GLIEROIDELCALCIO.COM (Matteo Vincenzi) – È durato meno di quarantott’ore il tentato “golpe” al calcio europeo. La storia è ormai arcinota. Andrea Agnelli e Florentino Perez, rispettivi presidenti di Juventus e Real Madrid, mettono in atto quello che da almeno 4 anni stavano architettando: la nascita di una competizione continentale a numero chiuso, ribattezzata Superlega, ottenendo l’ok di altre dieci big e soprattutto della JP Morgan, una delle multinazionali finanziarie più potenti del mondo, pronta a mettere sul piatto 3,5 miliardi da ripartire tra i club fondatori. Un progetto sfrontato dal punto sportivo e morale, perché calpesta la passione vera di noi tifosi. Scoppia un putiferio su scala planetaria, con i tifosi che giustamente si sentono traditi dai loro stessi club e avviliti al solo pensiero di un calcio apparecchiato per soli ricchi, sempre con le stesse partite e senza che ci sia il merito di conquista. Persino i leader europei e il principe William si schierano contro l’avido intento dei potentati pallonari, strozzati – giusto per ricordarlo – da 4.108 milioni di debiti. Era dai tempi della Brexit che non si registrava una fiumana di commenti di tale portata, al punto che per un attimo ci siamo persino dimenticati di pandemia e coprifuoco. Risultato: la banda dei dodici dissidenti è costretta alla repentina marcia indietro. Giusto così, anche se resta la figuraccia. Detto che già l’introduzione della Champions (peggiorata di anno in anno, e di questo l’Uefa è la principale colpevole) aveva sottratto alla Coppa dei Campioni la magia dell’imprevedibilità, pensare ad un torneo stile wrestling ristretto a poche (auto)elette avrebbe significato cancellare anche l’ultimo esiguo barlume di romanticismo che rimaneva in nome della speculazione.
Se per un attimo ci svestiamo della maglia del cuore, non possiamo non restare affascinati dalla favola eterna di Davide che abbatte Golia. Pensiamo al Nottingham Forest che conquistò due Coppe dei Campioni di fila tra il 1979 e il 1980, grazie al primo posto in un solo campionato inglese. Due trofei con un unico “scudetto”, un record impossibile da battere. La leggenda di Brian Clough, che di quella squadra era il timoniere, diventò quasi più famosa di quella del suo illustre concittadino: Robin Hood. Nel 1986 la Steaua Bucarest, espressione di un paese di oltre Cortina, fece sua la coppa dalle grandi orecchie superando ai rigori il Barcellona in una partita che passò alla storia per le parate del portiere Duckadam, capace di ipnotizzare i tiratori blaugrana. L’anno successivo l’impresa fu del Porto: partito sfavoritissimo contro il Bayern Monaco ribaltò lo svantaggio iniziale grazie al “tacco di Allah” Rabah Madjer e all’ex avellinese Juary, il brasiliano che festeggiava i gol danzando attorno alla bandierina del calcio d’angolo. Nel 1991 toccò alla Stessa Rossa di Belgrado imporsi, sempre alla lotteria dei rigori, sull’Olympique Marsiglia, probabilmente nella finale più avara di emozioni che si ricordi. Fu l’ultimo momento di gioia dell’ex Jugoslavia prima dell’autodissoluzione che di lì a poco sarebbe deflagrata a causa della guerra etnico-religiosa.
Terminata la digressione nostalgico-malinconica, è evidente che adesso serve chiarezza da parte dell’Uefa (e di riflesso anche alla Fifa) se vuole evitare che vecchie e nuove creature a dodici teste minaccino nuovamente lo scricchiolante carrozzone del calcio, consegnatosi ormai da vent’anni allo strapotere di sceicchi e oligarchi, che in un modo o nell’altro riescono sempre ad aggirare i regolamenti, in primis la farsa del fair play finanziario. Al numero uno dell’Uefa Aleksander Ceferin, oggi paradossalmente rafforzato nella sua posizione (ma francamente poco credibile nelle vesti di moralizzatore), il compito di riformare questo sport. Perché se il golpe è fallito, la provocazione dei separatisti è comunque riuscita a smuovere le torbide acque di un sistema che così concepito non può avere vita lunga. Ne faccia tesoro.