IL GIORNALE (Nino Materi) – Cosa prova un campione dello sport ormai «a riposo», osservando le imprese di un suo coetaneo (più giovane solo di qualche anno) ancora in attività? C’è più invidia o più ammirazione? E se tra i due c’è amicizia, l’invidia si mangia l’ammirazione? 0 è l’ammirazione a divorarsi l’invidia? Grazie al giornalista-scrittore Lorenzo Proverbio, massimo esperto dell’epica di Silvio Piola (suo il bellissimo libro «Silvio Piola, il senso del gol», Edizioni Mercurio), abbiamo scoperto uno scritto che potrebbe rispondere alle domande iniziali. Si tratta della lettera che il campione del mondo della nazionale di calcio, Giuseppe Meazza, scrisse al collega azzurro Silvio Piola (anche lui campione del mondo). Piola, nonostante stia correndo verso le quaranta primavere, gioca ancora nella piena «estate» della serie A, mentre Meazza ha già chiuso la carriera da qualche anno. Le mitiche rovesciate di Silvio fanno ancora impazzire il pubblico; «Peppin», invece, vive ormai di ricordi, che però le imprese di Silvio gli fanno rivivere come se stessero ancora giocando insieme. L’epistola, pubblicata il 4 settembre 1952 sul supplemento n°36 de «Lo Sport» inizia così: «Vecchio Silvio, un altro campionato è arrivato, e tu vestirai ancora la maglia azzurra del tuo caro Novara, calzerai ancora le scarpe a bulloni che sono state il sogno e la bella realtà della nostra giovinezza, e scorrazzerai ancora su tutti i campi di calcio d’Italia, proprio come ai bei tempi». E Poi: «Quanti ricordi, Silvio, quante battaglie, quanti viaggi quanti scherzi insieme. Amarezze poche, molto poche per nostra fortuna. Da quanti anni giochi, caro Silvio? Da sempre, per te il tempo non esiste». A giudizio degli storici del calcio, Meazza e Piola sono i più grandi attaccanti che il nostro Paese abbia mai avuto: i loro palmares in fatto di gol, trofei conquistati e partite giocate sono una sequela di record ancora imbattuti. Certo, erano altri tempi; era un altro calcio; ma, soprattutto, erano altri uomini. Uomini veri. Gente abituata a combattere e a soffrire. A vincere senza trasformarsi in pagliacci e a perdere senza diventare patetici. Calciatori che i colpi proibiti li davano e li prendevano. Per poi stringersi la mano a fine partita. Sportivamente. Uomini d’onore e di valore. Mai avvezzi alle sceneggiate. Nel bene come nel male. Sul campo verde del football e su quello chiaroscuro della vita. Tutto questo traspare dalla lettera di Meazza e sembra vederlo, Piola, intento a leggerla e a commuoversi. Perché quando Giuseppe dice a Silvio: «la tua gloria è la nostra gloria» è impossibile trattenere le lacrime anche per uno tutto d’un pezzo come Piola che gira e rigira quel foglio pieno di affetto: «tu rappresenti tutti noi, calciatori di ogni tempo. Migliore alfiere non si poteva trovare per questo nostro sport che è sempre stato la nostra vita. Sempre in alto il vessillo azzurro del tuo Novara, caro Silvio; portalo sempre più in alto». Eccola l’ammirazione che trionfa. Ma ecco anche una benevola forma d’invidia che Meazza non sa, o non può, trattenere: «Io non gioco più, Silvio, e son passati degli anni, ormai, dal giorno che ho smesso. Ma quando ti vedo, quando ti seguo tra i terzini avversari, quando ti vedo scattare, lavorar di gomiti e tocchettareal volo, oh!, allora sì mi prende una stretta al cuore e un groppo in gola, e sento un formicolio nelle gambe». Il derby tra ammirazione e invidia è una partita che non finisce mai.
Articolo tratto da “Il Giornale” del 27 novembre 2018