GLIEROIDELCALCIO.COM (Francesco Gallo) – Se sul vostro calendario calcistico avete già segnato in rosso la data dell’11 giugno 2021 significa che, comprensibilmente, siete in attesa dell’inizio dei campionati Europei.
Rinviati di un anno a causa dell’emergenza Covid-19, la competizione continentale per nazionali a breve ci regalerà notti emozionanti per un’edizione che difficilmente dimenticheremo. Prima del calcio d’inizio, però, con un percorso a tappe, affronteremo la storia della Coppa Delaunay, dalle origini a oggi.
Le origini
Prima della Seconda Guerra mondiale, l’Europa calcistica non aveva sempre favorito il riavvicinamento dei Paesi del vecchio continente. Ad esempio, nel 1937, durante una partita della Coppa Internazionale tra Italia e Austria, sul 2-0 per gli austriaci l’arbitro sospese la partita perché aveva completamente perso di mano il controllo della situazione. In campo scoppiava una rissa ogni tre minuti, e lo scontro sarebbe continuato anche fuori dallo stadio tra fascisti italiani e antifascisti austriaci. Sputi, insulti e saluti a pugno chiuso precedettero lo scontro militare di qualche settimana dopo sul campo di battaglia spagnolo a Guadalajara.
Alla fine del conflitto, l’idea che iniziò a serpeggiare tra le varie federazioni calcistiche europee era quella di provare a riconciliare simbolicamente l’Europa attraverso il pallone. Già con la nascita della Coppa dei Campioni, nel 1955, si riuscì a ribadire la volontà collettiva di ridisegnare con il calcio la cartina geografica europea, scavalcare la cortina di ferro e riavvicinare i vari Paesi.
In questo contesto, e con queste circostanze, Henri Delaunay, segretario generale della Uefa, nonché padre fondatore della Federazione calcistica francese, contribuì enormemente alla creazione del campionato europeo per nazionali che oggi, in sua memoria, porta il suo nome.
La prima edizione del 1960 vide la partecipazione di diciassette squadre, ma anche di alcuni eccellenti rifiuti. I «no» che fecero più rumore furono quelli di Inghilterra e Italia. Lo «splendido isolamento» degli inglesi fu giustificato soprattutto dalla tragedia che nel 1958 aveva colpito i Busby Babes, ovverosia l’incidente aereo in cui morirono 8 giocatori del Manchester United. Mentre l’Italia, eliminata nel girone di qualificazione ai mondiali del ’58, in vista di una ricostruzione del proprio sistema calcistico, decise di godersi il boom economico a casa e concentrarsi sull’organizzazione delle Olimpiadi di Roma del 1960.
1960, la prima edizione
La prima storica partita dell’Europeo, che si giocò il 28 settembre 1958 allo stadio Lenin (odierno Luzhniki) a Mosca, vide il crollo di una squadra che fino a qualche anno prima era stata considerata una delle più forti di sempre: l’Ungheria. Impegnata contro l’Unione Sovietica, la sconfitta dell’ex squadra d’oro, «Aranycsapat», ebbe anche una valenza politica in grado di oltrepassare la mera sfida calcistica, e che di fatto scrisse la definitiva parola «fine» a un periodo pieno di speranze, su cui la morte del ribelle Imre Nagy, l’uomo della rivolta di Budapest del 1956, fece calare il sipario. Le gare di andata e ritorno videro entrambe una facile affermazione dei sovietici (3-1 e 0-1).
Nel clima arroventato della decolonizzazione, e con ancora la Guerra d’Algeria in corso, il simbolo della nazionale francese era paradossalmente Just Fontaine. Nato in Marocco da madre spagnola e padre francese, il prolifico attaccante di Casablanca (che detiene ancora il record di gol segnati in un Mondiale, 13) era affiancato da Raymond Kopaszewski, noto semplicemente come Kopa. Entrambi fecero le fortune della nazionale francese, già terza al Mondiale del 1958, che riuscirono a trascinare a suon di gol fino alla semifinale europea, persa poi in maniera rocambolesca contro la Jugoslavia in una partita piena di gol. Fino ad allora erano riusciti a mettere in fila tutte le avversarie: Grecia (7-1 e 1-1) e Austria (5-2 e 4-2).
A sconfiggere i francesi nella finale per il terzo posto fu la Cecoslovacchia. Non ancora maturi per la futura «primavera di Praga», la nazionale si affidava comunque a una «squadra dal volto umano». E il più umano di quei volti apparteneva a uno dei giocatori più forti della storia cecoslovacca: Josef Masopust. Giocatore sublime, capace di incantare addirittura Pelé che lo avrebbe definito «un trequartista di tale tecnica da dare l’impressione di essere nato in Brasile e non in Europa». Dettando i tempi di una nazionale impegnata già dalla partita di qualificazione contro l’Eire, prese per mano la squadra e l’accompagnò lungo le vittorie contro Danimarca (2-2 e 5-1) e Romania (0-2 e 3-0), partita in cui segnò il primo dei tanti gol della doppia sfida. Pur fermandosi in semifinale contro i sovietici, le sue prestazioni sarebbero state sufficienti ad assicurargli il Pallone d’oro, il primo conquistato da un calciatore cecoslovacco. Solo quarantuno anni dopo un altro giocatore ceco vincerà il maggiore riconoscimento individuale: Pavel Nedvěd.
Altra squadra protagonista di quella prima edizione fu la Jugoslavia. Nell’anno in cui si sarebbero aggiudicati il torneo olimpico sotto il sole di Roma, i «plavi» erano considerati tra i migliori giocatori europei per il gioco espresso. Per questo motivo, molti li consideravano i «brasiliani d’Europa». Quella formazione leggendaria, che tra le proprie fila contava campioni come Nikolić, Perušić, Knez, Jusufi, Matuš, Durković, Milan Galić e Borivoje Kostić, raggiunse a suon di gol anche la finale della Coppa, dopo aver agevolmente eliminato la Bulgaria (2-0 e 1-1), il Portogallo (2-1 e 1-5) e infine la Francia, con un pirotecnico 5-4.
L’altra finalista era l’Unione Sovietica. La quadra simbolo di un Paese in ricostruzione, dopo la morte di Stalin e l’affermazione di Nikita Kruscev, era guidata dal portiere che a oggi è considerato il più grande di tutti i tempi: Lev Jašin. Raggiunse agevolmente la finale senza, però, aver disputato la doppia sfida dei Quarti, in quanto la Spagna del Generale Franco, aveva deciso di non scendere in campo contro gli odiati comunisti. La Guerra fredda era al suo culmine, e quella pace armata fino ai denti mostrò tutte le sue insidie anche sul campo da calcio.
Nonostante avesse a disposizione una formazione strepitosa, con un tridente da sogno formato da Di Stefano, Suárez e Gento, il «Caudillo» si oppose a quella partita e obbligò la squadra a ritirarsi contravvenendo all’ideale pacifico con cui era nato il torneo. La rottura diplomatica passò dunque attraverso lo sport, e i sovietici camminarono sul velluto del doppio 3-0 conquistato a tavolino.
Il 10 giugno 1960 al Parco dei Principi di Parigi l’Urss scese in campo contro la Jugoslavia un po’ più riposata, in quanto aveva disputato due partite in meno. Di fronte c’erano due squadre totalmente diverse. La Jugoslavia era tecnica, piena di giovani promesse e con un ottimo gioco di squadra; l’Unione Sovietica era invece più solida ed esperta. Ci vollero quindi i tempi supplementari per schiodare il risultato dall’1-1, con cui si erano conclusi i tempi regolamentari. Fu poi una zampata del russo Viktor Ponedelnik a regalare la vittoria della prima edizione della Coppa Delaunay all’Unione Sovietica.
1964, Olè!
La seconda edizione registrò l’iscrizione di molte squadre che nella prima erano state assenti. All’appello risposero «presente» anche l’Inghilterra, l’Olanda e l’Italia. Gli inglesi guidati da Alf Ramsey, però, forse perché con la testa già al Mondiale casalingo, steccarono la prima nel turno eliminatorio contro la Francia di Kopa (1-1 e 2-5). Festa dunque rimandata di soli due anni, mentre quattro ragazzi di Liverpool cominciarono a conquistare il mondo con i loro dischi: erano i Beatles, con I Want to Hold Your Hands.
La nazionale azzurra, al suo primo tentativo continentale, affrontò il torneo tra mille polemiche: in molti erano contrari all’utilizzo contemporaneo in difesa di Maldini e Facchetti, si protestava per la mancata convocazione degli oriundi Altafini e Sivori e per l’impiego in attacco di Pascutti. Dopo una larga vittoria con la Turchia (6-0), agli Ottavi di finale ci ritrovammo davanti i campioni uscenti: l’Unione Sovietica. La sconfitta per 2-0 in Russia ci tagliò le gambe anche per la sfida di ritorno, nella quale riuscimmo soltanto a pareggiare (1-1) grazie a un gol di Rivera all’ultimo minuto.
L’Urss era una formazione ancora più forte di quattro anni prima e lo dimostrò anche nei Quarti di finale contro la Svezia (1-1 e 3-1) sospinta dai gol del solito Ponedelnik, autore di un altro splendido gol nella semifinale contro la Danimarca, vinta per 3-0.
Dall’altro lato del tabellone ancora la Spagna. Le «Furie Rosse», dopo aver letteralmente passeggiato su Romania (6-0 e 1-3) e Irlanda (5-1 e 2-0), incontrarono difficoltà soltanto nella semifinale contro l’Ungheria, superata nei tempi supplementari grazie a un gol di Amancio. Dunque, per uno scherzo del destino, dopo quattro anni ecco di fronte Spagna e Unione Sovietica. Gli spagnoli di Francisco Franco, anche con il favore di ospitare la fase finale, stavolta non si tirarono indietro e, anzi, prepararono la partita in maniera meticolosa, per vincere la sfida anche in termini propagandistici. Tuttavia, la formazione era rimaneggiata: rispetto all’edizione precedente mancavano Di Stefano, Puskás, Gento (almeno per la fase finale) e Del Sol. Ma un forte spirito di gruppo, unito al determinante supporto dei tifosi di casa, aiutarono la formazione a raggiungere la finale. Sicuro della vittoria l’allenatore José Villalonga, il quale, prima dell’ultima partita, dispose sulla sabbia le due formazioni avversarie: pietre per gli spagnoli, pigne per i sovietici. Fu un’immagine che servì a convincere i suoi giocatori di essere superiori agli avversari, così come le pietre lo sono rispetto alle pigne. Il gol del 2-1, segnato dalla Spagna all’84° minuto, fece nuovamente incrociare calcio e politica. L’assist decisivo al gol di Marcelino venne attribuito ad Amancio, anziché a Pereda (autore del primo gol) perché giocava nel Real Madrid, la squadra di Franco. Solo nel 2008 la verità sarebbe venuta a galla. A rivelarla ci avrebbe pensato il montatore di quella partita, il quale ha ammesso che non avendo le immagini del cross, realmente effettuato da Pereda, ha utilizzato altre immagini che già possedeva di Amancio, generando così un’intricata questione calcistica e politica. Tutto questo, comunque, non cambiò il risultato di quella finale: la Spagna si laureò campione d’Europa.
Il prezioso tagliando della Finale (Collezione Matteo Melodia)
1968, campioni per una monetina
Nel 1968, per celebrare il settantesimo anniversario della FIGC, la fase finale della Coppa Delaunay venne assegnata all’Italia. Gli stadi di Roma, Firenze e Napoli, per via delle recenti Olimpiadi, erano del resto già a norma e l’organizzazione collaudata. Nel ‘68, anno irripetibile e spartiacque per la Storia d’Italia e d’Europa, dopo la scomparsa di due figure fondamentali come Papa Giovanni XXIII e Palmiro Togliatti, si aveva la netta sensazione che si stesse per chiudere una fase storica e se ne stava per aprire un’altra, più nera. Nera come il piombo che uccise Bob Kennedy a Los Angeles, Martin Luther King a Memphis e tanti giovani di eserciti opposti in Vietnam.
L’Italia calcistica arrivava all’appuntamento europeo dopo la cocente delusione al Mondiale in Inghilterra. Con ancora negli occhi il gol del nordcoreano Pak Doo-Ik, ci stavamo apprestando a scrivere una nuova pagina della nostra storia sportiva. Dopo quella più nera, però, nessuno poteva immaginare che, proprio dalle macerie di quella incredibile e inaspettata sconfitta, sarebbero nati i presupposti di una futura vittoria.
Il trauma coreano ancora bruciava, con quelle immagini che per la prima volta giungevano dai televisori, i quali, anno dopo anno, aumentavano nelle case degli italiani. La televisione aveva già unificato linguisticamente il Paese e, sotto certi aspetti, era lo specchio fedele del costume italiano, il frammento tra i più significativi della nostra cultura popolare, quella che viene definita di massa. Ecco perché tra i programmi più seguiti dell’epoca c’erano La Domenica Sportiva e Sanremo, due trasmissioni fortunate dove, nel ‘67, si registrarono rispettivamente il primo caso di moviola, e il controverso suicidio di Luigi Tenco.
Con l’inizio del 1968, la facoltà romana di architettura funse da detonatore per le proteste studentesche che già da qualche anno avevano cominciato a scuotere atenei e istituti scolastici A Valle Giulia il 1° marzo 1968 si verificarono scontri durissimi tra la polizia e una massa di universitari, ai quali si erano aggiunti molti operai e per la verità anche alcuni provocatori. Fautori della cosiddetta «controcultura», con le lotte politiche e sociali degli studenti si iniziò a parlare di «fantasia al potere», anche se al governo rimaneva salda la Democrazia Cristiana.
Al comando della classifica cannonieri c’era invece Pierino Prati che, con 15 gol, si conquistò la convocazione in nazionale. Esordì nella prima delle due sfide contro la Bulgaria ai Quarti di finale. Al ritorno esordì anche Dino Zoff, un friulano introverso, ma essenziale fuori e dentro il campo. A toglierci dai guai contro i bulgari ci pensò proprio Pierino la peste, insieme a Domenghini che completò l’opera: 2-0.
Il 5 giugno giocammo la semifinale contro i sovietici, già due volte finalisti della competizione. L’Urss era ancora una squadra temibile, la stampa riteneva che fossero in grado di giocare una sorta di calcio «scientifico», come dimostrato due anni prima, quando al Mondiale inglese ci avevano punito con un gol di Čislenko. Partita bloccata sullo 0-0, infortunio di Rivera e palo di Domenghini. Sembrava il preludio di una nuova, cocente delusione. Esauriti anche i supplementari, non restava che il sorteggio negli spogliatoi attraverso il lancio di una monetina, perché i rigori non erano ancora stati inseriti nel regolamento per redimere un pareggio. Nella pancia dello stadio San Paolo, a questo punto si consumò un episodio leggendario, passato negli annali della storia del calcio. L’arbitro era il tedesco Kurt Tschenscher che, fischietto in bocca, chiamò a sé solo i capitani delle squadre: Giacinto Facchetti e Albert Šesternëv. Gli azzurri rimasti in campo erano abbastanza sereni, pare infatti che Facchetti avesse una sfortuna sfacciata al gioco. Nei ritiri dell’Inter, o della Nazionale, infatti, quando si giocava a carte o si organizzano piccole lotterie per ammazzare il tempo, lui vinceva sempre. L’arbitro tedesco estrasse così una monetine francese da 10 franchi e Šesternëv disse «testa». Ma la testardaggine di Facchetti fece valere il nostro diritto di scelta, in quanto padroni di casa. E allora fu Facchetti a dire «testa». I racconti mitici, a riguardo di questo episodio si sprecano. Come quello che vorrebbe che la monetina sia rimasta in piedi per qualche istante perché conficcata in una fessura del pavimento. Fatto sta che uscì «testa» e l’Italia, dopo trent’anni, poteva nuovamente giocarsi una finale.
Nell’altra semifinale, la Jugoslavia affrontava l’Inghilterra campione del mondo. La partita si giocò al Comunale di Firenze, scampato all’alluvione di due anni prima e che era servito proprio come spazio per raccogliere ogni sorta di generi alimentari e di aiuti da tutta Italia. Vinsero i «plavi» per 1-0 con l’imprendibile ala sinistra Dragan Džajić. Quella stessa notte, a Los Angeles, nelle cucine dell’Hotel Ambassador, il classico assassino venuto dal nulla uccise Bob Kennedy, fratello di John, favoritissimo candidato alle presidenziali di novembre.
Tre giorni dopo, finale dell’Olimpico. Valcareggi, vista l’indisponibilità di Rivera, fu costretto a cambiare e al suo posto giocò Lodetti. In campo pure Pietro Anastasi, ventenne di Catania esplose nel Varese. La mattina della finale Mazzola apprese dai giornali che non sarebbe sceso in campo la sera. Minacciò quindi di andarsene e fece i bagagli. Ma per evitare la sua fuga, Ferrini e Burgnich lo chiusero a chiave in camera.
Sul prato dell’Olimpico, però, la classe superiore degli slavi sembrò condannarci. Il solito Džajić portò in vantaggio la Jugoslavia, ma Domenghini pareggiò con una punizione che passò provvidenzialmente sotto le gambe della barriera: 1-1. Riuscimmo quindi a resistere anche nei supplementari. E visto che una finale non si poteva decidere con una monetina, si andò alla ripetizione della partita con quarantotto ore di riposo.
Il 10 giugno «Zio Uccio» sorprese i suoi pochi estimatori ma anche i suoi tanti critici ribaltando completamente lo schieramento in campo. Si salvarono solo in sei (Zoff, Burgnich, Facchetti, Guarneri, Domenghini, Anastasi). Dopo due anni venne rispolverato Salvadore, Riva recuperò, mentre Mazzola e De Sisti giocarono da inedita coppia di mezzali. Fu decisamente un’altra partita, stavolta comandavamo noi il gioco. Proprio Mazzola diventò il protagonista della sfida: il suo incessante dinamismo concesse a De Sisti i metri necessari ad impostare l’azione. La stanchezza della Jugoslavia, che a differenza nostra non aveva cambiato formazione, ci spianò la strada. Vantaggio di Riva, sul filo del fuorigioco, e raddoppio di Anastasi con una prodezza dal limite dell’area, 2-0. Italia campione d’Europa!
«Siamo onestamente in grado di primeggiare. Qualche asso l’abbiamo. Se i tecnici non commettono fesserie, se tengono debito conto dei migliori moduli imposti dal campionato, possiamo fare la nostra bella figura fra le prime cinque-sei potenze calcistiche del mondo. Contenere e rilanciare, ecco il nostro motto. Abbiamo attaccato e vinto in velocissimo contropiede. Questa, signori, la verità sugli ultimi trent’anni di calcio azzurro. Se ce ne ricorderemo, non dovremo aspettare altri trent’anni per combinare qualcosa. Ho detto». Gianni Brera