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Spartak Mosca – Haarlem: la strage nascosta

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La tragedia nella partita tra Spartak Mosca ed Haarlem

Lo sport è fonte di gioia, di esaltazione, di passione, è una forma di rito che ha nelle sue arene i templi in cui questa religione laica trova il suo compimento.

Il calcio è quello in cui tutto questo trova la sua maggiore forma di espressione, con popoli che si ritrovano negli stadi, ventidue officianti che si affrontano e dispensano questa religione ai loro fedeli.

Gli stadi sono, quindi, quei posti di ritrovo intorno a un prato verde dove si può raggiungere l’esaltazione dei sensi seguendo le evoluzioni di un pallone.

Sono, perciò, dei dispensatori di gioia.

Ma non sempre è così.

Oltre a quanto sopra, il calcio è anche una metafora della vita stessa, legata, dunque, a quanto questa ci dispensa, nel bene e nel male.

Certo, è difficile che essi possano diventare anche distributori di dolori che non siano calcistici, legati alle sconfitte dei propri beniamini, eppure dolori veri, reali, di quelli che ogni giorno la vita ci mette di fronte, e che noi dobbiamo superare, ogni tanto si devono vivere anche qui.

La memoria, allora, non può non andare all’Heysel, a Hillsborough, a Bradford, senza dimenticare i tanti in Sud America o in Africa, quando eventi partiti come grandi feste si sono trasformati in immani tragedie.

E questo solo per ricordare fatti legati ad una presunta casualità, perché non si può non ricordare quando gli stadi stessi sono stati tristemente trasformati in lager, luoghi di prigionia e di sofferenza.

Ma restiamo all’evento sportivo.

I luoghi che abbiamo citato sopra sono diventati tristemente noti, e abbiamo scritto per casualità, anche se non è così: sempre, dietro, c’è stato l’errore umano, la disorganizzazione e l’incapacità di affrontare momenti critici che pure dovevano essere messi in conto.

Sempre quelli citati sopra sono nomi di stadi in cui si sono consumate tragedie note, conosciute, pure è capitato che alcuni fatti tragici siano rimasti sconosciuti, passati sotto silenzio, prima di diventare di dominio pubblico.

Uno scenario che, con la globalizzazione attuale, con la diffusione dei social, può sembrare impossibile, ma c’è stato un periodo che in alcune parti del mondo accadevano cose che dovevano restare nascoste.

È il 1982 quando si svolge la storia che andiamo a raccontare, di una assurda tragedia, di centinaia di morti di cui non si è saputo mai nulla, fino a poco tempo fa.

Il luogo è Mosca, ancora capitale di un impero sovietico che aveva visto le sue fondamenta diventare d’argilla, iniziando quello sgretolamento che si sarebbe compiuto pochi anni dopo, ma che in quel momento ancora rappresentava una utopia di governo che a tutti i costi doveva sembrare perfetta al mondo occidentale, ma non lo era.

Leonid Brežnev, il potente segretario del Pcus stava ormai finendo, ma nonostante tutto, a costo di apparire anche patetica nei suoi tentativi, la propaganda rossa cercava di mostrarlo sempre in auge e nelle migliori condizioni.

Fu in questo periodo, e con questa situazione, che avvenne il tragico episodio della strage dello Stadio “Lenin”, oggi Stadio “Lužniki”.

È il 20 ottobre del 1982 e in un tardo pomeriggio moscovita quasi polare lì è prevista la gara dei sedicesimi di finale della Coppa Uefa tra lo Spartak Mosca e gli olandesi dell’Haarlem.

La serata è gelida e spettrale, il freddo intenso, le strade infide e scivolose consiglierebbero ben altro che sfidare quelle intemperie per assistere ad una partita di calcio.

 

Ma il tifo è tifo con qualsiasi temperatura, a maggior ragione quello per lo Spartak, che rappresenta il popolo, distinguendosi dal CSKA, militari, dalla Dinamo, ministeri, e dalla Lokomotiv, ferrovieri.

C’è un maggior trasporto per questa squadra, e sugli spalti ci sono quasi quindicimila anime a sfidare il freddo, anche perché lo Spartak ha un buon organico: tra i pali schiera Rinat Dasaev, erede designato del grande Lev Jašin, a centrocampo Oleg Romancev e Jurij Gavrilov, in attacco Sergej Rodionov, tutti buoni giocatori, anche se poco conosciuti in occidente.

Abbastanza forti, in ogni caso, da non avere particolari problemi contro l’Haarlem, e già al sedicesimo Edgar Gess ha superato Edward Metgod per il vantaggio dei sovietici.

La gara, anche a causa delle condizioni climatiche, si dipana senza particolari sussulti, tanto che, a circa dieci minuti dalla fine, il pubblico, assiepato tutto nella Tribuna Est, inizia a sfollare.

Qui, però, interviene il fato.

E accade la tragedia.

È il novantesimo quando Sergej Švecov segna il due a zero, i tifosi che stavano uscendo tornano precipitosamente indietro, ma trovano la milizia impreparata, che impedisce loro di rientrare sugli spalti.

La visione della massa della gente accalcata possiamo solo riviverla nella mente per altri disastri successivi e simili, poi sotto il peso della calca crollano anche le scale.

È una carneficina, alla fine i morti dichiarati saranno sessantasei, ma le cifre reali parlano di più di trecento.

 

Non deve meravigliare questa discrasia, frutto della politica di insabbiamento che subito seguì i fatti, perché nulla doveva trapelare di una tragedia figlia dell’incuria e dell’impreparazione delle autorità.

Una cosa inconcepibile per il governo dell’”orso rosso”.

Come unico responsabile della tragedia fu accusato il custode dello stadio, Jurij Ponchichkin, che dovette scontare diciotto mesi di lavori forzati, altra vittima innocente che va aggiunta ai morti di quella triste notte.

Una tragedia che, come sempre, ha visto sì la fatalità, ma anche l’errore umano, la disorganizzazione e l’impreparazione come cause scatenanti.

“Non avrei mai voluto segnare quel gol”, dirà poi Švecov, ma quel momento di gioia, come tutti i gol, non può essere colpevolizzato.

È il sottile confine tra gioia e dolore che pervade la vita umana, di cui anche il calcio, che è vita stessa, può essere la trasposizione.

Ben più colpevoli le autorità, che all’incapacità aggiunsero il danno del tentativo di insabbiamento.

Saranno poi glasnost e perestrojka, volute da Michail Gorbačëv anni dopo, a gettare qualche luce, e nemmeno completa, sulla tragedia nascosta dello Stadio “Lenin”.

GLIEROIDELCALCIO.COM (Raffaele Ciccarelli)

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