesti era anche un limite.

Dopo un campionato molto buono, ci si riferisce a quello 1974 – 75, ma leggermente inferiore sino a quel momento a quello scudettato, nel derby capitolino del 23 marzo 1975, i giallorossi vincono in casa della Lazio con un gol di Prati. Del resto, la mano e la sapienza di Liedholm (allenatore della Roma) si evidenziavano in quella stagione a beneficio di una squadra che per tanti anni, benché a disposizione di grandi o valenti giocatori, non era stata né carne, né pesce.

Così come Maestrelli in quegli anni nella Lazio con un calcio totale che trasformava i difensori in attaccanti e chiamava questi ultimi a dare, ove di bisogno, una mano a centrocampo o dietro, così come Vinicio, che nel Napoli applicava una spumeggiante zona brasiliana, così anche Liedholm in quei frangenti era un innovatore e introduceva nel calcio italiano concetti come quello del “doppio libero” o del “doppio regista”, nonché applicava forme di “zona lenta” che faceva, però, girare il pallone vertiginosamente.

Roma-Lazio: similitudini e differenze

Solo che la Roma, per il momento, una volta trascorsa quell’annata, lasciava cadere l’esperienza liedholmiana inseguendo per alcuni anni dei miraggi che puntualmente si sarebbero rivelati fallaci. Tra l’altro, Liedholm e Maestrelli in comune potevano avere la capacità di fare da fratelli maggiori ai propri giocatori e la circostanza di aver maturato esperienza e di essersi fatte le ossa in realtà di provincia, guadagnandosi i galloni sul campo con promozioni insperate o con salvezze alla vigilia improbabili (vedere quella di Liedholm a Monza). Comunque, la sera del 23 marzo 1975, la Lazio scivolava al quarto posto a 6 punti dalla Juve e, di fatto, abdicava allo scudetto.

Ma, purtroppo, non era questo il peggio. La settimana successiva, il 31 marzo, calcisticamente parlando, i biancocelesti in parte si riprendevano andando a vincere a Bologna per 1 a 2 e approfittavano del pareggio casalingo della Roma con il Cagliari per acciuffare i cugini al terzo posto, e della sconfitta per 3 a 2 in un combattutissimo derby della Mole a fronte di un Torino in costante crescita da anni e ormai prossimo a consacrarsi squadrone da scudetto, per recuperare 2 punti alla Juve.

Ma a Bologna il destino era in agguato. Ormai Maestrelli da settimane non stava bene (e Chinaglia, come un figlio, lo notava da subito), ma aveva resistito e tirava innanzi. Inizialmente il medico sociale della Lazio dottor Ziaco gli aveva consigliato qualche giorno di riposo nella speranza che fosse qualcosa di passeggero.

Ma a Bologna la situazione “esplose”: Maestrelli per i dolori si aggrappava pure ai termosifoni e avvertiva sensazioni di freddo nella pancia. A quel punto il ricovero in clinica era necessario e la diagnosi era agghiacciante: tumore con metastasi che non lasciavano scampo.

Maestrelli: l’Eroe dello Scudetto della Lazio costretto ad arrendersi alla malattia

Da subito si parlava di un’aspettativa di vita di pochi mesi, anche se poi, con cure avanzate, Maestrelli sarebbe riuscito a sopravvivere per più di un anno e mezzo ancora. A quel punto il mondo crollava addosso ai giocatori della Lazio e dall’oggi al domani, terminava una realtà eroica, seppur bizzarra, o un sogno. Niente più partitelle feroci, niente più clan, niente più Tommaso Maestrelli che faceva da padre. Ognuno andava per conto proprio. La settimana dopo questa triste nuova realtà si appalesava con la partita interna contro il Torino.

I giocatori laziali affranti, in lacrime, distrutti, venivano come abbattuti da un Toro che dava segni inequivocabili della propria futura magnificenza con una tripletta di Pulici e una doppietta di Graziani, a cui faceva da contraltare un gol disperato di Chinaglia, che quasi, in quel contesto triste, era un passaggio di consegne tra grandi realtà del calcio italiano. Il successivo campionato in un certo senso conclude un ciclo, con un miracolo, l’ultimo, di Maestrelli. Ma, inizialmente, una volta preso atto delle tragiche condizioni di salute di Maestrelli, era d’uopo assumere un altro allenatore. Veniva scelto un “emergente”, Giulio Corsini, che umanamente era di tanto differente da Maestrelli.

Quanto quest’ultimo era paterno, tanto il primo era sergente di ferro. Se Maestrelli permetteva i clan e, anzi, ne approfittava per trarre il meglio della squadra, Corsini trattava tutti allo stesso modo, ma con distanza ed era poco propenso ad abnormità comportamentali. E, intanto quattro giocatori protagonisti dello scudetto venivano ceduti: Oddi e Frustalupi al Cesena (avendone in cambio Brignani e Ammoniaci), Nanni al Bologna, Franzoni all’Avellino (al suo posto gli irpini cedevano Ferrari).

L’errore e le difficoltà della stagione successiva

E come aveva sbagliato l’Inter a privarsi di Frustalupi anni prima, così fa i propri conti male la Lazio a lasciarlo andare: a Cesena si riconfermerà, ancora per l’ennesima volta, potente e acuto farò in mezzo al campo. La classe non era acqua. Comunque, Corsini, per dire la verità, non iniziava male, almeno riguardo al precampionato e alle prime partite di Coppa Italia, ma il campionato si rivelava un disastro. Corsini non sarebbe andato oltre la settima giornata del girone d’andata. Intanto, Maestrelli, grazie a una cura nuova, si era ripreso.

A dicembre 1975 poteva ritornare in panchina e, seppur con qualche difficoltà, iniziare una lenta ripresa. A quella Lazio, a parte i giocatori ceduti, andava venendo meno l’apporto di Chinaglia. Ormai voleva andarsene e non era entrato in nessuna sintonia con Corsini,. Anche quando era rientrato in panchina Maestrelli, non tollerava l’ostracismo dei tifosi avversari a seguito dei mondiali tedeschi.  Non sopportava più le contestazioni e gli insulti quotidiani dei romanisti, che ormai nella capitale vessavano pure la compagna Connie. La sera del 25 aprile 1976 Chinaglia prima volava in aereo a Genova e poi se ne andava negli Stati Uniti via Parigi.

Una fuga, dopo il rientro il 29 agosto 1975 dagli Usa, dove era sbarcato qualche mese prima. Un rientro, del resto, a cui non poteva sottrarsi se non compromettendo la carriera. Poteva sembrare quasi un tradimento nei confronti di Maestrelli, che l’aveva trattato e accolto come un figlio. Aveva lasciato la squadra che rischiava seriamente la retrocessione in cadetteria, mentre il tecnico era allo stremo delle forze in panchina, lottando contro una malattia inesorabile e cercando di salvare la squadra.

La salvezza della stagione successiva

Maestrelli sarebbe riuscito a salvare la squadra, sia pure per differenza reti a danno dell’Ascoli. Egli avrebbe, così, compiuto un altro miracolo a favore della Lazio, l’ennesimo. I miracoli, però, sarebbero stati due. In quella stagione, infatti “scopriva” chi poteva prendere il posto di Chinaglia nell’attacco biancoceleste. Si trattava di un giovane trasteverino di nome Bruno Giordano. Un fenomeno. Maestrelli sarebbe morto il 2 dicembre 1976, raccomandando alla Lazio di assumere come suo sostituto Vinicio. Ovvero un innovatore. La Lazio successivamente, nella stagione 1986 – 87 avrebbe affrontato la serie “B” con 9 punti di penalizzazione. Si sarebbe salvata negli spareggi e quei giocatori sarebbero passati nella storia biancoceleste come gli eroi del meno 9. Con questa circostanza finisce la storia della vecchia Lazio di un tempo, più “povera”, più eroica, più romantica. Sembrano parole retoriche, ma credo siano pienamente veritiere.

Dopo sarebbero arrivati soldi e anche trofei in quantità. Non era più, però, per certi versi, la Lazio di un tempo. Maestrelli e la sua leggendaria squadra avevano dato coraggio, identità, orgoglio, anima, essenza mi si permetta di dire antropologica. Anche le Lazio posteriori, agli anni novanta, ne avrebbero beneficiato. Vent’anni dopo, però, c’era più denaro in cassa ed alcuni giocatori erano straricchi o pieni di tatuaggi. La Lazio del 1974 era umanità in senso lato e valore. Chinaglia aveva il desiderio che, una volta morto, venisse sepolto accanto a Maestrelli, come padre e figlio. La famiglia Maestrelli ha acconsentito. Così è stato. Così doveva essere. E nella stessa cappella Maestrelli riposa da qualche anno anche Wilson. Quella era squadra. Grande squadra, probabilmente non ammirata quanto meritasse. E che gran bella persona doveva essere ed era Maestrelli.

Fine seconda parte

GLIEROIDELCALCIO.COM (Francesco Zagami)

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