Le Penne della S.I.S.S.
Storia degli Europei – Italia ’80, Francia ’84 e Germania (Ovest) ’88
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4 anni agoon
GLIEROIDELCALCIO.COM (Francesco Gallo) –
1980 – Cosa resterà di questo torneo?
Visto il successo dell’edizione del 1976, la UEFA ha deciso di ampliare la fase finale del torneo portando da quattro a otto il numero di squadre partecipanti per l’edizione 1980. La nuova formula prevede due gironi: le prime classificate accedono direttamente in finale, mentre le seconde si sfidano nella finale per il terzo posto. Per la prima volta, inoltre, è stato assegnato di diritto un posto alla nazione ospitante, in questo caso l’Italia.
Il Bel Paese torna a ospitare il torneo dopo l’edizione vittoriosa del 1968, e del resto attorno alla nazionale di Bearzot regna un clima disteso e fiducioso, forte del quarto posto appena ottenuto al mondiale in Argentina.
Come negli anni Sessanta, l’organizzazione di questo importante evento sportivo combacia con un periodo di benessere economico, dopo quasi un decennio di austerità. L’Italia è entrata a far parte del Sistema Monetario Europeo, aumentano gli investimenti in Borsa e l’acquisto di case e automobili. Paradossalmente, però, sono dati in controtendenza.
Il delitto di Moro ha aperto una voragine nel mondo della politica che non si riuscirà mai più a coprire. Il clima generale è inquinato dallo scandalo del Banco Ambrosiano e da quello dell’ItalCasse; dall’evasione fiscale galoppante e dagli ultimi colpi inferti al Paese dal terrorismo politico, che renderà l’estate ancora più afosa facendo esplodere ad agosto una bomba alla stazione di Bologna. Una tragedia che oscurerà gli ori olimpici di Pietro Mennea e Sara Simeoni.
Non ci salva neanche il calcio. È appena scoppiato il primo grande scandalo nella storia dello sport italiano: il Totonero. Il 23 marzo le camionette della guardia di finanza e le volanti della polizia hanno fatto irruzione dentro e fuori dagli stadi. Quella domenica sono finiti in manette una ventina di giocatori, tra cui Paolo Rossi, coinvolti in uno stupefacente giro di scommesse clandestine. Fioccheranno tante condanne, Milan e Lazio finiranno in serie B.
Contestualmente ai processi sportivi, si giocano le prime partite dell’Europeo. All’esordio è ancora Germania-Cecoslovacchia, come nella finale del 1976. Stavolta, però, sono i tedeschi a imporsi, con un gol di Karl-Heinz Rummenigge, non ancora il campione conosciuto in Italia con la casacca nerazzurra dell’Inter. La partita non è indimenticabile e del resto sugli spalti il pubblico latita. Sono solo undicimila gli spettatori presenti quel giorno all’Olimpico di Roma, e anche nelle partite successive i numeri deluderanno di molto le attese.
Tre giorni dopo, al San Paolo di Napoli, la Germania batterà anche l’Olanda per 3-2, grazie alla sensazionale tripletta di Klaus Allofs.
Nell’altro girone l’Italia ha pescato Spagna, Inghilterra e Belgio. Gli azzurri sono privi di Paolo Rossi, squalificato per il calcio scommesse, così al suo posto gioca Ciccio Graziani. Zoff e Scirea tengono in mano le redini del gruppo, ma disporre soltanto della miglior difesa non basta. Di fatti, abbiamo difficoltà a metterla dentro.
La prima partita a San Siro contro la Spagna finisce sullo 0-0. E a Torino, contro l’Inghilterra di Keegan, soltanto un guizzo di Tardelli ci regala la vittoria in una partita altrimenti, anch’essa, destinata alle reti bianche.
Lo scontro diretto per il primo posto, che ci garantirebbe l’accesso alla finale di Roma, è contro il Belgio che ha tre punti come noi ma ha segnato un gol in più. Scendiamo in campo con poche idee e siamo anche sfortunati: perdiamo Cabrini e Antognoni per infortunio. È un altro scialbo 0-0 che ci condanna al secondo posto e dunque alla sola finale di consolazione per il terzo posto da giocare a Napoli contro i campioni uscenti della Cecoslovacchia.
Ancora un pareggio, stavolta per 1-1 (gol di Graziani e Jurkemik), che fa decidere la partita ai rigori. Dopo un’interminabile serie di tiri dal dischetto, è l’errore decisivo di Fulvio Collovati a non permetterci di salire neanche sul podio. Finisce 9-8 per i cechi e la festa è rimandata di due anni. Ma ovviamente ancora nessuno lo immagina.
La finale dello stadio Olimpico di Roma accoglie dunque il Belgio e la Germania, alla sua terza finale consecutiva: record ancora ineguagliato. L’eroe di giornata, quello che regalerà la Coppa ai tedeschi, è il gigante dell’Amburgo Horst Hrubesch. In patria è conosciuto e temuto per il suo soprannome di «Kopfballungeheuer», che letteralmente significherebbe «testa di mostro», tradotto nel gergo calcistico: in area di rigore la prende sempre lui.
Ma la sua doppietta vincente, questa volta, la segna con i suoi piedi. Il secondo, tra l’altro, all’ultimo minuto. «Ai supplementari non ce l’avremmo fatta — ha ricordato l’ex attaccante dell’Amburgo — Faceva molto caldo ed è stato difficile persino alzare la Coppa Delaunay». La Germania è campione d’Europa. E fra dieci anni, in quello stesso stadio, diventeranno anche campioni del mondo.
1984 – Platini, il nuovo Re di Francia
L’ebbrezza della vittoria del Mondiale fa saltare come un tappo di champagne la gioia imbottigliata per troppi anni sotto le minacce del piombo dei terroristi. La vittoria di Madrid chiude così il decennio della follia ideologica e annuncia l’età del riflusso e dei soldi facili. Appaiono, dunque, solo come fastidiosi rumori di fondo il suicidio di Roberto Calvi dopo lo scandalo Ambrosiano e gli spari provenienti dai colpi di Kalashnikov che in Sicilia uccidono Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Registrano, invece, maggiore interesse le avventure amorose e finanziarie del petroliere texano J.R., protagonista della soap opera statunitense Dallas che grande seguito raccoglie sul piccolo schermo. Silvio Berlusconi l’ha trasformata nel successo di punta delle sue reti Fininvest e ora il suo nome è sulla bocca di tutti.
L’innegabile intuito del Cavaliere fa breccia nell’immaginario di molti aspiranti imprenditori, i cosiddetti yuppies, quei giovani che puntano al successo, alla barca e a mostrare l’orologio sul polsino come Gianni Agnelli.
È la riprova che i soldi hanno ripreso a circolare dopo quasi un decennio di ristrettezze. Una sorta di secondo miracolo economico sottolineato dallo slogan «Milano da bere» che ben descrive la percezione di benessere diffuso in un’Italia godereccia che trova in Bettino Craxi il suo più grande cantore.
Anche i calciatori si fanno corrompere dalla vita facile promossa dai grandi guadagni e dalle belle donne. I campioni del Mondiale vengono innalzati ad eroi di una mitologia moderna. Vere e proprie star che danno inizio a una nuova era, nello sport e nel calcio.
La nazionale campione del mondo di Bearzot ha l’occasione di centrare uno splendido bis in vista degli Europei del 1984. Si sogna ancora, dunque, anche perché il girone contro Cecoslovacchia, Cipro, Svezia e Romania sulla carta ce lo consentirebbe. Rimediamo invece una tremenda figuraccia. L’avventura europea dell’Italia finisce ancora prima che cominciare, visto che siamo stati capaci di vincere una sola partita, quella contro il Cipro.
La magia spagnola pare dunque che sia finita. Gli eroi del mundial hanno avuto la breve durata di tredici giorni, giusto quelli decisivi tra Barcellona e Madrid per garantirsi un posto nell’olimpo sportivo. Il segno più evidente di questo triste finale, che avrebbe senza dubbio meritato un esito migliore, è l’addio dei due veci della squadra: Dino Zoff ed Enzo Bearzot.
Faremo dunque la parte degli spettatori nell’edizione francese del torneo, che conferma la struttura dei due gironi sperimentata in Italia quattro anni prima, eccezion fatta per la cancellazione della finale per il terzo posto.
La Francia è il Paese ospitante, dunque i galletti di Hidalgo sono qualificati d’ufficio. Senza qualificazioni da disputare, i francesi godono del presunto vantaggio di poter affrontare due anni di amichevoli e sperimenti. «Con lui giocavamo un calcio bellissimo — ha ricordato Michel Platini — È riuscito a creare un centrocampo con quattro giocatori creativi, che potevano inventare un passaggio in qualsiasi momento. Uno dei suoi grandi meriti è stato riuscire a schierare diversi numeri 10».
Il 10 che brilla di più è proprio quello di Michel Platini. Cresciuto nelle giovanili del Nancy, era stato inizialmente scartato da molte squadre per via di un corpo gracile e di una statura per molti non sufficiente. Già a scuola lo prendevano in giro chiamandolo «rase bitume», che secondo una tipica espressione lorena significherebbe «rasoterra».
Ma anche in Italia qualcuno gli avrebbe riservato un trattamento simile. Entrato nell’orbita nerazzurra, Sandro Mazzola lo aveva presentato all’allenatore nerazzurro Eugenio Bersellini, il quale però rispose: «Ragazzi, così non va. Mi portate sempre della gente impresentabile. Questo qua cià il culo da sposa e i piedi piatti!».
Due giorni dopo, a Napoli, l’Italia avrebbe affrontato la Francia. Partita finita in parità, 2-2, con pregevole gol su punizione proprio di Platini. A quel punto Bersellini, che ha visto la partita in televisione, corre al telefono e chiama Mazzola: «Quello lì mi sembra di conoscerlo. Anche se ha il culo da sposa e i piedi piatti, mi pare però che li sappia usare». Ma è troppo tardi, perché nel frattempo si è mossa la Juventus.
Di questo incredibile colpo di mercato che cambierà per sempre le sorti della storia juventina Gianni Agnelli dirà: «Lo abbiamo comprato per un tozzo di pane e lui ci ha messo sopra il foie gras».
Nei due anni che precedono gli Europei, Platini diventa il leader dei bianconeri e della Nazionale. Un faro capace di illuminare il campo con spiazzante semplicità. Con Cruijff ormai a fine carriera, è chiaramente lui miglior calciatore europeo, forse il talento più puro che la Francia abbia mai espresso. Zidane sarà certamente un giocatore più universale, ma Platini aveva la capacità di segnare in modi diversi. E alla fine è sempre il gol che fa la differenza. E nel 1983 di gol Platini ne farà tanti, il che gli consentirà di vincere il primo dei tre Palloni d’Oro consecutivi.
I detrattori diranno di lui che non spicca per simpatia, e che talvolta sembra uno snob che gioca con distacco, solo per stupire. E, cosa peggiore di tutte, non corre mai. Anzi, pare proprio che a fine partita sulla sua fronte non ci siano gocce di sudore, semmai qualche goccia di champagne.
Ne è convinto in parte anche l’Avvocato che un giorno, durante l’intervallo di una partita di Coppa Italia, lo sorprende a fumare davanti la porta dello spogliatoio. Incredulo lo ammonisce: «Ma come, un atleta come lei fuma nell’intervallo?», e lui gli risponde: «Presidente, l’importante è che non fumi Bonini. È lui quello che deve correre in campo. Non io. Io sono Platini».
In questo senso, Michel rappresenta al meglio il volto del nuovo calcio, quello dove il campione percepisce un lauto stipendio e firma contratti di sponsorizzazione. Il nuovo calciatore parla bene, ha ampliato i suoi interessi e ha imparato a cavarsela in ogni ambiente, in ogni situazione. Interrogato sulla questione Platina dirà: «Trapattoni mi ha insegnato ad attaccare, Boniperti a spendere i soldi; mentre l’Avvocato, il grande Gianni Agnelli, mi ha insegnato a vivere».
Ecco perché la Francia parte come favorita all’Europeo casalingo. Nel girone sono infatti subito fuochi d’artificio. Platini, con 5 gol, mette tutte le avversarie in fila. Soccombono prima Danimarca (1-0) e Belgio (5-0), poi la Jugoslavia (3-2) punita da una sua splendida tripletta.
La Semifinale contro il Portogallo si gioca al Velodrome di Marsiglia, ed è a oggi una delle partite più emozionanti della storia degli Europei. Per i primi venti minuti le due squadre se le danno di santa ragione. Falli e calci dappertutto, finché non ne viene sanzionato uno nei pressi dell’area lusitana. Platini, lascia l’incombenza a Jean-François Domergue che con una gran botta segna l’1-0. I galletti spinti dal pubblico di casa e dal vento cittadino sfiorano il raddoppio, ma Rui Jordão sorprende tutti e pareggia il conto. Si va ai supplementari. E stavolta sono i portoghesi a giocare meglio. Sotto di un gol, ci pensa però Platini a ribaltare il risultato, segnando il gol del 3-2 finale dopo il pareggio di Tigana.
Dall’altra parte in finale ci arriva la Spagna, portandosi appresso parecchi dubbi. Nel girone non ha brillato, ha superato i danesi solo ai calci di rigore e ha timbrato il pass per la fase finale solo grazie alla differenza reti, tutta racimolata nel clamoroso 12-1 rifilato al Malta.
In finale, però, sono abili e riescono a imbottigliare il calcio champagne dei francesi, e la partita non è propriamente spettacolare. I padroni di casa appaiono dunque spenti e perdono pure un uomo, rimanendo in dieci. A questo punto gli spagnoli, con le loro velenose ripartenze, cercano di infliggere il definitivo colpo mortale. Solo un episodio può sbloccare questa partita. E, immancabilmente, arriva, puntuale, dai piedi di Platini. Il suo è un calcio di punizione dal limite dell’area che indirizza proprio nella direzione del portiere Arconada. È un tiro sporco, che sembra facilmente alla portata del grande portiere castigliano. Invece Arconada compie in finale la più clamorosa delle papere della sua carriera lasciandosi passare la palla sotto le braccia. A nulla vale l’assalto finale della flotta spagnola, perché quando manca un pugno di secondi alla fine, Bellone raddoppia ponendo il sigillo alla partita.
La Francia è campione d’Europa. I 9 gol di Platini hanno regalato la prima Coppa Delaunay ai francesi. A tal proposito dirà: «È stato il primo trofeo ufficiale vinto dalla nostra nazione in uno sport di squadra; è stato un grande momento per il nostro calcio e per tutto il nostro sport».
1988 – La rivoluzione dei Tulipani
Quando manca un anno dalla caduta del muro di Berlino, la Germania Ovest ospita l’ottava edizione del campionato Europeo. I padroni di casa nel girone pescano una giovane nazionale azzurra, guidata dall’allenatore Azeglio Vicini, che ha superato in scioltezza il girone di qualificazione sospinta dall’entusiasmo popolare acceso dall’organizzazione dei Mondiali del 1990.
Gli azzurri poggiano sui gemelli del gol Vialli e Mancini e su un buon reparto arretrato: Zenga, Bergomi, Ancelotti, Baresi e Paolo Maldini. Ci attende però un girone assai impegnativo: oltre ai padroni di casa, incombono la Danimarca e la Spagna dello spauracchio Emilio Butragueño.
Esordiamo contro i tedeschi. Partita frizzante, ma ferma sullo 0-0. Poi nel secondo tempo segna Roberto Mancini che subito dopo fa esplodere tutta la sua rabbia nei confronti della tribuna stampa, rea di averlo sottovalutato nei giorni precedenti. Ma a condannarci al pareggio è l’inesperienza: Zenga si attarda con la palla in mano e l’arbitro fischia una punizione in area. Andreas Brehme pareggia con un bel tiro che apre in due la barriera.
Ciò nonostante, il pareggio con la Germania è più che incoraggiante: è un risultato che ci sta quasi stretto, visto il gioco espresso in campo. Con la Spagna è un’aspra battaglia. Abbiamo solo un risultato a disposizione, la vittoria. La raggiungiamo a venti minuti dalla fine grazie a un prezioso diagonale di sinistro messo a segno da Gianluca Vialli, 1-0.
Vinciamo anche tre giorni dopo a Colonia contro la Danimarca. Il 2-0 costituisce un’ulteriore iniezione di fiducia in vista della semifinale, ma avendo segnato un gol in meno della Germania ci qualifichiamo come secondi e dunque ci tocca affrontare l’Urss. I sovietici, che nell’altro girone hanno sconfitto e preceduto l’Olanda di Gullit e Van Basten, spezzano il sogno azzurro con l’uno-due micidiale di Lytovčenko e Protasov.
Il gran finale è tutto olandese. Al timone della nazionale c’è Rinus Michels, nel terzo dei suoi quattro periodi alla guida dei tulipani. Guida una pletora di campioni, il cui capitano è Ruud Gullit. Il centrocampista caraibico è dotato di una tremenda forza muscolare ma anche di una grande tecnica, ciò in carriera gli consentirà di giocare in qualunque ruolo. Con i suoi 186 centimetri di altezza, e i rasta in testa che facevano il resto, spaventa e disorienta i difensori avversari.
L’altro è Marco Van Basten. Il «Cigno di Utrecht» dal punto di vista tecnico e fiso è praticamente perfetto. Ma rispetto a Platini e al connazionale Cruijff più individualista, meno uomo squadra. Ma segna continuamente e in qualunque modo. Il suo repertorio è completo: dal tiro dalla lunga distanza fino alle acrobazie di testa e in rovesciata. Alcuni suoi gol sono rimasti uno spot del calcio. In questo Europeo ne segnerà cinque. Due però hanno un’importanza particolare.
Il primo è quello che sancisce la vittoria per 2-1 nella semifinale contro la Germania. È una vittoria dal sapore particolare, la prima contro i tedeschi dal 1956. I festeggiamenti successivi alla partita sono stati considerati il più grande raduno pubblico nei Paesi Bassi dopo gli eventi che hanno segnato la fine della Seconda Guerra mondiale. Un milione di persone hanno affollato i canali di Amsterdam affondando molte delle caratteristiche case-battello, per via del peso delle persone che ci ballavano sopra. Tra questi la tv ne intercetta uno in particolare, un ex membro della resistenza che dirà: «È come se, finalmente, avessimo vinto la guerra contro i tedeschi».
L’altro gol importante lo segna in finale, il gol della vittoria. Un gol che è entrato di diritto nella cineteca d’ogni epoca. La copertina migliore per il pallone d’oro che vincerà l’anno dopo proprio davanti ai connazionali Gullit e Rijkaard.
Questo magico trio di tulipani, valorizzerà la rosa del Milan, quello che viene definita degli «immortali», conquistando due Coppe dei Campioni consecutive, uno scudetto, due Supercoppe europee, una Supercoppa italiana e due Coppe intercontinentali.
Festeggeranno insieme a Berlusconi sul tetto del mondo. Ma sarà un mondo destinato a cambiare. Perché la notte del 9 novembre 1989, dopo aver diviso in due l’Europa e la Germania per quasi trent’anni, crollerà una volta per tutte il Muro di Berlino. L’inattesa caduta cambierà il volto dell’Europa che, da quel momento in poi, si appresterà a voltare pagina.
Nato a Cosenza, classe 1985, è storico, regista cinematografico e scrittore. Autore di diversi saggi e documentari sulla storia dello sport, è anche membro della Siss e dell'Anac. Da qualche anno lavora come supplente a Torino e ha da poco fondato la propria casa di produzione.
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